Mentre mi districo fra i meme e le foto di mimose, cerco non di trovare un senso, perché l’8 marzo un senso ce l’ha eccome, ma di formulare un desiderio. Perché ormai lo sappiamo, giusto? E’ il giorno delle lotte, o per meglio dire della visibilità delle lotte che proseguono tutto l’anno. E’ anche il giorno in cui si parla di donne sui giornali. E’ anche il giorno, appunto, delle chat di Whatsapp con le foto delle mimose, degli sms con gli auguri, dei cioccolatini. Dei meme. Dei nomi delle madri costituenti. Delle scrittrici di ieri e di oggi. Ed è tutto giusto, sia chiaro. Meno giusto è che, ancora una volta, tutto scivoli via allo scoccar di mezzanotte.
Cosa vorrei, dunque?
Vorrei molto soprattutto per le figlie, per le ragazze a cui tutte diciamo di guardare e che in realtà, molto spesso, avvinghiamo in dolci lacci e laccioli proponendo loro di seguire le nostre orme, in modo dichiarato (vedi il monologo di Palombelli a Sanremo) o sottinteso. Vorrei che non fossero obbligate, per cominciare, a essere sempre dalla parte delle giuste. Vorrei che potessero essere persone fino in fondo, con i chiaroscuri e le ambiguità di ognuno di noi che camminiamo sulla terra. E che non debbano essere necessariamente positive, vincenti, col mondo fra le mani, con la capacità di fare tutto. Vorrei che non portassero su di sé quello che è anche un peso gigantesco. Vorrei che non fossero costrette a pensare di noi “ma quando vi togliete dai piedi?”. Vorrei che fossero libere, in una parola.
Libere, in primis, e non ci sarebbe bisogno di dirlo ma occorre farlo, dagli ostacoli e dalle insidie del lavoro che continua a essere negato o reso difficile, o impossibile; libere dal precariato, dall’incertezza, dallo sfruttamento; libere, ma forse questo va detto ancor prima, da ciò che mette a rischio i loro corpi e le loro vite, e ogni giorno avviene, e non sembra potersi fermare; libere dalla scarsa stima altrui, ormai sempre meno dichiarata ma sempre presente; libere di non essere vittime, di non essere lettrici da blandire con copertine finto-adolescenziali che le rassicurino e dicano loro che la letteratura consola e alla fine splende il sole (non è così, la letteratura non consola, la letteratura pone domande), di non essere scrittrici cui si dice “la letteratura è donna” salvo poi (riempire le parentesi a piacere); libere dal dover dimostrare sempre qualcosa; libere dalla paura; libere (posso?) dall’ambizione. Non l’ambizione che ti porta a desiderare una vita migliore, e più felice, qualunque cosa significhi la parola: quella che ti fa vivere guardinga, pronta ad affondare le mani nella prima occasione utile. E si vive malissimo, così. Perché se gli anni che abbiamo alle spalle hanno spinto un’intera generazione alla competizione, le prime a essere state ferite sono state le giovani donne, credo.
Non so se chiedo la luna. Mi piacerebbe che le ragazze (e i ragazzi, infine), potessero in futuro guardarla insieme, la luna, senza ansia, senza sensi di colpa, senza paura. Buon 8 marzo.