Dunque, oggi esce per la terza volta Mozart in rock (lo ripubblica Tlon, con una bellissima copertina): è ancora attuale a distanza di oltre trent’anni? Direi proprio di sì: ma se un giorno uscirà per la quarta volta forse bisognerà fare altre considerazioni.
Provo a spiegarmi.
Nel 1990 scrissi Mozart in Rock a pochi mesi dal bicentenario dalla morte di Mozart. Occasione a parte, si era nel pieno di un dibattito sulla fruizione della cultura negli anni della postmodernità. Il termine rock, dunque, veniva utilizzato in modo simbolico: titoli più altisonanti come Mozart e la fine della metafisica o, a scelta, Il postmoderno in Mozart, avrebbero avuto lo stesso significato: il peso che una filosofia della mutevolezza e un’estetica del frammento avevano allora nell’approccio alla musica in generale. All’epoca, ci si trovava a difendere la cosiddetta Muzak, la musicaccia, la musica di sottofondo, musica da ascoltare distrattamente, in onta agli adorniani: ma anche la musica classica cominciava a venir ascoltata allo stesso modo, gadget inclusi. Mozart in Rock si riferiva insomma al Mozart conosciuto, amato e consumato nell’era del rock. Già negli anni Ottanta, molto prima che Mozart trillasse nelle suonerie di milioni di telefonini, non ci si limitava a idealizzarlo e a vagheggiarlo, a reinterpretarlo in disco, in concerto, in saggio o in biografia.
Già trent’anni fa si disse che l’importante era la musica di Mozart, non la sua vita e tanto meno la sua immagine. Giusto. Ma non valeva, non vale tuttora la pena di concentrarsi su quest’ultima e comprenderne il consumo? E’ più giustificato scandalizzarsi per il duettino del Don Giovanni inserito nella pubblicità dei cotechini o analizzare le modalità di fruizione che i destinatari dello spot applicano a quella musica (e forse anche ai cotechini)? Se fossero proprio quelle storielle, quelle figurine, quei cioccolatini a costituire, anche, un approccio diverso alla musica oltre che all’uomo? Se, insomma, immagine e prodotto artistico avessero conosciuto, proprio con Mozart, una connessione difficilmente spezzabile? O meglio, per continuare con le domande: ha senso continuare, o ritornare a concepire l’opera d’arte come necessariamente, categoricamente aliena da ogni sospetto di consumo, dalla sola idea di poter venire etichettata come “prodotto”? Arte come ciò che è destinato ad essere fruito da pochi, a non venir rimasticata e risputata come melassa per masse?
Serviva a chiarire tutto ciò, quel libro? No. Si ostinava, tramite Mozart, a ritenere il nomadismo dei saperi una forma di conoscenza non meno legittima (e spesso non meno elevata), e a indagare incroci, crossover, mondi che appaiono tra i flutti, anche se destinati ad essere inghiottiti prima di poter diventare Atlantide.
Esattamente dieci anni dopo, scrissi Generazione Pokémon: provando a riflette sulle modalità di fruizione culturale che i bambini e le bambine mettevano in atto attraverso quella che venne giudicata, e lo è ancora, come una colossale operazione di marketing. Sì, anche. Però ponevano altre questioni, come la possibilità di seguire la storia attraverso molte piattaforme, dal videogioco al cartone alle carte collezionabili. Ai tempi uscì un saggio interessante, Merci di culto, di Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi, dove gli autori suggerivano di abbandonare l’ idea faustiana di un controllo del creatore sulla creatura e dicevano che, insomma, la merce ha un proprio destino, pur se imperscrutabile. E ha, in un certo qual senso, una propria sensibilità. Carmagnola e Ferraresi chiamavano tutto questo “animadvertere”, una sintesi tra la parola “anima” e la parola “advertising”: ovvero, se non l’anima, il comportamento animato della merce. Che, come la mente cartesiana, “dubita, concepisce, afferma, nega, vuole, non vuole: immagina anche, e sente”. Perché la Vespa è merce di culto? Perché esprime una felicità di ieri, vera o fabbricata molto bene, come le fotografie d’ infanzia dei replicanti di Blade Runner e come la vita antecedente del giocattolo Woody in Toy story 2. Dal momento che la merce, come tutto ciò che è vivo, non vuole morire, e fa di tutto per guadagnarsi un po’ d’ eternità.
Ancora qualche anno dopo, e scrivo Ancora dalla parte delle bambine: che nasce dallo stesso pensiero. Non sarà che attraverso quel che non guardiamo con attenzione, e che giudichiamo severamente come pop, passa molto della nostra, sì, cultura? Parlavo, in quel libro, di bambole e di pubblicità: non voleva essere un saggio accademico, ma voleva parlare alle ragazze (e infatti venne severamente giudicato dal femminismo accademico, ma pazienza). Voleva vedere con i loro occhi e provare a capire, insieme, cosa non funzionasse in una serie di modelli.
Il nomadismo dei saperi è quello che mi ha sempre attratto, così come mi sono sempre interessata della diffusione della cultura attraverso canali imprevisti. Ci credo ancora, ma pongo una questione, che sviscererò nei prossimi giorni insieme a un’altra scrittrice.
Ovvero: quanto quel nomadismo, allo stato attuale, viene insidiato dal mercato? Perché le cose sono cambiate ancora, e cambiano settimana dopo settimana. Quanto il mercato, oggi, fagocita quella libertà dei saperi condivisi e ne fa una regola? Perché una cosa, per dire, sono le tazzine con la faccia di Mozart o il profilo di Jane Austen. Un’altra cosa è sostenere che Fedez vale quanto Mozart e il best seller romance in testa alle classifiche vale quanto Jane Austen. Tutto non è uguale a tutto, e sostenere la legittimità della fruizione popolare non significa perdere di vista il valore artistico. Ma questo è un discorso lungo, appunto (quanto necessario e importante nel momento in cui i saperi sono stati appiattiti).
Sempre senza perdere di vista il punto di partenza di Mozart in rock, che si riassume in due domande, ovvero “solo all’accademia spetta la divulgazione culturale?”. Anzi due: “la cultura non deve contaminarsi con il cosiddetto pop?”.
Per me, la risposta è sempre stata no.
Sono ancora convinta di questo. Sono ancora convinta che l’accademia e la critica sono indispensabili per restituirci il pensiero e l’opera di un autore o autrice. Ma che il cosiddetto pop aiuti a veicolare quegli autori e quelle autrici: magari avvicinando, in un passo successo, all’accademia stessa. Purché non si confonda il discorso sulla qualità, però.
Nulla di nuovo, nulla, mi auguro, di divisivo. Ma avocare a sé l’unica autorevolezza possibile significa, per me, tornare indietro di molto.