Ci tengo a dire una cosa, e riguarda la presentazione di Morgana-Il corpo della madre di ieri sera a Spazio Sette, con Chiara Tagliaferri, Alessandro Giammei, MP5, Valeria Solarino e tante, e tanti che erano presenti. Michela Murgia, non sembri retorico dirlo, su tutte, perché era presente davvero, con le sue parole e la sua voce e con qualcosa che non è solo ricordo, ma permanenza, non è solo nostalgia, ma riconoscimento e cammino comune.
Questo è quello che volevo dire, infatti: in un mondo spesso soffocante e a volte persino velenoso come quello della letteratura, può nascere e fiorire qualcosa che, banalmente, si chiama amore, ed è fatto di stima reciproca, di obiettivi comuni, di risate e di pianti, e di tutto ciò che si fa quando ci si vuole bene. Si dice così poco, quanto è importante volersi bene. Eppure, è quel che abbiamo.
Oggi pomeriggio alle 18.30 torno a Spazio Sette a Roma per un appuntamento gioioso: presentare Morgana-Il corpo della madre di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. Sarò insieme ad Alessandro Giammei e Valeria Solarino. Ci sarà molto, molto amore.
Approfitto per una nota. In questo ciclo di Morgana c’è anche un capitolo, ed episodio, dedicato a Elena Ferrante, come è giusto che sia. E per una di quelle straordinarie coincidenze (che poi tali non sono), esattamente un 3 settembre di otto anni fa esplodeva il “caso” Elena Ferrante. Ricordate? Fu il momento in cui si apprendeva quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avvenne con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate.
L’inchiesta venne condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump.
L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. E in otto anni hanno continuato a saperlo: leggete Morgana-Il corpo della madre per capirlo. E, certo, non solo per questo.
What I say is, a town isn’t a town without a bookstore. It may call itself a town, but unless it’s got a bookstore, it knows it’s not foolin’ a soul.”
Questo è Neil Gaiman, in American Gods. Ci ripensavo stamattina chiedendomi cosa avremmo detto, Federica Manzon, Rosella Postorino e io questo pomeriggio alle 19 alla Libreria Feltrinelli di Largo Torre Argentina, che giusto oggi si rinnova e apre nuovi spazi per gli incontri.
Così mi è venuto in mente Neil Gaiman e la sua famosissima lectio magistralis tenuta undici anni fa sulla lettura e sui libri.
Dove dice fra l’altro: “Abbiamo l’obbligo di rendere le cose belle. Non lasciare il mondo più brutto di quanto lo abbiamo trovato, non svuotare gli oceani, non lasciare i nostri problemi alle generazioni future. Abbiamo l’obbligo di pulire dopo il nostro passaggio, e non lasciare ai nostri figli un mondo che in maniera miope abbiamo incasinato, deprivato, menomato.
Abbiamo l’obbligo di dire ai nostri politici cosa vogliamo, e di votare contro i politici – di qualunque parte siano – che non capiscono il valore della lettura nella creazione di cittadini consapevoli, e che non vogliono agire per preservare la conoscenza e incoraggiare l’alfabetizzazione. Non è una questione politica, è una questione di umanità”.
Ecco: le librerie e le biblioteche sono i luoghi dove noi che scriviamo e parliamo di libri dobbiamo essere. Per incontrare, per presidiare. Per essere, appunto, umani.
Ci vediamo più tardi.
Ci sarebbero molte cose da dire, su quanto avviene negli ultimi giorni. Non me ne vorrete se rimango sulla scuola. Anzi, dal commento al post di venerdì traggo l’articolo di Girolamo De Michele su Euronomade, apparso in versione più breve sul Manifesto, tanto per capire cosa ci sta accadendo.
“La pubblicazione del decreto contenente le “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica”, lo scorso 7 settembre conferma, e in qualche caso aggrava, le preoccupazioni suscitate dalle anticipazioni dello stesso ministro Valditara, e dal parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che il ministro in buona parte ha ritenuto di non accogliere.
Un rifiuto che riguarda anche alcuni rilievi tecnici, ad esempio sulla confusione tra finalità e obiettivi, tra contenuti e competenze: “approfondire il concetto di Patria” e “Riconoscere il valore dell’impresa e dell’iniziativa privata” competenze non sono, come ha rilevato il CSPI, ed è quantomeno problematica questa confusione terminologica e concettuale in un testo ministeriale”.
“Le Linee Guida dovrebbero offrire “una cornice efficace entro la quale poter inquadrare temi e obiettivi di apprendimento”: ma questa cornice diventa una strozzatura nella immediata delimitazione di questi obiettivi al “sentimento di appartenenza” che deriva dal nascere e vivere “in un paese chiamato Italia”. La stessa esperienze del mondo e del sé del bambino viene ristretta a questo contesto geografico, appiattendo la ricchissima esperienza della formazione del sé di cui si occupano una pluralità di discipline e saperi coinvolti in questa materia trasversale.
Ma qui incontriamo una seconda, più seria strozzatura: la reinterpretazione in chiave unicamente personalistica della Costituzione, cui viene correlata una rilettura degli artt. 41-42 che vede solo l’iniziativa privata e, di fatto, l’individualismo possessivo, tagliando via i limiti all’iniziativa privata, primi fra tutti l’utilità e la funzione sociale.”
E così il ddl Valditara è diventato legge. Tra l’altro, introduce già da questo anno scolastico, ” il voto in condotta nelle scuole medie e nelle superiori (si viene bocciati con il 5 in condotta e rimandati con il 6) e prevede, a carico degli studenti responsabili di aggressioni a danno di dirigenti scolastici, docenti e altro personale della scuola, multe da 500 fino a 10.000 euro. Il testo, inoltre, mette in soffitta i giudizi descrittivi e ripristina i giudizi sintetici nella scuola elementare (sufficiente, buono, ottimo). ”
Né i docenti potranno protestare più di tanto. Ho avuto già occasione di parlarne, ma esiste già da due anni e mezzo il codice comportamentale per i docenti adottato con D.M. n. 105 del 26.04.2022, che all’articolo 13 dispone che il dipendente sia astenga “dal pubblicare, tramite l’utilizzo dei social network, contenuti che possano nuocere all’immagine dell’Amministrazione”.
Non occorre stupirsi. La scuola di governo si delineava già prima della campagna elettorale. Ripubblico dunque qui l’articolo che scrissi per l’Espresso in quell’estate 2022 che sembra tragicamente lontana, e invece ne portiamo tutto il peso.
In un famoso libro del 2004, L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit dicevano: “L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericolo incombenti”. Così è anche peggio: si insegna a desiderare un mondo di efficientamento, e non è un bel mondo.
A proposito di impegno e letteratura. Chiunque abbia letto i giornali, o l’equivalente, in questi giorni, sa perfettamente che ci troviamo in un punto tragicamente critico della nostra storia, e che si torna (ma si è mai smesso?) a parlare di nucleare. Ora, nel tempo, gli scrittori e le scrittrici ne hanno a loro volta parlato. Penso a Moravia e Cassola, proprio la “Liala” sbeffeggiata dal Gruppo 63 (insieme a Giorgio Bassani, peraltro). Dirà di lui Alfredo Giuliani: “Avrebbe voluto scrivere un romanzo puramente poetico. Ma il puramente poetico, se mai è esistito, oggi non lo puoi cercare più. Vagheggiarlo dimessamente colora la scrittura di rosa spento. Vorrei provare a rileggere Il taglio del bosco. Dopo tanti anni, quei racconti saranno svaniti o avranno ancora uno sfuggente bouquet?”.
Io sono cresciuta, peraltro, leggendo il “rosa spento” di Cassola, che è stato uno dei miei iniziatori alla lettura. Ma forse ero un’ingenua e un po’ sciocca ragazzina che non sarebbe piaciuta al gruppo 63. Pazienza.
Mi affascina, e non da oggi, il fatto che le narrazioni per immagini complesse vengano amate da un larghissimo pubblico: per fare un solo caso, penso alla serie televisiva Il problema dei tre corpi, peraltro tratta dal romanzo di Liu Cixin. E mi chiedo perché la stessa cosa non funzioni, o funzioni in parte, per i libri. Certo, ovvio, guardare e leggere non sono la stessa cosa. Però, però, però.
Uno dei grandi problemi di chi scrive e pubblica oggi è che sembra venir meno il principio, altrettanto novecentesco ma sacrosanto, per cui un libro più letterario, o complesso, si pubblicava ugualmente anche se si sapeva che avrebbe venduto poco, perché c’erano le vendite di testi più appetibili che avrebbero compensato.
Non funziona quasi più così. Nella maggior parte dei casi, si chiede a ogni libro di fatturare, di ripagarsi da solo e in fretta: altrimenti, addio, è stato bello, passiamo ad altro.
Quando, ciclicamente, si forniscono le cifre di vendita e qualcuno sbigottisce perché ormai si sottrae uno zero alla medietà recente di 3000 copie (che dieci anni fa sarebbe stata considerata un fallimento e oggi è una meta), non ci si rende conto di quanto sia complessa questa storia, di quanto sia difficile inoltrarsi nella questione della distribuzione, della direzione non artistica ma economica dei grandi gruppi editoriali, di un management che spesso non ha idea di cosa significhi “fare libri”, e di tutta una serie di fattori di cui, secondo me, chi scrive e parla di libri DEVE tenere conto.
Chi legge è cambiato, forse è cambiato anche chi scrive, sicuramente è cambiato chi pubblica.
In On writing, King pone in esergo due frasi contrapposte: la prima, di Miguel de Cervantes, ricorda che l’onestà è la condotta migliore. La seconda, anonima, avverte che i bugiardi prosperano. Entrambe sono vere. Solo se si è onesti nel racconto si può essere bravi scrittori. Ma è anche vero che chi mente sul proprio libro, e asseconda una tendenza, prospera. Cosa significa onestà, dunque? Per me, non sono onesti i libri che INTENZIONALMENTE rientrano nel filone di compiacimento della borghesia di sinistra di cui tanto si parla. I libri che parlano di donne che fioriscono il 25 novembre, per dire, o quelli che parlano di mafia nell’anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, e così via. Ma esistono autrici e autori che quei temi li trattano perché fanno parte della loro storia e della loro poetica, invece. E a quelli occorre dare fiducia, anche se i bugiardi prosperano.
C’è stata, tanto per cambiare, una polemica il giorno dopo l’assegnazione del premio Campiello (ad “Alma” di Federica Manzon), e la polemica medesima, su cui non entrerò qui in dettaglio, o non subito, mi suggerisce una serie di considerazioni certamente non nuove né originali, ma altrettanto certamente prese molto poco sul serio da una parte di chi legge, scrive, fa critica.
Ora, temo che la questione riguardi proprio la categoria “lettori di storie”, che da qualche anno a questa parte vengono declassati a lettori ingenui e di bocca buona, quelli (e quelle, soprattutto) che mandano in classifica o incoronano testi che letterariamente e soprattutto linguisticamente sono poveri, volutamente facili per compiacere chi legge. Non sono certa che sia così. Missitalia di Claudia Durastanti, per fare un esempio, è un romanzo di storie e non è in alcun modo facile e ne cito solo uno, per ora. Di contro, come notava con intelligenza una commentatrice sull’altrettanto intelligente post di Helena Janeczek, non è vero che ci sia un immaginario romanzesco femminile che sta sostituendo quello maschile, come scrive oggi Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera. E’ vero invece che ci sono sempre più scrittrici che raccontano storie, e storie che riguardano il mondo, e sempre più scrittori che raccontano se stessi. In sé, non è un bene e non è un male: è un fatto, e ci sono libri meravigliosi fra quelli maschili e intimisti e libri mediocri fra quelli che raccontano storie, come è normale che sia. Ma forse questo fornisce una spiegazione diversa del successo delle autrici rispetto alla litania “si premia una donna perché è politicamente corretto” o “si premia una donna perché affronta un tema alla moda o gradito alla vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia”. Le virgolette non si riferiscono a un particolare intervento ma alla summa di una serie di interventi, nessuno si offenda. Semmai, io trovo un po’ noiosa, più che offensiva, questa dicotomia fra etica a estetica.
Dunque? Dunque per ora mi fermo qui, sperando che la discussione prenda una piega diversa dall’accusa di semplificazione, o peggio di essere tutte Sintara Golden (lo scrivo io prima che piombino altri), stereotipo della scrittrice politicamente corretta e dunque di successo raccontata in American Fiction. Le cose sono molto più complicate di quanto non si creda: gli stessi lettori e lettrici non sono più classificabili in ingenui e avvertitissimi, sono una miscellanea di nicchie, in un paese dove leggere è una nicchia. Far loro torto, e ripetere che non capiscono la vera bellezza (sottotesto) non porta, temo, da nessuna parte.
Per una serie di circostanze, in questi giorni malaticci ho pensato parecchio al sistema editoriale e a cosa si chiede a chi scrive. Intanto, come è ovvio, si chiede di vendere, e di vendere possibilmente subito, nel giro di due settimane. Qualora non ci si riesca, come ben sanno coloro che scrivono, non solo il libro torna in resa, ma il numero di copie vendute peserà sui libri successivi come il cuore dell’ingiusto nella psicostasia egizia, e le prenotazioni verranno ridotte ai minimi, innescando una spirale di condanna silenziosa da parte di (alcune) librerie e di (alcuni) editori. Come se fossero gli autori a dover vendere e non gli editori e i librai a contribuire alla vendita, visto che in fondo gli autori dovrebbero solo scrivere, ma facciamo finta che sia così.
La logica è comprensibile, trattandosi di un mercato: che sia anche una logica pagante è tutto da vedere, però. Anche perché per bilanciare quell’esiguità di vendite si chiederà dunque all’autore o all’autrice di spendersi in presentazioni, di essere presente il più possibile con il suo corpo e la sua eventualità abilità di performer. Che però dovrebbe essere un altro lavoro: l’intrattenitore o intrattenitrice, appunto, e non lo scrittore o la scrittrice.
Cosa voglio dire, infine? Niente che chi scrive non sappia già. Ovviamente resta la libertà di sottrarsi, di dire no, di fare spallucce e di continuare a scrivere quello che si ritiene giusto. Mi chiedo soltanto per quanto tempo questo sistema potrà sopravvivere e quanto, alla fine, dei corpi degli autori e delle autrici si farà a meno: perché lo spettacolo va bene, ma troppo spettacolo finisce con l’allontanare. Poi, al solito, io resto convinta che siano le reti a funzionare, che siano le connessioni fra piccole realtà, dove i numeri di copie vendute e la performance contano molto meno dei progetti comuni. Ma magari ho torto, anzi di sicuro.
Ho letto sul Corriere della Sera la lettera che Dacia Maraini ha scritto a Papa Francesco a proposito della sua presa di posizione sui candidati alle presidenziali degli Stati Uniti.
Scrive, tra l’altro, Dacia:
“Lei afferma che fra Donald Trump e Kamala Harris non ci sono differenze, perché l’uno vuole cacciare gli emigranti dal paese lasciandoli morire e l’altra rivendica l’assassinio dei bambini nella pancia delle madri che dovrebbero nutrirli e metterli al mondo.
Quindi: «votate per il male minore», ha concluso salomonicamente.
Mi perdoni se mi permetto di rilevare che per un comune lettore (e sappiamo quanti lettori ed estimatori lei abbia), risulta chiaro che chi uccide i figli che devono nascere non è il minore ma il maggiore dei mali”.
Dacia Maraini ricorda anche quello che viene detto da cinquant’anni e più: interrompere una gravidanza non è il desiderio di uccidere, ma la rivendicazione della libertà di decidere se essere o meno madri. Quante volte è stato ripetuto questo concetto? Infinite, da quando avevo vent’anni. Cosa è andato storto?