Rito del mattino: caffé,  yogurt, libro da rileggere, rassegna stampa online. Bene. Sulla newsletter del Corriere della Sera, a proposito di Sanremo 2025, leggo:

“Quello che è certo, perché l’ha detto ufficialmente Conti, è che nelle canzoni «non si parlerà di guerra e immigrazione», ma di «famiglia e rapporti personali». Per carità, meglio non rischiare con temi difficili, meglio mantenere buoni rapporti con tutti, a partire dal governo, meglio restare nazionalpopolari e mettere da parte l’impegno”.

Ti pareva, penso. 
Poi però mi chiedo: di cosa parla la maggior parte dei romanzi italiani usciti o in uscita? Famiglia e rapporti personali. 

Non vediamo i conflitti. Vediamo soltanto noi e la nostra posizione all’interno di quei conflitti.
Questa è una di quelle mattine in cui mi interrogo sul perché abbiamo un governo di destra, e sul perché le destre ascendono un po’ ovunque. Questa è anche una di quelle mattine in cui torno a quindici anni fa, a quell’autunno 2009 in cui nasce il Movimento 5 Stelle: che nella prima fase almeno ha accolto il risentimento e lo smarrimento di chi non si sentiva riconosciuto, ma spesso trasformandolo in pura negazione. Curiosamente, The Dome esce proprio nel 2009. E’ fra i romanzi più controversi di Stephen King, per struttura e anche per il tono amarissimo, come se non ci fosse – o quasi- via d’uscita. 
Quando i social hanno favorito la presa di parola , l’atteggiamento generale è stato quello di definire chi protestava come  imbecilli, ignoranti, scomposti. Il che rafforzava la collera verso  la  “casta” è il disprezzo verso i “saputelli” o  “colti”, che per il fatto di esser tali con la casta medesima sono giocoforza collusi. E questo è uno dei punti da meditare bene: perché il disprezzo verso i cosiddetti intellettuali non è faccenda nuova, ha attraversato quasi tre decenni in varie forme e canali, ed è diventato ancora più profondo. Colpa di chi? In parte, certo, anche di un modo di concepire il lavoro intellettuale come distaccato dal sociale e dal quotidiano. In parte, di un “frame”  da cui non ci si libera perché non viene affrontato.
Perché ci penso oggi?
Perché continua a sembrarmi difficile battere questo governo se prima non riusciamo a vederci e a vedere. C’è un gigantesco lavoro di ricostruzione da fare, e dobbiamo pur cominciare a farlo. Partendo da noi, credo.

Nel trentennale della morte di Franco Fortini, provo a fare una riflessione sulla diffusione della cultura, e provo a farla tirandomi fuori dalla marea di polemiche di questi giorni.
Perché Fortini? Perché una decina di anni fa, un po’ per amore, un po’ per gioco, un po’ perché all’epoca le poesie di Fortini erano introvabili, ho cominciato a postare una poesia (o parte di una poesia) su Facebook, tutte le sere. Era diventato un appuntamento per parecchi commentatori, quello col “Fortini della sera”: preciso che non aggiungevo commenti, o interpretazioni, o critica. Pubblicavo e basta. Così come era cominciata, finì: finì, anzi, con la ripubblicazione delle poesie, e tanto basti.
Ora, a diversi anni di distanza, alcuni, che sono indubbiamente molto più titolati di me, hanno storto il naso su quell’esperimento, giudicandolo incongruo e soprattutto giudicando inadatta me a parlare di Fortini. E’ verissimo: basti dare un’occhiata ai partecipanti ai convegni che ne hanno celebrato in queste ore il trentennale per capirlo. 
Il punto è che io non volevo essere titolata: volevo far arrivare le parole e i versi di Fortini a chi non lo conosceva.
Segue con Virginia Woolf, Mozart, i Pokémon e le Winx.
Sono ancora convinta che, certamente, l’accademia e la critica sono indispensabili per restituirci il pensiero e l’opera di un autore o autrice. Ma che il cosiddetto pop aiuti a veicolare quegli autori e quelle autrici: magari avvicinando, in un passo successo, all’accademia stessa. 
Nulla di nuovo, nulla, mi auguro, di divisivo. Ma avocare a sé l’unica autorevolezza possibile significa, per me, tornare indietro di molto.

E’ il 9 gennaio 1979, le 10.20 del mattino. A Radio Città Futura ci sono cinque donne: Anna Attura, 38 anni, Rosetta Padula,35 anni, Carmela Incafù, 58 anni, Gabriella Pignone, 47 anni, Annunziata Miolli, 55 anni. Gestiscono uno spazio che si chiama  Le donne escono dalle cucine. Facevano parte del Collettivo delle casalinghe, che si formò ascoltando Radio Donna, all’interno di Radio Città Futura.
Tre uomini col passamontagna fanno irruzione nella sede della radio. Lanciano bombe incendiarie. Sparano raffiche di mitra contro le donne.
I tre fascisti dei Nar erano Valerio Fioravanti, Alessandro Pucci, Dario Pedretti. Lo scrivo perché i nomi bisogna pur ricordarli.
Pubblico questa storia perché ieri, scrivendo l’articolo (oggi su La Stampa) su Covando un mondo nuovo di Paola Agosti e Benedetta Tobagi, ho riflettuto a lungo sulle parole di Benedetta, e sui miei ricordi:

“Questa – racconta Tobagi, – è una delle cose che mi ha colpito di più dei femminismi di allora: la costante preoccupazione di raggiungere tutte le donne, anche se diverse per area geografica, classe sociale e cultura. Raggiungerle e portare loro il Self Help o i consultori, o appunto aprire i microfoni delle radio. Dov’è finito quel patrimonio? Allora si cercava di avvicinare le donne che non avevano gli strumenti. A un certo punto si è smesso di farlo, e le casalinghe guardavano e guardano le televisioni di Berlusconi. “

Con i miei tempi, con i miei modi. Che non valgono per le altre e gli altri, dunque questa non è una lezioncina su come si fa polemica.
Sì, l’invito a Caffo è stato un errore e sì, anche il modo in cui è stato inizialmente rivendicato.
E bisognerà parlarne molto e molto ancora. Non in vista di una pacificazione, ma proprio per far sì che dissenso e spaccature producano altri fatti e altre azioni. E mutazioni, anche. E comprensioni reciproche: non accordi, comprensioni, che sono cosa diversa.
Quanto a Più Libri. Ci andrò.  E non perché ho paura (ma di chi? Ho 68 anni, sai che paura). Non perché voglio vendere il librino (i libri non vendono alle fiere, vi do questa notizia. Si vendono nelle librerie e nei territori). Non perché qualcuno mi stronca la carriera, perché sono vecchia e non ho carriere da costruire, e il potere non mi interessava prima e a maggior ragione non mi interessa adesso. 

Ci andrò perché altre persone sarebbero venute al Salone ai tempi di Altaforte, se non si fosse trovata infine la soluzione auspicata. Perché ci sono piccoli editori che hanno investito negli stand. Che costano. O autori e autrici che diranno cose importanti. O che interverranno negli spazi messi a disposizione per riflettere su quanto avvenuto.  Capisco anche chi non va e chi si sottrae: una sottrazione politica come quella di Giulia Siviero, o sottrazione personale E politica come quella di Fumettibrutti.

Ci andrò perché questa storia ci ha segnato e segnerà. E abbiamo bisogno di parlarne, molto a lungo. Io, almeno.

Mi si dice che l’Erbio è un elemento delle terre rare (niente fiabe, ma 17 elementi chimici, tranquilli). Mi si dice che è un lantanoide, un metallo malleabile, tenero, abbastanza stabile all’aria. Ah, e resiste pure all’ossidazione, pensa un po’. Mi si dice che 68 è il suo numero atomico.
Mi pare una bella cosa. Anche se per me 68, e anche per molti altri, significa altro. Prima che calino qui certi studiosi a dire che no, il movimento del 68 è stata una cosa brutta che ha fatto tanto male alla nostra società, dico che per me è esattamente il contrario, e che quando ci sono azioni e pensieri dal basso in grado di aggregare contro certi poteri, è sempre vitale.
E nel giorno in cui compio 68 anni formulo una serie di auspici.

La lettura dei giornali di stamattina mi ha fatto soffermare su questo articolo di Dionne Searcey per il New York Times. Dove si prova a rispondere alla domanda che tutte e tutti ci siamo fatti: perché le donne hanno votato Trump? Non tutte, ovviamente, ma neanche poche. I sondaggi all’uscita dalle urne mostrano che il 45 % delle elettrici ha votato per  Trump, e molte più donne bianche hanno votato per Trump rispetto alle donne nere.
E veniamo alle votanti. E soprattutto a chi le incitate al voto.
Intanto, il gruppo di Moms for Liberty, organizzazione che fa di ProVita&Famiglia un covo di anarco-insurrezionalisti, al confronto (si scherza, buoni): nascono per contrastare la sessualità, i diritti LGBTI, ovviamente il fantomatico gender e quant’altro. Le mamme per la libertà sono associate ai Proud Boys, organizzazione neofascista di estremissima destra. Ma il loro mantra è “proteggiamo i bambini”. Funziona. Al New York Times, la cofondatrice Tiffany Justice dice che l’elezione di Trump rappresenta “la liberazione delle donne dai giorni bui del cosiddetto femminismo”.
Pensavamo che fosse cosa di ieri, e che Schlafly fosse ormai un nome da museo, o da bar delle Zie in Testamenti di Margaret Atwood. Invece no. 
Quello che è accaduto, dice Searcey, è che la popolarità del femminismo, e il femminismo pop del film Barbie, di Beyoncé e di Taylor Swift non si sono tradotti in cultura politica. E questo è un gigantesco problema.
E soprattutto, “molti storici dei movimenti per l’uguaglianza delle donne nel corso dei decenni affermano che i risultati ottenuti spesso non hanno beneficiato tutte le donne; piuttosto, hanno aiutato le donne privilegiate ad assicurarsi maggiori opportunità nella società. La lotta per l’uguaglianza legale ha permesso alle donne con i mezzi necessari di pagarsi l’università e trovare lavori con buoni stipendi, per esempio. Questo è uno dei motivi per cui le donne non sono state unite”.

Se qualcuno avesse nutrito dubbi su cosa sia X di Elon Musk, posso garantire che ho passato parte del pomeriggio e della serata di ieri a bloccare fascisti. Per meglio dire: account in gran parte finti con nomi improbabili.
Non scrivo niente di nuovo, ovviamente. Né sto dicendo di lasciare X: sono stata sempre convinta che i territori, sia pur virtuali, vadano presidiati. Anche se costano la piccola fatica di premere il pulsante “blocco”: ovviamente, non si discute con i Bot. 
Ah, cosa avevo scritto per far infuriare questi signori e signore? Avevo postato la vignetta di Gianluca Costantini su Christian Raimo, che come forse è noto ha ricevuto tre mesi di sospensione dall’insegnamento per aver paragonato la politica scolastica del ministro dell’Istruzione Valditara alla Morte Nera di Star Wars. Su cui ci sarebbero parecchi ripassi da fare, e parecchia memoria da rievocare, perché, se ricordate, quell’arma di distruzione che era la Stazione Orbitale da Battaglia DS-1, detta in originale Death Star, è simile a una luna oscura ma ha un cannone laser così potente da poter distruggere un pianeta in pochi secondi. Basta vedersela orbitare sopra la testa per essere terrorizzati.
Star Wars a parte, ci sono parecchie cose su cui riflettere in questa vicenda.

Certo che conta la resistenza a votare per una donna (a meno che non sia “materna” come si è proposta da noi Giorgia Meloni). Certo che conta la paura e tutto quel che si sta dicendo.
Conta anche qualcos’altro: ovvero, combattere Sauron usando l’anello (e due).
Me lo ha ricordato ieri un caro amico, inviandomi questo reportage di Gary Younge di otto anni fa, quando Trump venne eletto per la prima volta: reportage usato da Mark Fisher nelle sue ultime lezioni. E che dovrebbe farci capire che abbiamo bisogno di reinventare (una politica diversa da questa) e reincantare (altre parole, altre narrazioni). E agire, ovvio.
“La gente ha maturato la convinzione di non avere voce in capitolo su ciò che sta accadendo alle loro vite. Ecco perché lo slogan “Take Back Control” ha avuto tanto successo durante il referendum sulla Brexit. Lo Stato nazionale è ancora la principale entità democratica, ma data la portata della globalizzazione non è più all’altezza del compito di soddisfare le esigenze dei suoi cittadini. Gli elettori vedono persone che attraversano confini che non possono chiudere, vedono perdere posti di lavoro che non difendere e si chiedono come possono farsi valere nel mondo.
Trump e i suoi omologhi sono spesso descritti in Europa come una minaccia alla democrazia. Ma in verità sarebbe meglio vederli come il prodotto di una democrazia già in crisi.”

“In fin dei conti il drago è un predatore di ricchezze altrui, orrendo straniero nelle parole del poema, e inoltre sappiamo bene che i legittimi custodi dei tesori medesimi possono a loro volta diventare draghi comunque, come ci insegna la parabola di Thorin Scudo di Quercia”.

Così Edoardo Rialti nel suo discorso di accettazione del Drago d’oro per la traduzione a Dozza, poche settimane fa. Mi rivolgo alle parole delle storie perché non ne ho altre, e troppe ne verranno dette e scritte in queste ore. Non sono un’americanista, non ho le giuste competenze, e dire la mia conta come uno starnuto in una tempesta.
Però qualche sensazione posso condividerla.
Davvero chi ha votato Trump, come chi ha votato Meloni in Italia, pensa di ottenere una vita migliore alzando muri contro l’immigrazione e illudendosi di pagare meno tasse e avendo certezza di maneggiare più armi?
Perché a me continua a sembrare questo il punto: che cosa vogliono i votanti di destra per le proprie vite?
Ripesco un vecchio intervento di Girolamo De Michele (era il 2007):
” la paura non è più la risposta politica alla domanda di sicurezza, ma la situazione entro la quale viene contrattato un nuovo scambio sociale”.
E poi bisognerebbe ripescare Nina Power quando diceva che dovremmo smettere di desiderare “un’esca democratica”, la donna-emblema nei luoghi di potere, ma agire sul piano della rappresentazione prima ancora che della rappresentanza. Rovesciare il tavolo, come diceva Ursula Le Guin, invece di twittare gioiose perché, guarda, al potere c’è una donna (poi ci sarebbe la faccenda dei poteri buoni che non esistono, come cantava Fabrizio De Andrè: ma arriviamoci per gradi). (se ci arriviamo).

Loredana Lipperini
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