Se qualcuno avesse nutrito dubbi su cosa sia X di Elon Musk, posso garantire che ho passato parte del pomeriggio e della serata di ieri a bloccare fascisti. Per meglio dire: account in gran parte finti con nomi improbabili.
Non scrivo niente di nuovo, ovviamente. Né sto dicendo di lasciare X: sono stata sempre convinta che i territori, sia pur virtuali, vadano presidiati. Anche se costano la piccola fatica di premere il pulsante “blocco”: ovviamente, non si discute con i Bot.
Ah, cosa avevo scritto per far infuriare questi signori e signore? Avevo postato la vignetta di Gianluca Costantini su Christian Raimo, che come forse è noto ha ricevuto tre mesi di sospensione dall’insegnamento per aver paragonato la politica scolastica del ministro dell’Istruzione Valditara alla Morte Nera di Star Wars. Su cui ci sarebbero parecchi ripassi da fare, e parecchia memoria da rievocare, perché, se ricordate, quell’arma di distruzione che era la Stazione Orbitale da Battaglia DS-1, detta in originale Death Star, è simile a una luna oscura ma ha un cannone laser così potente da poter distruggere un pianeta in pochi secondi. Basta vedersela orbitare sopra la testa per essere terrorizzati.
Star Wars a parte, ci sono parecchie cose su cui riflettere in questa vicenda.
Certo che conta la resistenza a votare per una donna (a meno che non sia “materna” come si è proposta da noi Giorgia Meloni). Certo che conta la paura e tutto quel che si sta dicendo.
Conta anche qualcos’altro: ovvero, combattere Sauron usando l’anello (e due).
Me lo ha ricordato ieri un caro amico, inviandomi questo reportage di Gary Younge di otto anni fa, quando Trump venne eletto per la prima volta: reportage usato da Mark Fisher nelle sue ultime lezioni. E che dovrebbe farci capire che abbiamo bisogno di reinventare (una politica diversa da questa) e reincantare (altre parole, altre narrazioni). E agire, ovvio.
“La gente ha maturato la convinzione di non avere voce in capitolo su ciò che sta accadendo alle loro vite. Ecco perché lo slogan “Take Back Control” ha avuto tanto successo durante il referendum sulla Brexit. Lo Stato nazionale è ancora la principale entità democratica, ma data la portata della globalizzazione non è più all’altezza del compito di soddisfare le esigenze dei suoi cittadini. Gli elettori vedono persone che attraversano confini che non possono chiudere, vedono perdere posti di lavoro che non difendere e si chiedono come possono farsi valere nel mondo.
Trump e i suoi omologhi sono spesso descritti in Europa come una minaccia alla democrazia. Ma in verità sarebbe meglio vederli come il prodotto di una democrazia già in crisi.”
“In fin dei conti il drago è un predatore di ricchezze altrui, orrendo straniero nelle parole del poema, e inoltre sappiamo bene che i legittimi custodi dei tesori medesimi possono a loro volta diventare draghi comunque, come ci insegna la parabola di Thorin Scudo di Quercia”.
Così Edoardo Rialti nel suo discorso di accettazione del Drago d’oro per la traduzione a Dozza, poche settimane fa. Mi rivolgo alle parole delle storie perché non ne ho altre, e troppe ne verranno dette e scritte in queste ore. Non sono un’americanista, non ho le giuste competenze, e dire la mia conta come uno starnuto in una tempesta.
Però qualche sensazione posso condividerla.
Davvero chi ha votato Trump, come chi ha votato Meloni in Italia, pensa di ottenere una vita migliore alzando muri contro l’immigrazione e illudendosi di pagare meno tasse e avendo certezza di maneggiare più armi?
Perché a me continua a sembrare questo il punto: che cosa vogliono i votanti di destra per le proprie vite?
Ripesco un vecchio intervento di Girolamo De Michele (era il 2007):
” la paura non è più la risposta politica alla domanda di sicurezza, ma la situazione entro la quale viene contrattato un nuovo scambio sociale”.
E poi bisognerebbe ripescare Nina Power quando diceva che dovremmo smettere di desiderare “un’esca democratica”, la donna-emblema nei luoghi di potere, ma agire sul piano della rappresentazione prima ancora che della rappresentanza. Rovesciare il tavolo, come diceva Ursula Le Guin, invece di twittare gioiose perché, guarda, al potere c’è una donna (poi ci sarebbe la faccenda dei poteri buoni che non esistono, come cantava Fabrizio De Andrè: ma arriviamoci per gradi). (se ci arriviamo).
“Prima trave: buttare fuori i cialtroni” (applausi, applausi). “Volete sapere perché porto quest’elmetto, amici e concittadini? Ve lo dico, perché. Lo porto perché quando mi manderete a Washington, io passerò loro attraverso come quell’affare attraverso un canneto! Li spazzerò via esattamente così!” (segue simulazione di un toro che carica. Applausi, applausi). Le altre travi, per la cronaca, sono la messa al bando di chi “fornica” con “qualche pollastra che non sia sua moglie” (con i nostri soldi!), mandare la spazzatura nello spazio, usare le “maniere forti” con “quegli arabi” per avere tutta la benzina e petrolio che servono. E l’ultima trave? Facile: salsicciotti caldi “per ogni uomo, donna e bambino d’America! E quando avrete eletto Greg Stillson alla Camera, direte: Salsicciotto caldo! Finalmente c’è qualcuno che ci pensa!”.
La zona morta, la preveggenza, le elezioni americane.
In poche parole, la notizia è questa. Una radio pubblica regionale polacca, Off Radio Kraków, licenzia i suoi conduttori e li sostituisce con Emi, Kuba e Alex, giovani e ammalianti speaker che si rivolgono alle nuove generazioni. E che non esistono, ma sono creati dall’intelligenza artificiale.
Oggi però ci torna il New York Times, raccontando la rabbia di uno dei conduttori licenziati, Lukasz Zaleski, dopo lo scoop dell’emittente: nientemeno che un’intervista a Wislawa Szymborska, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996. Molto convincente, a quanto pare: anche se la poetessa è morta nel 2012.
Si dirà che molti lo sanno: ma non ci conto troppo, se penso alle volte in cui è stata fatta ri-morire Doris Lessing sui social. Né siamo nel campo delle interviste impossibili: perché in quel caso il gioco è dichiarato e l’intervistato è interpretato da un attore o un’attrice. Certo, si annunciano bis: come la nuova intervista col morto, Jozef Pilsudski, il leader della Polonia nei primi anni del Novecento.
Bene, ma si può fare?
Tutti gli anni qualcuno ha qualcosa da dire contro Halloween.
A mia memoria cominciò davvero molto tempo fa, e lo ricordo perché ne parlai a Lampi. Sul Corriere della Sera del 2 novembre 1998 venne pubblicato un editoriale di Ernesto Galli della Loggia titolato “Feste, fantasmi e zucche vuote”.
Lo scorso anno, oltre ai parroci seccati dal rito satanico, fu Stefano Massini a condannare il rito.
Ma come ogni anno tocca ricordare che Halloween, l’antica Samhain (non è un prodotto d’importazione: basterebbe leggere i libri di Eraldo Baldini sull’argomento, o persino googlare, per saperlo), è esattamente il momento in cui da sempre, con guerre e carestie in corso, prendiamo atto di quel che siamo: donne e uomini che danzano in un cono di luce, circondati dalle tenebre.
Io sarò a Lucca, stanotte, anche se non ho l’età e un po’ mi preoccupo. Domattina alle 10 presento il Segno del Comando all’Auditorium di San Girolamo, ed è un modo di attraversare la notte, no?
A lunedì.
Dunque, da oggi Il segno del comando è in libreria (e negli store digitali) ed è insieme lontano e fedele all’originale (stessa ambientazione, stesso tempo – una manciata di giorni di fine marzo 1971- stessi personaggi o quasi). Ma il lavoro di riscrittura che ho fatto trasforma quei personaggi in altro: a quelli già presenti fornisce una storia e una motivazione, alcuni vengono modificati, altri sono nuovissimi.
Per usare una definizione datami da un caro amico che lo sta leggendo, lo sceneggiato è in bianco e nero, il romanzo è a colori.
Perché c’è la cronaca di quegli anni, sullo sfondo e a volte in primo piano, e ci sono gli scrittori e i ribelli e le sognatrici e studiose che si aggiravano per Roma esattamente negli stessi giorni in cui il professor Forster si smarrisce nella città, ammaliato come fu il suo Byron, di cui spesso riprende e cita versi e sensazioni.
Il mio Forster, dunque, ha qualcosa di Sir Gawain, e comprende del femminile molto più del suo originale: mi interessava creare un eroe imperfetto (cit.) pieno di dubbi e ripensamenti, che attraverso la poesia che tanto ama arriva infine a capire che la realtà non è solo quella che si vede e si tocca. E che le donne possono insegnargli molto.
La mia Barbara ha “Sputiamo su Hegel” in borsa, e non poteva che essere così, nell’anno appena precedente alla grande manifestazione femminista del 1972 a Campo de’ Fiori.
Quanto a Lucia, e al finale, non dico nulla, perché il gioco si può svelare fino a un certo punto.
E’ un gioco? Un esperimento? E’ un romanzo, che spesso somiglia al gioco e a volte sperimenta strade ibride come questa.
Tutto vostro, da oggi, e speriamo che amiate leggerlo come io ho amato scriverlo.
L’ho scritto per L’Espresso qualche settimana fa. Ripensando, oggi, al Ministero della Cultura, lo posto qui.
“Se abbiamo una gloria nazionale, questa è l’opera buffa, che peraltro nasce con l’intento di avvicinare i nobili personaggi della lirica agli spettatori comuni. Ci è riuscita talmente bene che alla fine di una settimana dove un Ministero della nostra Repubblica è diventato oggetto di meme e parodie, il paragone che salta alla mente è quello con Despina. Appare in Così fan tutte, musica di Mozart, libretto di Lorenzo Da Ponte: è un’astuta servetta che, un po’ per noia e un po’ per soldi, accetta di celebrare un matrimonio finto vestita da notaio. Viene scoperta, ma mente meravigliosamente, dicendo che si era solo mascherata per un ballo, e gorgheggia: “Una furba che m’agguagli, dove mai si troverà?”.
Perché va bene inarcare tutte e due le sopracciglia per il trascorso neofascista di Alessandro Giuli, ma, per usare un’espediente che all’opera buffa è caro, bisognerebbe anche dare un’occhiata al catalogo dei ministri della cultura del passato.
Sandro Bondi, per esempio. Pochi, credo, dimenticano la sua poesia A Silvio (Berlusconi): “Vita assaporata/Vita preceduta/Vita inseguita/Vita amata” (e qui ci fermiamo, perché neanche i Vogon di Guida galattica per gli autostoppisti, che sterminavano i nemici con i loro orridi versi, resisterebbero a tanto). Ma molti hanno dimenticato il crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei (che evidentemente è fatale ai ministri della cultura) nel 2010, per piogge, e mancati investimenti dovuti al taglio, due anni prima, di oltre un miliardo di euro.
Segue.
C’è un Festival a Roma per cui bisognerebbe ogni giorno ringraziare: è InQuiete, che nasce nel 2017, e sembra ieri. A InQuiete ci si incontra. E noi abbiamo bisogno di questo.
I tempi sono sempre più stretti. Soprattutto dopo la pandemia. So che tendiamo a non parlarne più, come se non fosse mai avvenuta, ma portiamo addosso tutti i segni di quel trauma. Siamo stanchi, tristi, inquieti (appunto), dormiamo male, ci svegliamo all’alba, ci intorpidiamo in serate alcoliche o televisive, usciamo con circospezione, scalpitiamo, non ci ricordiamo quasi com’era prima, e prima era quattro anni e mezzo fa, soltanto quattro anni e passata la scarica di adrenalina dei primi mesi del 2020 ci siamo lasciati alle spalle tutto o quasi.
Non siamo felici, quasi mai.
Ma le cose finiscono. Finiscono certamente anche se non sappiamo quando, e tutti noi vorremmo, di certo, essere già in avanti, essere ai tempi in cui l’Associazione Storica di Studi Gileadiani, presieduta dalla Prof.ssa Maryann Crescent Moon, si riunisce a convegno per raccontare qualcosa che è diventato, appunto, storia.
Far finire il trauma della solitudine è possibile attraverso due cose: gli incontri e le storie. InQuiete permette entrambe. Certo, ci vorrà ancora tempo, ma almeno le basi vengono poste.
Ieri sono successe alcune cose: una in apparenza ininfluente, l’altra meno, e tutte e due riguardano la cultura e quello che noi intendiamo per cultura.
La prima: lo sbigottimento di alcuni perché in Cose (molto) preziose si è parlato (anche) di Twilight, ed è interessante notare come l’osservazione delle predilezioni di lettura delle ragazze (e dei ragazzi) sia “aria fritta”, e non una parte importante del discorso culturale, come Umberto Eco sostenne sessant’anni fa in Apocalittici e Integrati, e sembra che quei sessant’anni siano passati invano.
Cosa ha a che vedere questo (vecchio) discorso con il ministero della Cultura e il gran pasticcio di queste ore? Sul pasticcio non mi soffermo, perché pur interessandomi alla cultura popolare non sono particolarmente attratta da questo genere di intrattenimento fatto di amanti e rivelazioni sensazionali. Mi interessa, invece, capire cosa si intende per cultura, in assoluto. Da parte di questo governo e pure di quelli precedenti, già che ci siamo.