Sette Saloni dopo, domani torno al Salone del libro di Torino. Ci torno con uno stato d’animo strano: perché è il primo Salone da ospite e l’ultimo da conduttrice di Fahrenheit, ma ci torno comunque con la gioia che mi ha accompagnato in questi sette anni e con cui ho attraversato un’esperienza non dimenticabile.
Oggi c’è un nuovo gruppo di lavoro, di cui fanno ancora parte vecchi compagni di strada, a cui vanno gli auguri miei e, spero, di tutti. Sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano ricorda stamattina una frase di Ernesto Ferrero: “Questa voglia di essere presenti ai grandi eventi culturali rivela una passione politica non soddisfatta da nessuno. È come un’offerta di disponibilità, un’esigenza di impegno che non trova ascolto altrove”.
Non so se sia ancora così. Sicuramente c’è voglia di stare insieme al di là dell’occasione, al di là del “vado e saluto tutti” e del “vado a presentare il mio libro”. Di questo occorre tener conto. Per il resto, ci vediamo a Torino.

Va così. Fino a dopo il Salone gli aggiornamenti del blog saranno discontinui e saltellanti, come me. Quindi, per ora, un articolo uscito a marzo su Linus (prometto che recupererò).
Parlo di sciamane: i libri di Mary Poppins ritradotti, anzoni funebri per ragazze quasi morte di Cherie Dimaline, Quando avevamo le ali di Ayanna Lloyd Banwo

IL RE DEI MOSTRI

Oggi esce per Salani Il re dei mostri. È la seconda avventura del Senzacoda che mi ha dato gioia e divertimento. È nata nella mia testa da quando, un paio di anni fa, il gatto Altair rimase chiuso per una notte dentro il garage dei vicini. Dopo il panico e il sollievo, mi sono messa a pensare, e il benedetto “e se?” mi ha portata in un’ avventura dove fra i gatti di Ulthar (sempre grazie, Lovecraft) e i mostri sgangherati che abitano i sogni dei bambini nasce una controversa alleanza. Perché quando le tenebre si infittiscono bisogna unirsi.

E così è passato l’emendamento che permette ai No Choice di annidarsi nei consultori, agitando, si suppone, gli spettri che hanno sempre evocato, e sussurrando la parola “assassina” più o meno apertamente. Inutile che assicurino che non lo faranno. Lo hanno sempre fatto. Anche se ora, sul sito di Pro Vita & Famiglia, assicurano:
“non è assolutamente vero, come propinato da fake news ideologiche in questi giorni, che l’emendamento farà entrare le associazioni pro life nei consultori.”
Ah no? L’emendamento approvato dice che le Regioni possono “avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”.
Vediamo la qualificata esperienza. Non so quanta possa chiamarsi “esperta” la «onlus laica e aconfessionale» Pro Vita&Famiglia. La stessa che nel 2018 riempiva le città con il manifesto «Sei qui perché tua mamma non ha abortito», che nel 2020 ha pubblicato le immagini di due feti con la scritta «Quale dei due è stato concepito da uno stupro?”», che ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per far sì che il medico della ecografia pre-aborto sia obbligato a far sentire alla donna il battito cardiaco.

Sono accadute parecchie cose in questo week end e credo che molti di voi le sappiano già. Parlo della censura televisiva ad Antonio Scurati, nonché di quelle, emerse subito dopo, a Nadia Terranova e Jennifer Guerra. Non è la prima volta che avviene, d’accordo, ma è inquietante la modalità, è inquietante il contesto.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi.
Voglio parlare di un’altra cosa, che è molto importante quanto rimossa. In questi giorni, dopo il video collettivo in cui, in cinquantatre fra scrittori e scrittrici, abbiamo letto il monologo di Scurati, non sono stati pochi coloro che hanno detto: bravi, ma dove eravate ai tempi del greenpass? La controreazione, per lo più, è stata di scherno, e la terribile parola no-vax è tornata a circolare.
Ebbene. Su questo blog ho più volte espresso dubbi giganteschi su come è stata raccontata la necessità del greenpass. E ho più volte linkato quanto hanno scritto e ripetuto i Wu Ming, cui l’onestà e il nitore con cui hanno provato a intervenire sono costati parecchio.
Linko di nuovo perché, quattro anni dopo la pandemia, ritengo folle non aver riaperto il discorso, come se non fosse accaduto nulla. E non è per rispondere a chi chiede “dove eravate?”. Molte e molti di noi ci sono sempre stati, hanno sempre provato a problematizzare e a capire. Magari non ci avete letto, e ci sta. Ma non bisogna neanche usare la domanda per minimizzare la situazione di oggi o per screditare chi contro questa situazione si batte. Sarebbe non solo ingiusto, ma pericoloso.

Ero terribilmente inconsapevole dell’uso improprio dei dati neurali (fasce da meditazione, per giocare, per trovare un partner on line), e chiedo scusa a chi invece di queste cose si occupa per la mia ignoranza. Stamattina, però, ho letto che in Colorado è stata approvata una legge per impedire che le aziende utilizzino i dati sensibili dei nostri cervelli e sono ripiombata in pieno Philip K. Dick.
Il mondo è andato avanti, direbbe un pistolero di mia conoscenza: non mi spaventa tanto il mio fisiologico rimanere indietro ma la forza di volontà, il tempo e la curiosità necessari per capire almeno una parte di quel cambiamento. 
Questa è una parte delle riflessioni che intendo fare da domani a domenica a Torino in “Ho perso il Novecento”, che è una bellissima idea di Nicola Attadio e che coinvolge la sottoscritta e Paolo Di Paolo in tre incontri (più uno al Salone del Libro), in dialogo con un ospite: a Torino saranno Guido Catalano, Filippo Solibello e Mario Calabresi, rispettivamente domani alle 21 al Circolo dei Lettori, sabato e domenica alle 16.30 al Politecnico di Torino nell’ambito di Biennale Tecnologia.

Sono un po’ (tantissimo) stufa, perché in queste settimane non è che abbia visto tutte queste prese di posizione nel mondo della letteratura: sì, lo so, letteratura e attivismo non si mischiano, si dice. Oppure no?
Non è stato così per molti. Penso ad Antonio Tabucchi e a quello che fa dire al suo Pereira:
“Se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso avere studiato lettere a Coimbra e avere sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione.”
Penso a Norberto Bobbio:
“Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece alla fine fa della cattiva politica.”
Penso, insomma, a tutte e a tutti coloro che all’asilo di purità non credono, e stanno provando a dire e fare qualcosa, nei modi possibili, e spesso in un silenzio che cresce.

L’idea dei Pro Vita presenti nei consultori non solo non è nuova, ma è già realtà. Posto qui un articolo uscito per L’Espresso a marzo.
Parlare e presidiare. E’ l’unico modo per rispondere ai manifesti che anche quest’anno incombono sulle donne. Magari dicendo chiaramente che sì, l’aborto è la soppressione di una forma di vita, ma che la volontà della donna prevale, perché il corpo è il suo ed è sua la scelta, e che costringerla a una gestazione non voluta è il pilastro su cui si è retto il patriarcato per diecimila anni. E che soltanto la contraccezione e il diritto di abortire in sicurezza lo hanno scardinato. E che non si torna indietro, nonostante.

Sul New York Times, Ezra Klein racconta di aver “ucciso” il suo account gmail dopo vent’anni: cosa si fa quando si ha un milione di messaggi non letti nella casella di posta? Capita. Ricordo un pomeriggio con Michela Murgia, dieci anni fa: eravamo a Firenze per presentare “L’ho uccisa perché l’amavo”, io sarei ripartita, lei no, e mi stavo riposando nella sua camera d’albergo quando ho sbirciato il suo computer e ho esclamato “Michi, hai cinquecento mail non lette!”.  “Per forza: come sopravvivo, altrimenti?”, mi disse.
Ora, essendo una fissata col senso del dovere (e di colpa), continuo a leggere tutto. Solo da un anno o due ho cominciato a non rispondere sempre, con il risultato che chi non ha ottenuto risposta (e si tratta nella maggior parte dei casi di richieste di lettura o recensione) mi riscrive, e tutto diventa più complicato. Ma, pur non avendo messaggi non letti, mi ritrovo in quel che dice Klein: è diventato più difficile trovare quel che invece ti serve.  “Gli algoritmi di Google avevano iniziato a deludermi. Quello che loro pensavano fosse una priorità e quello che io pensavo fosse una priorità divergevano”.
Non è solo una questione di algoritmi, credo: è una questione di memoria, e non ha troppo a che fare solo con gmail: quando siamo in presenza di valanghe di informazioni, dimentichiamo quello che stavamo cercando, dimentichiamo quello che ci è utile.
Succede anche nei social, come ho provato a scrivere tante volte: siamo in contatto con centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone, teoricamente, ma nei fatti la solitudine aumenta. Perché, e ancora una volta ha ragione Klein, “la vicinanza richiede tempo”.

La discussione sulle scrittrici: un articolo di Meg Wolitzer di dodici anni fa per il New York Times. Sarebbe molto bello partire da qui, dalle riflessioni fatte da un’autrice statunitense, per capire anche come mai altrove è possibile dibattere dalle pagine del maggior quotidiano e qui molto meno. Buona lettura.
“Tirare in ballo la questione femminile – nel senso di narrativa femminile – è un po’ come parlare del debito di stato durante una cena. C’è chi si infastidisce, ritenendolo un argomento di cui si è parlato troppo e in modo inesatto, mentre alcuni lo considerano cruciale.
Poco tempo fa, a un evento sociale, scoprendo che ero una scrittrice un ospite mi ha chiesto: «Potrei aver letto qualcosa di suo?» Gli ho declinato le mie generalità: il nome non gli diceva nulla, il che va benissimo, non sono così famosa. Poi, dietro sua richiesta, gli ho descritto i miei romanzi. «Mah, contemporanei, direi. Alcuni parlano di matrimonio. Di famiglia. Sesso. Desiderio. Genitori e figli.» Trascorsi alcuni istanti d’imbarazzo, il signore ha chiamato sua moglie, annunciandomi che era con lei, «che quel genere di libri li legge», che avrei dovuto parlare. Se ripenso a quell’incontro, lo vedo come un’occasione persa. Alla domanda «Potrei aver letto qualcosa di suo?», molte scrittrici sarebbero tentate di rispondere: «In un mondo più giusto».”

Loredana Lipperini
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