Oggi verranno dati i numeri del Salone del Libro, sia di presenze che di vendite, e credo che nei due casi saranno ottimi numeri. Bene, è il momento di guardare a cosa accade nel resto dell’anno, e ancora una volta Otello Baseggio, ex direttore librerie Feltrinelli e, per quanto mi riguarda, il Gandalf dei librai, viene in soccorso dei lettori e delle lettrici di questo blog. Di fatto, ci offre una serie di piccole lezioni utilissime e non reperibili altrove, e di questo lo ringrazio infinitamente.
Si parla di vendite, si parla ancora della tecnica dei sorrisi e di come i libri potrebbero vendersi, diciamo così, aiutandosi reciprocamente. Per comodità, aggiungo grassetto e titoletti, e vi lascio alla lettura.
La quale vi porterà nel passato, fra le biblioteche corsare, e nel futuro, con una serie di passi da fare per trovare i lettori.
Fermo restando che “in epoca di movimenti e partiti progressisti molto attivi, diciamo a cavallo tra ‘800 e ‘900 , epoca in cui gran parte della popolazione era analfabeta o semi analfabeta (bambine e donne in particolare purtroppo) c’era chi si dava da fare per istruire i tanti miserabili, ignoranti e negletti della società e di far arrivare loro qualche libro con i trasporti dell’epoca, quindi con carretti trainati da cavalli; si trattava sostanzialmente di biblioteche itineranti che attraversavano territori la cui popolazione era comunque desiderosa di affrancarsi dalla sua condizione materiale e culturale tramite la lettura, il teatro, il canto popolare e il canto lirico”

E così sono di nuovo autoconfinata a casa. Analizzo quello che è accaduto in questo mese abbondante: l’euforia per la forma fisica non solo ritrovata, ma accresciuta, il primo intoppo nella stanza d’albergo di Torino, a metà aprile, con uno strano dolore che non passava, e poi passava a forza di massaggi e antinfiammatori, e poi ogni volta che partivo tornava più forte, fino alla definitiva resa di Rimini (carino, no? Sembra il titolo di un podcast di Barbero) quando, percorrendo in lacrime i trecento metri dalla stazione all’albergo, ho capito che dovevo fermarmi. Sono ferma, appunto, con la prospettiva di un mese di fisioterapia con e senza macchinari e con una tendinopatia dell’ileopsoas, che sarà pure il muscolo dell’anima ma ha il nome di un colonnello greco dei tempi andati e pure l’atteggiamento.
Passato lo sconcerto, e poi anche l’arrabbiatura, e poi la malinconia (sono i giorni del Salone, e potrei ripetere a memoria tutto quello che si fa nelle ore della giornata: la mattina si studia, si arriva al Lingotto, si saluta, si sbocconcella, si guarda, si va in onda o si fanno presentazioni eccetera), adesso rifletto.
E rifletto proprio sulla cura. Quanto l’abbiamo usata, questa parola? Giusto cinque anni fa, nei giorni sgomenti della pandemia. E proprio stamattina, al primo sole, guardavo le ortensie, le rose, i cespugli di lavanda e rosmarino, e insomma godevo del giardino come sempre faccio appena sveglia e pensavo che no, non va. Non è che non vado solo io, quello è irrilevante. Non va il fatto che in cinque anni non siamo riusciti a parlare dei nostri traumi collettivi e ci spostiamo o sulla notizia del giorno o sul trauma in corso, dimenticando quello che abbiamo alle spalle.
E’ un sistema che mostra le crepe, questo in cui viviamo, e scava fossati e solitudini, e lascia povertà e angoscia, e sarebbe bello se riuscissimo, se non a ribaltarlo, a immaginare almeno strade diverse per il dopo.

Il post di ieri sul Libraccio ha suscitato diverse reazioni interessanti, quindi riprendo l’argomento. Come premessa, però, ci tengo a sottolineare che il mio non era un post contro il Salone del Libro, che è stata ed è una parte palpitante della mia esistenza (al massimo, ma ne scrivo domani sull’Espresso, posso avere una perplessità sul titolo 2025, ma non per colpa del Salone medesimo, bensì del mondo), e a cui augurerò sempre e sempre e sempre vita lunga e felice.
Dunque, la questione sollevata dai 126 editori che hanno inviato la lettera al Salone (lo stand del Libraccio al Padiglione 1 sottrae possibilità di acquisto a chi è presente al Lingotto) non è piaciuto a lettori e lettrici, almeno in molta parte. Il motivo è semplice: chi legge ha meno soldi di prima (molto, molto meno) e vuole avere la possibilità di comprare libri a prezzo più basso.
Di contro, un editore piccolo e medio spende già parecchio per essere al Salone e non è possibile vendere a prezzo ridotto.
Dunque ci sono tre esigenze da conciliare: quella di chi legge, che non ha più molti soldi a disposizione, quella di chi pubblica, che ne ha ugualmente pochi (sto parlando di editori piccoli e medi, lo ricordo) e quella di chi organizza fiere e manifestazioni legate al libro. Con la vecchia questione: si vendono meno libri perché i soldi sono pochi e i libri troppi. 

E visto che mentre sto scrivendo si attende l’intervento inaugurale del ministro della cultura Giuli, una domandina me la farei: oltre a dichiarare qua e là e inaugurare qua e là, cosa sta facendo il ministro medesimo per i libri, il cinema, il teatro e tutto quello che, insomma, si chiama cultura?

Anche se non sarò, dopo tanti anni, al Salone del Libro di Torino, non significa che i miei pensieri non siano da quelle parti. Funziona così, voi che mi scrivete, certo in ottima fede, sospirando sui tempi andati che non torneranno: a parte il fatto che torneranno, in chissà quale forma ma torneranno, non è che fermarsi per recuperare salute significa pensare soltanto ad antifiammatori e risonanze. Insomma, sono zoppa, non rimbecillita, grazie.
Ricominciamo. Come qualcuno di voi saprà, un gruppo di case editrici ha scritto al Salone per protestare contro la presenza dello stand del Libraccio: le case editrici, dal comunicato arrivato nella mia casella di posta, sono 126, 42 secondo la questura, o i giornali. Comunque sia, ci sono anche nomi ben noti, fra cui  Cliquot, Alegre, Emons, Exorma, Fanucci, L’Orma, Voland e così via.
Cosa dicono gli editori? Una cosa molto semplice, come leggerete dal comunicato sotto: uno stand come quello del Libraccio, di 350 metri quadri al padiglione 1, che vende libri usati a costo più che ribassato fa una concorrenza sleale agli editori presenti al Salone. Anche considerando che il prezzo del biglietto, aggiungo io, se acquistato in loco, è di ben 22 euro, e di questi tempi è dura sborsarli e avere anche soldi per acquistare libri a prezzo pieno. Aggiungo anche che la questione si è proposta, in modo diverso ma simile nella sostanza, con Più Libri Più Liberi, perché spendendo i tuoi soldi per un biglietto non economico (anche se inferiore a quello di Torino) magari vai a vedere gli scrittori più famosi all’Arena Robinson, che non pubblicano con editori piccoli e medi, e non compri i libri dei medesimi editori piccoli  e medi. Dunque, per chi si fanno le fiere e i saloni? Per i lettori e le lettrici, ma certo. Ma anche per gli editori che, pagando, rendono possibili quelle fiere e quei saloni.
Sui quotidiani, l’ad del Libraccio, Edoardo Scioscia, dice che in fondo il loro favorisce gli editori. Copio e incollo: “i visitatori potranno sfogliare un libro di seconda mano da noi e poi andare ad acquistarne una copia nuova dall’editore”. Se fosse fantascienza, sarebbe bellissimo. 

C’è un articolo, “Scrittori a caccia di like”, di Gianluigi Simonetti su Snaporaz, dove si incrociano due libri: “Storia della fama”, di Alessandro Lolli, edito da effequ, e “Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sull’arte di scrivere” di Alessandro Piperno, per Mondadori. Da leggere, entrambi: il saggio di Lolli riprende e ampia quello che con Giovanni Arduino provammo a fare dieci anni fa in “Morti di fama”, mentre Piperno parla di ambizione letteraria, faccenda antica ma rinnovata e ampliata nei social. 
C’è però un punto fra i molti su cui riflettere. Scrive Simonetti:
“da quando pensiamo allo scrittore come a qualcuno che sia come tutti? Un’ottica novecentesca della distinzione raccomanderebbe agli editori di impedire per contratto agli scrittori di  sputtanarsi sui social; sappiamo invece che oggi accade il contrario – gli editori battono il web alla ricerca di scrittori disposti a sputtanarsi. In questo quadro commerciale ed estetico, ogni forma di sprezzatura è destinata a andare perduta, come lacrime nella pioggia”.
Mi viene da dire che non sempre si può parlare di sputtanamento, ma di confronto. Il problema, secondo me, sta nel fatto che non sempre viene inteso come confronto ma come esserci e basta.
Passo indietro fino al dicembre 2019. Il collettivo Wu Ming scrive due lunghissimi post in occasione del loro abbandono di Twitter, L’amore è fortissimo, il corpo no, che pone la questione dal punto di vista del business, ovviamente dei social medesimi. So di citare con frequenza questo intervento, ma lo faccio perché credo che sia di enorme lucidità (e stiamo parlando di sei anni fa) e soprattutto più che pertinente rispetto alla presenza sui social, non solo di chi scrive, ma anche di chi scrive (libri, ovviamente).
Dunque, gli scrittori e le scrittrici. Credo che nessuno possa dire ad altre e altri qual è il modo giusto di comportarsi sui social: e le vecchie chiamate alla responsabilità nell’uso delle parole si infrangono quando l’umore, i tempi, le circostanze mandano all’aria i buoni propositi. Un discorso diverso andrebbe fatto per gli editori: e qui ha ragione Simonetti. Fare scouting sui social non è sempre un’idea felice. E neanche spingere chi scrive a essere performante sui medesimi. Perché chi scrive dovrebbe preoccuparsi soprattutto di come scrive i suoi libri, e non di come promuoverli. Ma anche questa, sapete, è una storia vecchia, e ripeterla probabilmente serve a poco.

Nel 2009, Murakami Haruki ricevette il Jerusalem Prize. Subito prima, aveva ricevuto un appello del Palestine Forum Japan, dove gli si chiedeva di rivolgere la sua attenzione “ai palestinesi, a cui viene negata la libertà e la dignità di esseri umani”, e lo si pregava di considerare d il valore propagandistico che il premio avrebbe per Israele”.
Murakami andò, ma a modo suo. “Mi sono chiesto: visitare Israele è la cosa giusta da fare? Sosterrò una delle due parti? Ci ho pensato un po’. E ho deciso di venire. Come la maggior parte dei romanzieri, mi piace fare esattamente l’opposto di ciò che mi viene detto. È nella mia natura di romanziere. I romanzieri non possono fidarsi di nulla che non abbiano visto con i propri occhi o toccato con le proprie mani. Quindi ho scelto di vedere. Ho scelto di parlare qui piuttosto che tacere.”
Ma nel suo discorso di accettazione ha detto: “Se c’è un muro alto e duro e un uovo che si rompe contro di esso, non importa quanto sia giusto il muro o quanto sia sbagliato l’uovo, io starò dalla parte dell’uovo. Qualcun altro dovrà decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; sarà forse il tempo a farlo, o la storia. Ma se ci fosse un romanziere che, per qualsivoglia ragione, scrivesse stando dalla parte del muro, che valore avrebbero le sue opere?”  E ancora: “Siamo tutti fragili uova. Non abbiamo alcuna speranza contro il muro: è troppo alto, troppo buio, troppo freddo. Per combatterlo, dobbiamo unire le nostre anime per trovare calore e forza”.
Ecco, le parole di Murakami dovrebbero risuonare oggi, alla vigilia di #gazalastday. E’ ancora difficilissimo farlo: c’è davvero un muro, alto e duro, davanti a noi. Per quanto mi riguarda, è bastato un commento di solidarietà alla Taverna Santa Chiara di Napoli (che si è rivelata una tappa di un percorso mediatico molto violento, come denunciato da Donne in nero Bari) per finire nelle pubbliche liste di proscrizione di una scrittrice peraltro molto brava e molto attenta alle parole: che però, come molti e molte, vede soltanto una parte della storia e dei fatti.

Se non ricordo male la morte di Giovanni Paolo II è stata sfondo di diversi romanzi italiani (ricordo male? Il contagio di Walter Siti? La stessa Gomorra?). Se non ricordo male molti scrittori ne hanno parlato e scritto: penso a Giuseppe Genna, per esempio, e qualcosa ho ritrovato su Carmilla. 
Non è evidentemente un obbligo, ma è una considerazione sul rapporto fra romanzo e contemporaneità, che magari non ha senso, e magari altri ben più titolati di me direbbero che non deve avere senso, perché la letteratura indaga su abissi e vette che sono universali e atemporali, e certamente i propri abissi possono parlare per tutti gli altri, possono anzi e devono valere per tutti gli altri. Penso a Sebald, agli Anelli di Saturno, a come scriveva: “non conosco altro modo se non la scrittura per difendermi dai ricordi, che così spesso e così all’improvviso mi sopraffanno. Se restassero chiusi nella mia memoria, con il passar del tempo diventerebbero più gravosi, al punto che finirei per crollare sotto il loro peso via via crescente.”
Però continuo a leggere i romanzi nuovi, e non riesco nemmeno a stare dietro a tutto, come è ovvio e normale, e a volte trovo sprazzi dove si raccontano epoche e mondi passati che parlano all’oggi e a volte invece trovo semplicemente storie familiari, o biografie, o fatti. Ma appunto, quali fatti? Fatti di ieri. 
Ma insomma cosa voglio? 
Voglio, forse, pensare che ci fosse una ragione nelle parole di Jean-Paul Sartre. Certo, era il 1945. Però.
“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso, per timore che andasse a infoltire le truppe rivoluzionarie”.

Ovviamente, il giorno dopo ci si strappa i capelli, dopo aver letto i dati AIE (peraltro noti a chi è del settore già da un po’, immagino) secondo i quali “Nei primi tre mesi dell’anno l’editoria italiana di varia adulti e ragazzi nei canali trade, ovvero romanzi e saggi venduti nelle librerie fisiche e online e nella grande distribuzione, flette rispetto ai primi tre mesi del 2024 del 3,4%, sia a copie che a valore, con una perdita di quasi un milione di copie acquistate (810mila) pari a una minor spesa dei consumatori di 11,9 milioni di euro”.
Se qualcuno è interessato, rimando all’articolo che ho scritto a febbraio per Lucy sulla cultura 
Non è per ribadire “l’avevo detto”, è solo per sottolineare che l’abbiamo detto in tanti, in mesi e anni, e che, insomma, prima o poi bisogna fare i conti con un meccanismo che non può funzionare così, perché, come scriveva una brava editrice come Daniela Di Sora di Voland, con 90.000 novità l’anno “nessun mercato può reggere”.
Però ho ricevuto una nuova mail da Otello Baseggio, ex mitologico direttore di libreria Feltrinelli, che ha letto la lettera di Quin sui fumetti che ho ospitato qui qualche tempo fa e ha parecchio da dire in proposito. E’ lungo ma merita. Perchè chiarisce parecchie cose.
“Per le novità è diverso, non hanno storia, possono quindi avere un algoritmo che, per il riordino, si basa una valutazione probabilistica in ragione della velocità di vendita nei casi di novità grandi e medie, scenario opposto per le piccole, le quali si trovano sistematicamente sul limite della curva di massima espansione, parte di loro acquisiscono il diritto di riordino perché hanno qualche cliente in più rispetto a quelle che vendono una sola copia, puntualmente sostituite da consimili; ma come si fa a decidere?
Ci sono tre possibilità: la palla di Mago Merlino, un algoritmo probabilistico che, in base alla teoria dei grandi numeri, consideri che al limite della curva gli errori dell’algoritmo e gli errori dei librai si equivalgano, o la valutazione analitica del venduto da parte dei librai specialisti se, fatto qualche test, si verifica una diminuzione di errori rispetto al caso precedente: G.B. Pergolesi, nel suo magnifico Stabat Mater, al nono track (un duetto tra soprano e contralto) indica: “al tempo giusto” e con ciò si affida alla competenza del Maestro di musica e canto: fai tu, mi fido, hai competenza e capacità; un’assunzione di rischio quindi nei confronti degli operatori di piattaforma (non tuttologi e nemmeno infallibili), assimilabile al rischio degli errori della teoria dei grandi numeri in caso di algoritmo probabilistico, non alla palla di Mago Merlino, che ancora risulta irreperibile”

Ieri sera, su Facebook, ho citato un lungo e importante articolo di Naomi Klein e Astra Taylor per The Guardian sul fascismo della fine dei tempi. Leggetelo. Fra le altre cose, analizza l’ascesa di Trump e Musk e delle destre alla luce di una visione apocalittica e survivalista: in poche parole, il diffondersi fra alcuni personaggi, laici e ricchissimi, di una visione del futuro dove il mondo crolla e pochi eletti sopravvivono e prosperano in arche, bunker e città recintate. L’arca laica di Marte per Elon Musk, per esempio, ma non solo. Scrivono Klein e Taylor che i tecnocrati miliardari si sono arrogati un potere divino: non solo costruiscono le arche ma “fanno del loro meglio per causare il diluvio”. Nel suo podcast, Steve Bannon invita a fare scorta di pasti pronti per sopravvivere nei famigerati bunker da costruire da soli (da Mr. Patriot Supply, uno dei suoi sponsor, specializzato in barrette proteiche, filtri per l’acqua e altre piacevolezze apocalittiche), e, già che ci siamo, a esercitarsi a sparare. Naturalmente fa di più, e costruisce giorno dopo giorno e puntata dopo puntata una visione degli Stati Uniti come Grande Bunker, dove le strade e le università e i luoghi di lavoro e sono pattugliati quotidianamente e dove spariscono i nemici, migranti, e oppositori. Recentemente, il direttore dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement), Todd Lyons, ha dichiarato di voler trasformare le espulsioni in attività commerciale: “come Amazon Prime, ma con esseri umani”. 
Giuro che è vero.
Come si combatte tutto questo?. Ovviamente è difficile da dire, e lungo da fare. Mi convince però, intanto, una delle risposte che le autrici danno: “contrapponiamo alle loro narrazioni apocalittiche una storia ben più avvincente su come sopravvivere ai tempi difficili che ci attendono senza lasciare indietro nessuno”. Una storia non di fine dei tempi, ma di tempi migliori; non di separazione e supremazia, ma di interdipendenza e appartenenza. Una storia che ricrei un movimento, “indisciplinato e aperto”.
E’ già successo, può accadere ancora.

Ho scritto Non è un paese per vecchie quando avevo 54 anni, più energie di quante ne abbia ora (come è giusto e normalissimo che sia) e un bel po’ di progetti in testa, esattamente come adesso, nonostante i quindici anni in più. Mi aspettavo alcune cose dalla vecchiaia: fisiche, intanto, e quindi i cedimenti che si cerca di arginare come si può, nonostante le cattive abitudini che infliggo al mio corpo, una mutazione del medesimo che, anno dopo anno, somiglia sempre più a un corpo femminile invecchiato, e qui siamo nell’ovvio. Mi aspettavo i piedi gonfi la sera, una certa fragilità del sonno, la necessità di quella che è la manutenzione ordinaria e straordinaria delle ossa, dei muscoli, delle articolazioni.
Non mi aspettavo invece, e facevo male, lo stigma nei confronti delle donne vecchie che fanno un lavoro intellettuale e continuano a essere presenti non solo con i propri scritti, ma appunto con il proprio corpo. Ogni volta che partecipo a un festival o a una manifestazione, ogni volta che prendo un treno e che faccio quello che ho sempre fatto, c’è sempre qualcuno che mi invita, più o meno cortesemente, a starmene a casa. O che tira fuori la pensione che dovrei godermi in silenzio, naturalmente, come se continuare a praticare quello che per me è l’attivismo culturale fosse una faccenda da chiudere nel cassetto e da tirar fuori nelle serate di pioggia, con una tisana calda nella tazza decorata a fiorellini, sospirando sui tempi che non torneranno.
Ora, è piuttosto raro che si rimproveri a un uomo della mia età il suo attivismo culturale: anzi, l’essere presente e attivo a festival, manifestazioni, iniziative  è considerato segno di vitalità e di curiosità intellettuale. Le donne devono fare le nonne, come mi vien detto qua e là. Le donne devono lasciare il posto agli altri. Le donne devono stare a casa, appunto. E se proprio devono fare qualcosa, che scrivano pure, così occupano il tempo.
A quasi un anno dal mio pensionamento, ho continuato a fare quel che amo fare non per dipendenza lavorativa, timore del vuoto, orrore dell’invecchiamento: banalmente, come detto, è quel che amo fare e non c’è motivo alcuno per non farlo più, finché il mio corpo non mi manderà potenti segnali in senso contrario. Quando avviene, come nelle ultime settimane, peraltro lo ascolto, gli dò il tempo di guarire, poi ricomincio a prendere treni e a incontrare persone.
Michela Murgia diceva sempre che l’idea della maestra non viene presa in considerazione: al massimo, si nomina la maestrina, in senso dispregiativo. O, appunto, la nonna.
Dove voglio arrivare con questa reprimenda? Semplicemente dare ragione a quello che presentivo quindici anni fa e che ora mi trovo a vivere in prima persona. E anche avvertire chi continua a ripetermi di stare a casa, suscitando (lo ammetto) un furore che raramente provo in altre circostanze che, banalmente, deve rassegnarsi a vedermi in giro. Finché posso, finché voglio. Ma decido io. E le altre come me.

Loredana Lipperini
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