In It di Stephen King il 31 maggio 1985 coincide con l’alba della distruzione di Derry. Derry, come sapremo da 22.11.63 molto più avanti, non muore del tutto: ne restano gli umori malvagi, l’aura scura, il destino velenoso di chi ha visto muoversi e agire il Male sotto di sé, nelle fogne e nelle strade buie, ed è rimasto indifferente.
Non c’è molto di diverso rispetto alla situazione in cui viviamo.
Un ulteriore 31 maggio di tre anni fa credevamo di esserci lasciati alle spalle qualcosa di imprevisto e terribile, qualcosa che ci ha segnato in modo che non sappiamo ancora dire. E che ci avrebbe segnato ancora, con quella profondissima, amara divisione sui vaccini e sul greenpass che ha creato (ed è stata mal gestita, mille volte sì) una spaccatura che non si sana,e di cui ancora dobbiamo vedere le conseguenze.
E poi? E noi?
Facciamo un esercizio di memoria. Facciamolo prima di attribuire la vittoria delle destre in Italia e non solo ai vestiti di Ellie Schlein o alle mancate alleanze elettorali. Facciamolo provando, per una volta, a interrogarci su cosa ci è accaduto (e non è accaduto solo a noi) negli ultimi quindici anni. Facciamolo chiedendoci come sia possibile che “fare rete”, considerarsi parte di una moltitudine, non riesca o riesca occasionalmente e male.
Nel 2008 Aldo Bonomi si chiede: “”Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?”.
Il problema è che molti intellettuali sono stati e sono distaccati. Ripensate un momento alla coesione di ampi gruppi di scrittori e scrittrici sotto il governo Berlusconi. Guardate all’oggi. Non aggiungo molto perché ci tornerò.
A chiosa, le parole di Marco Revelli,di nove anni fa. Parlava, allora, dei “forconi”, che abbiamo già dimenticato (così come abbiamo dimenticato che la rabbia cresce in un paese infelice, povero, immobile): “sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo”.
Speriamo di no.
Ieri è uscito su L’Espresso un mio articolo sull’odio verso i giovani ambientalisti, che è faccenda che continua a sconcertare. L’altra cosa sconcertante è l’ossessione per le Grandi Opere. Sempre per L’Espresso, qualche settimana fa, ne avevo scritto. Sono stata molto criticata per aver citato una serie televisiva con Lorella Cuccarini, dove, negli anni Novanta, si parlava del Ponte sullo Stretto. Argomenti da donnicciola, era il commento. Come se le nostre ricorrenti manie non si riflettessero anche nella cultura popolare.
Ma la storia insegna: anche la storia della televisione, a ricordarla. Dunque, nel 1992 va in onda su Canale 5 Piazza di Spagna, serie televisiva in cinque puntate diretta da Florestano Vancini: la vicenda non è originalissima e narra la vicenda di una ragazza di umili origini, Annabella (Lorella Cuccarini) che lavora come commessa ma vuole diventare top model (i tempi erano quelli), e precipita in un gorgo di intrighi e malaffare. Cosa c’entra la serie con le grandi opere? Oh, c’entra eccome. Perché fra i protagonisti abbiamo l’imprenditore siciliano Carmelo Cascone (Enrico Maria Salerno) che si è trasferito in un attico di lusso pacchiano e debordante a piazza di Spagna, per procurarsi le giuste amicizie al fine di costruire il ponte sullo Stretto di Messina (nel frattempo si fa mettere quaranta maniglie d’oro massiccio alle porte, tanto per chiarire chi ha i soldi).
Scrivere ed essere persone pubbliche. Ci rifletto da ieri, ma nello stesso tempo, pur mettendo in conto le difficoltà che si riflettono sulla scrittura stessa, non riesco a non pensare anche al fatto che se non fosse per due scrittrici, Nadia Terranova e Stefania Auci, non riuscirei a conoscere molte posizioni contro il Ponte sullo Stretto di Messina. Per questo, mi permetto di pubblicare qui quanto Stefania Auci ha scritto su Instagram.
Ma, infine, c’è un tempo in cui si smette di giudicare i corpi delle donne? L’ultimo caso: Sharon Stone, 65 anni, bellissima ieri e oggi, posta una sua foto in bikini che evidenzia la tonicità dei suoi glutei. Naturalmente l’ha postata lei, si dirà subito, e se non avesse voluto essere giudicata, nel bene e nel male, non lo avrebbe fatto. Giusto.
Però resto comunque infastidita dai commenti sui social che soppesano ogni grammo di quel corpo, fanno impietosi paralleli con il volto più segnato o con questa o quella ultrasessantenne. E io mi dico: non finisce proprio mai? Come ci si sottrae allo sguardo delle altre (perché, ancora una volta, sono soprattutto le donne a dare inizio alla cerimonia del commento)?
E, no, non me la faccio una risata.
Tutti noi desideriamo essere percepiti come buoni, di qualunque segno siano o siano state le nostre azioni. Ma è un desiderio impossibile da realizzare, nel momento in cui le nostre azioni hanno provocato sofferenza ad altri.
Ora, Roccella non è ministra della Sanità ma della famiglia e pari opportunità, come ripete a ogni intervista. Ma ministra è. E dire, come ha detto e ripetuto, che l’obiezione di coscienza non vanifica il diritto ad abortire è un falso, e lo dimostrano le tonnellate di dati che sono state raccolte in questi anni.
Ora, quando assistemmo a quella terribile violenza verbale (e non solo) contro Beppino Englaro, che cercava di far rispettare la volontà espressa dalla figlia Eliana, Roccella era sottosegretaria al Welfare e disse: “abbiamo la libertà di fare qualunque cosa del nostro corpo, ma non il diritto: se considero che suicidarmi è un diritto, è giusto che nessuno blocchi più nessuno dal suicidarsi”. Ed è una frase di gigantesca gravità, perché sottintende che è semmai lo Stato che può ingerire sulle decisioni che riguardano il nostro corpo.
Ora, parlando di famiglia, non mi sembra che vengano tenute in considerazione le sofferenze delle famiglie LGBTI e dei loro figli e del sacrosanto diritto di ottenere la trascrizione all’anagrafe.
Ecco, nel momento in cui si sostiene tutto questo, come si può pensare di non ricevere una contestazione in un luogo pubblico?
Ricordo come fosse ieri quella cena autunnale (era il 2016) in un ristorante dell’Esquilino (che era buonissimo, ma non ricordo come si chiamava), dove Nicola Lagioia mi raccontò qual era il progetto a cui tentava di dare forma. La prima cosa di cui mi parlò era il gruppo editoriale. Era, allora, un’impresa difficilissima. Oggi si tende a dimenticarlo, ma il Salone era dato per morto. Fior di editori chiamavano in disparte i propri autori per traghettarli a Milano, a Tempo di Libri, e sussurravano che non aveva senso sprecare tempo per un cadavere.
Io me lo ricordo. Altri meno.
Non elenco tutto quello che è stato fatto, e che va al di là delle singole presentazioni dei singoli libri. Ma basta compulsare gli archivi o fare appello alla propria memoria, e ricordare che abbiamo portato quello che non c’era, i mondi che non avevano parola, e soprattutto un modo diverso di lavorare.
Però prima o poi dovremo fare i conti con gli effetti della pandemia e, prima ancora, di un certo uso dei social che ha scavato la divisione profondissima fra “voi e noi”. Non è la prima volta che scrivo di questo, ma ci torno perché in questi due giorni ho constatato la prova provata di quanto sia diventato difficilissimo dialogare. Due i casi: il ritiro del ritiro dell’invito a Carlo Rovelli alla Buchmesse 2024 e l’addio di Fabio Fazio alla Rai. Due casi gravi, accolti molto spesso con lo scherno verso i pacifisti e con il risentimento verso un conduttore famoso.
Meglio di me, lo dice un’altra breve e fulminante parabola, che si deve al filosofo Slavoj Žižek. Una strega dice a un contadino: «Ti farò quello che vorrai, ma ricorda, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino». E il contadino con un sorriso furbo: «Prendimi un occhio!».
Direi che sarebbe il momento di pensarci su.
Domani è il 12 maggio e ho deciso di raccontare quel che avvenne nel 1977: l’ho fatto molte volte (anche in Roma dal bordo), ma questa volta lo racconto a voce. Grazie ai miei compadres di avventura con cui ho realizzato Omissis, c’è un podcast di Radio3: i compagni sono gli amati Fabiana Carobolante, Alfredo Morana, Alessandro Petrocco e Cristiana Castellotti, che ha fiducia nelle scommesse.
“Giorgiana – 12 maggio 1977” sarà da domani su raiplaysound. E’ un podcast enormemente diverso da Omissis: non c’è l’immersione nelle testimonianze e nei suoni. C’è la storia e c’è la voce, e dietro e attorno alla voce ne appaiono altre, a volte sullo sfondo e a volte in primo piano, come onde che si sollevano e si abbassano.
Sono cinque puntate, brevissime, non più di 15 minuti l’una. Contengono il mio ricordo e la cronaca della giornata, che si devono sempre a Radio Radicale e al Libro Bianco sul 12 maggio, che conservo da allora. E’ memoria, perché non solo non si dimentichi, ma si guardi avanti, pensando a come fare perché non si ripeta mai più.
Grazie.
Scrive Selvaggia Lucarelli su Michela Murgia: “Vediamo le lacrime asciutte di quelli che hanno pubblicato sempre la sua foto più brutta, una foto in cui potesse somigliare il più possibile alla megera cattiva, di quelli che sono stati zitti mentre veniva aggredita per le sue idee da folle inferocite, mentre i titolisti facevano il lavoro sporco di alterare e involgarire il suo pensiero”.
Bene, c’è una parabola interessante raccontata da Beniamino Placido nel 1998 che interpreta bene queste consuetudini. Termina con una parola: “Arrangiatevi”.