Ciclicamente, scoppia una polemica sulle lettrici e i social. L’ultimissima riguarda le booktoker, e mi perdonerete se non entro nel dettaglio (un poco di sconcerto me lo tengo: perché chiedere a Natalia Aspesi – da qui è partita la polemica – di parlare di booktoker significa andare a cercare proprio la polemica, perché è evidente che alla grande Natalia alcuni territori non interessano, ma pazienza).
Ancora una volta, però, approfitto per parlare dell’icona stessa della lettrice,  quanto mai gradita agli scrittori di ogni tempo, che si compiacciono della fedeltà e della passione femminile nei confronti dei libri. Perché queste benedette lettrici saranno anche strapazzate a più riprese, e da non pochi scrittori: ma senza di loro quegli stessi scrittori, come sappiamo, non venderebbero. Quindi, anche se parecchi sguardi critici si rabbuiano pensando a queste ragazzacce che secondo loro leggerebbero solo Erin Doom e se alcuni scrittori sfacciati dicono quello che molti pensano in silenzio, deprecando “le professoresse che affollano i festival”, le lettrici servono.
Esiste, insomma, una mistica della lettura femminile che viene esibita orgogliosamente per avvalorare una certa, dolciastra superiorità morale e intellettuale delle donne sugli uomini.  Che brave, le donne, che brave: leggono. Magari leggeranno me, è il pensiero sottinteso di chi inghiotte il disprezzo (non tutti, per carità, non sempre: non pochi, però).

Cosa rivendicano, fra gli altri, Jonathan Franzen, John Grisham, George RR Martin, George Saunders, Michael Connelly, Douglas Preston e molti altri? Il diritto d’autore, perché, sostengono, i loro libri vengono usati per addestrare ChatGPT, che può così produrre “lavori derivati” senza che venga loro riconosciuto alcun compenso, danneggiandoli non poco: “Il successo e i guadagni di OpenAI si basano sulla violazione di massa del diritto d’autore senza una richiesta di utilizzazione  o un centesimo di risarcimento ai proprietari dei diritti”.
La faccenda è molto complicata, però, e per quanto mi riguarda è difficile esprimere una posizione netta. Resto convinta che nulla potrà mai sostituire l’intelligenza umana, né la sua creatività: so perfettamente che ChatGPT è capacissima di scrivere un romanzo alla Stephen King (gliel’ho chiesto) (a proposito: buon compleanno), ma so anche che quel testo non sarà mai paragonabile a un vero romanzo di King.

Ieri ho scritto un post su Facebook, sfidando quelli che suppongono che chi si occupa di cultura abiti nei quartieri alti e mandi i domestici a fare la spesa nel negozio gourmet dei Parioli o di dove volete voi, per condividere lo sconcerto di una piccola spesa nel mio abituale alimentari di periferia (Pietralata) dove quel che a luglio avrei acquistato con una trentina di euro è costato più del doppio.
Qui però sorgono almeno due problemi. Il primo, è che esiste una tendenza nella sinistra, o in un certo tipo di sinistra, a non vedere la povertà, o l’impoverimento. Ed è una tendenza che va contro la sua stessa natura, e non da oggi, purtroppo. Il secondo, riguarda molte delle persone che lavorano con le parole, e che dunque possono chiamarsi intellettuali, e che di questi argomenti parlano pochissimo, sia nei loro libri, sia nei loro intervenuti pubblici, che spesso, se critici, si concentrano su cosa non funziona nel LORO mondo, ovvero appunto i loro libri non abbastanza apprezzati, e via andare.

PUGNI DI FERRO

Codice della strada. “Per quanto riguarda gli stupefacenti non ci sarà bisogno di mostrarsi in uno stato di alterazione psico-fisica, ma è sufficiente il sospetto che siano stati assunti per far scattare il test immediato: la positività comporterà la revoca della patente e la sospensione fino a tre anni”. Sarà interessante capire cosa suscita il sospetto.
Decreto Caivano. Carcere più facile per i minorenni, possibilità di vietare l’uso del cellulare con «avviso orale», in caso di alcuni reati, carcere fino a due anni per i genitori se i figli non rispettano l’obbligo scolastico, con revoca dell’assegno di inclusione.
Scuola: riportare la “cultura del lavoro” (Valditara dixit). E soprattutto voto in condotta, o meglio “dobbiamo riportare nella società valori, buon senso e serietà per evitare che il nostro Paese vada allo sfascio”.
Undici mesi fa la Presidente del Consiglio rispondeva alle non poche polemiche relative al decreto anti-rave e anti-tutto con queste parole: “è una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia – dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità – non sarà più maglia nera in tema di sicurezza”.
E’ un ouroboros: parte della società è divenuta più giustizialista, la politica (e non solo le destre) cerca il consenso. Possiamo mettere anche le mani nei capelli, volendo: sarà più importante sporcarsele, e darsi da fare.

So che questo blog è in ritardo sui tempi previsti. Ma come è noto settembre è un mese fitto di appuntamenti, e viaggiando tra Mantova e Pordenone e Conversano non riuscirò a tornare ad aggiornarlo prima di fine mese. Per farmi perdonare, posto qui il mio articolo uscito su L’Espresso di inizio settembre. Era ed è sulla violenza contro le donne.
Pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a “moderne fattucchiere” fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle “comunità di dominio”, come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte.

Ma qui occorrerebbe frugare nelle biblioteche e recuperare un libro del 2009, La donna a una dimensione della filosofa inglese Nina Power. In parole molto povere, Power parlava di come la narrazione popolare avesse trasformato il femminismo in tendenza alla moda, che “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”: sempre in parole povere, quel tipo di femminismo, quello del “purché sia donna”, era entrato a far parte dei meccanismi di controllo sociali, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”, con la stessa “blandizie” di cui parlava Michel Foucault. Potere, tacchi a spillo, privilegi, ricchezza, vite performanti, avventure notturne, tailleur firmati, divertimento forzato, ansia da prestazione. Sex and the City, certo: un mondo dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato con lo stesso cinismo, di usare una carta Amex nera e di consumare sesso in una maniera considerata maschile. Non si parlava di scelte individuali, o indotte da una determinata condizione sociale (essere molto ricche a Manhattan): ma di identificazione in un genere sessuale. Una donna che agisce come un uomo.
E’ quel momento dell’anno in cui il blog si congeda: sarò nelle Marche da stasera agli inizi di settembre, mi affaccerò sui social ma non qui. Vi lascio con l’articolo che ho scritto per L’Espresso ai primi di luglio, per meditarci un po’ insieme. Abbiate un’estate felice, o voi del commentarium.

In effetti non è una fiaba, quella che stiamo vivendo, e se lo è, è nera. E’ una fiaba come quella raccontata da Kazuo Ishiguro ne Il gigante sepolto, dove la nebbia che cancella la memoria del mondo diventa sempre più fitta (neanche una riga, su un certo giornale, sui 22 anni dal G8, figurarsi su Roberto Saviano, e così via). E’ una fiaba fredda, dove i vapori della rabbia salgono ma si dissolvono nell’inazione. 
Penso al fiabesco di Ottessa Moshfegh e credo che ci somigli. Dunque vi posto qui l’articolo che ho scritto per Linus ad aprile. Dove appare anche l’Hårga di Midsommar.

Premessa: non ho visto il film Barbie. Lo farò, appena riuscirò a respirare in questo periodo folle. Però sono molto colpita dalla barbizzazione del mondo che mi circonda, reale e virtuale, in questi giorni sfolgorante di rosa shocking. Ho letto parecchio sul film, comprendo che sia portatore di un messaggio femminista – così mi vien detto – eppure conservo, a prescindere, l’antica perplessità. Cosa succede quando un contenuto positivo viene fagocitato dal marketing? Quanto quel contenuto perde forza e va a vantaggio di un mercato in grado di inghiottire e risputare ogni sacrosanta battaglia per i diritti? Dobbiamo farci necessariamente i conti o possiamo trovare altre strade?
Nell’attesa di capirne di più, vi posto l’articolo che ho scritto un paio di settimane fa per il Venerdì. A prescindere, appunto.

Tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta scrivevo per Il Secolo XIX di Genova: mi occupavo di televisione, seguivo le conferenze stampa, i dietro le quinte, facevo interviste. Era un passo verso il giornalismo, che allora ritenevo fosse quel che mi interessava. Al tempo, dunque, Simonetta Robiony si occupava di televisione per la Stampa, e mi disse una cosa che ancora oggi ricordo: i giornali stanno perdendo le parole. Ne usiamo molte di meno, usiamo sempre le stesse.
Trent’anni dopo, la faccenda peggiora. Faccio un esempio. Ieri ho postato qui, e sui social, l’intervista a Donna Haraway. In una domanda, si parlava di scrittura semasiografica.
C’è un motivo, visto che il riferimento era al film, e al racconto di Ted Chiang, Arrival.
La cosa che mi ha colpito è che un utente di Instagram si è sentito profondamente offeso dalla parola semasiografica. Ha scritto:

“Ma cosa è la scrittura “semasiografica”?! Possibile che non si riesca a mettersi nei panni di chi legge? Mica tutti hanno studiato linguistica, semiologia, glottologia, narratologia etc etc? Ma cosa costa mettere tra parentesi il significato? Cose così mi fanno passare la voglia di leggere: so di essere ignorante ma mi disturba sentirmelo rinfacciare così”.

Ecco, questo è quel che mi colpisce profondamente. L’offesa. Non cogliere l’occasione per fare una velocissima ricerca e imparare una parola nuova, ma rinfacciare la volontà di umiliare a chi la usa. Questa è la gigantesca differenza fra ieri e oggi: non solo l’uso delle parole, ma la mancanza assoluta di curiosità, e anzi il rancore. E’ un’eredità pesantissima, quella che riceviamo dagli ultimi quindici anni almeno: ma bisogna combatterla.

Questo è un post molto lungo. Contiene un ampio stralcio dell’intervista realizzata da Claudia Durastanti e da me, per l’edizione online del Salone del libro, nel 2020, con Donna Haraway, autrice di  “Chthulucene- Sopravvivere su un pianeta infetto”. Ho citato Haraway in un articolo uscito oggi perIa Stampa sulla famiglia queer di Michela Murgia. Forse le parole di Haraway aiutano a capire e a non fraintenderci vicendevolmente. Buona (complessa ma importante) lettura.

Loredana Lipperini
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