Chiedo mille volte scusa al commentarium, ma in questi giorni, e almeno fino a metà dicembre, la Vostra è sempre in giro, soprattutto per le lezioni presso la Scuola Holden, ma anche, la prossima settimana, per la diretta di Fahrenheit da Più Libri Più Liberi.
In realtà questo breve post è per dirvi che ho dimenticato un compleanno che cadeva a fine novembre: quello di questo blog, che esiste da ben 19 anni. Fa piuttosto impressione, in effetti, e fa ancor più impressione il fatto che ricordi molto bene la sensazione iniziale di smarrimento (un diario quotidiano? articoli? Cosa?) e quella di assoluta passione dei giorni successivi. Fino a oggi, e anche domani, e anche dopo.
Dieci anni fa, Adriano Sofri scrisse un articolo sul femminicidio e soprattutto sugli uomini che continuano a negarlo, anche oggi.
Lo ripropongo oggi perché la negazione sembra esserci ancora.
“La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?”
A proposito di frammentazione: continuo a riflettere sul tema di cui abbiamo discusso ieri a Fahrenheit con Marino Sinibaldi e Lella Mazzoli. Ovvero, leggiamo sempre allo stesso modo oppure la nostra vita di lettori e lettrici si è fatta più frammentata, appunto, e cede alle interruzioni o ai sottofondi? E questo comporta più o meno concentrazione? E, ancora, la concentrazione è sempre necessaria? Mi spiego, se io sospendo la lettura de L’ora di greco di Han Kang per andare a vedere le immagini della Biblioteca di San Gallo arricchisco o svilisco il libro che ho fra le mani?
Difficile rispondere. Per chi, invece, commenta con disdegno il boom di fumetti e manga, la risposta esiste e l’ha data, ai tempi, Lisa Simpson.
Niente storie. Oggi le tengo per me, per chi ascolta Fahrenheit, per chi passerà alle 19 a palazzo Barberini per la mostra di Carlotta , per chi vorrà.
Ancora per chi vorrà, felici i felici, festeggio i miei 67 anni e penso alla bellezza.
E questo è il mio mondo per ringraziarvi tutti e tutte per gli auguri!
Settimana complicata: riprendo la conduzione e poi mi aspettano ben cinque giorni torinesi per Scuola Holden. Dunque, il commentarium mi perdonerà se aggiorno il blog con articoli già pubblicati su carta. Questo, per esempio, è apparso su Linus, ma dal momento che parla dei racconti di Shirley Jackson spero di esser perdonata.
Ci sono molti modi per fare paura, e uno di questi è ritrovare nelle pagine di un libro i tipi umani che oggi vengono allo scoperto sui social, ma che sono sempre esistiti, come le donne di Shirley Jackson. Avviene in Un giorno come un altro, nella traduzione di Simona Vinci, che oltre essere a sua volta scrittrice altrettanto squisita, è un’appassionata lettrice di Jackson.
Tre mesi dalla morte di Michela Murgia, otto anni esatti dall’uscita di Chirù, che è stato in effetti il suo penultimo romanzo vero e proprio, prima di Tre ciotole. Otto anni fa, ricordo, uscivo dalla primissima delle mie lezioni alla Scuola Holden e mi dirigevo verso il Circolo dei lettori, dove presentava Chirù in quella che era una performance più che una presentazione.
E dal momento che ricordare Michela significa leggere Michela, riposto qui quello che scrissi allora.
(Manca. Manca tantissimo).
“Chi si fa maestra offre non solo quel che sa, ma anche quel che é, e nessun dono lascia immune il donatore, o la donatrice. Nessun amore fra chi insegna e chi apprende è immune dalla manipolazione e dal risentimento. Come nessuna relazione fra chi cammina sulla terra”.
Ma quanto si parla di Tolkien, eh? Dopo anni in cui la discussione sul professore è stata relegata ai margini, tutti scrivono de Il signore degli anelli e de Lo Hobbit, si fanno convegni (lunedì, a Milano) e mostre (mercoledì, a Roma) e anche dall’estero ci si interessa allo strano caso dell’autore preferito delle destre.
Ci tornerò in modo ampio, nei prossimi giorni, qui o altrove. Per ora, mi limito a segnalare due interventi: quello di Wu Ming ieri e quello di Edoardo Rialti (che ne aveva già scritto benissimo) sul Foglio di oggi, dove si ricorda anche l’uscita, più che simbolica, di Maria Elena Boschi contro i maghi e a favore di Draghi, con tanto di innocente bambino munito di cartello. Simbolica non perché Tolkien vada ascritto alla sinistra (ma per favore), ma perché dell’immaginario, del mito, del fantastico, molta sinistra non ha capito nulla, e spesso ancora non capisce.
E’ un post strano, questo. Stamattina, al primo sole, guardavo le ortensie che sono da potare, i cespugli di lavanda e rosmarino, e insomma godevo del giardino come sempre faccio appena sveglia e pensavo che no, non va. Non va il fatto che non riusciamo a parlare dei nostri traumi collettivi e ci spostiamo o sulla notizia del giorno o sul trauma in corso, dimenticando quello che abbiamo alle spalle.
Mi chiedevo come sia possibile che si parli così poco della pandemia e di quei terribili tre mesi di chiusura nelle nostre case, ormai oltre tre anni fa. Altri libri, in altre lingue, cominciano a narrare quei momenti. Per noi sembra essere più faticoso.
Appaiono un bel po’ di interviste, da ultimo. Prima Giuliano Amato su Ustica. Il 13 ottobre a Piazza Pulita Corrado Formigli intervista l’ex capo del controspionaggio Marco Mancini. Due giorni fa Repubblica intervista Mario Mori, ex capo dei Ros, e ex Sid. Che dice tra l’altro: “Noi avevamo in Medio Oriente uno dei più grandi uomini di intelligence, il colonnello Stefano Giovannone, uno capace di avere buoni rapporti tanto con l’Olp quanto col Mossad”.
Personalmente ho avuto un brivido nel leggere quella definizione: “uno dei più grandi uomini d’intelligence” riferita a Stefano Giovannone. Quell’uomo, che si faceva chiamare Maestro, è stato in carcere, a Forte Boccea, per rivelazione di segreti di Stato, per ordine di Giancarlo Armati, che indagava sulla scomparsa (e l’assassinio) di Graziella De Palo e Italo Toni. Sulla figura di Giovannone si addensano ombre più fitte della terra di Mordor, e non sono state ancora dissolte. Così come sull’azione dei servizi segreti.
Resta il fatto che improvvisamente sembra essere in corso una riabilitazione generale. Gli anni, ma certo. La vecchiaia, sicuro.
Ma restano i morti. Specie quelli che non hanno avuto giustizia. Magari, ci andrei cauta.
Ho cominciato la settimana leggendo, divertendomi ma anche arrabbiandomi, l’articolo di Fabrizio Patriarca su Snaporaz: parla di imbecillità e soprattutto parla di influencer, e di quel che può avvenire quando un improvvido organizzatore decide che l’influencer faccia il moderatore nella presentazione di due libri. Al di là dell’episodio (che pure dà da pensare, visto che capita con frequenza maggiore che gli e le influencer presentino o moderino eventi culturali), quel che forse dovremmo ancora capire, e non è facile, è cosa si intenda e come si muovono le persone che hanno un considerevole seguito sui social.
Perché non sono tutte uguali, ovviamente. Ci sono state e ci sono persone che hanno quel seguito perché hanno fatto e scritto e detto cose importanti, e intendono usare i social per raggiungere il pubblico più ampio possibile. Non faccio i nomi ma credo che sia abbastanza intuitivo capire il concetto. Ci sono però stati e ci sono influencer che con i social lavorano, e dunque i loro video e le loro parole hanno un prezzo che viene pagato dal committente, e tanto. Anche qui, niente di male: sapevamo da anni che saremmo finiti dritti dal no-logo al me-logo, e che saremmo diventati i brand di noi stessi, da mettere al servizio di altri dietro compenso. Che si tratti di vendere libri o limette per le unghie o scarpe o quel che volete non cambia.
Però, cosa succede quando non si vende nulla e si milita nei social come attivisti? Quali rischi corriamo?