Sono stata a scuola, questa mattina, a incontrare tre classi (le ultime della scuola secondaria di primo grado) e parlare di libri. Che è cosa che faccio sempre con mille dubbi, perché credo che non ci sia niente di più pericoloso del “dovete leggere”, specie a tredici o quattordici anni. Ma era una gran bella scuola, il Viscontino, dove avevano letto Bradbury e Golding e visto Stand by me, per esempio, e qualcuno aveva già cominciato a scrivere una storia (fantasy, ed è giusto così) e le ragazze non si vergognavano di leggere romance, perché a quell’età i romanzi che allora si chiamavano rosa li abbiamo letti tutte.
Però mi è tornato in mente un vecchio articolo di Susan Sontag sulla scrittura e sulla lettura, e mi chiedo quanto tempo dedichiamo a insegnare a leggere, oltre che a scrivere. Insegnare significa, ovviamente, riuscire a districarsi nel poco tempo che abbiamo per scegliere e un libro e dedicarsi al medesimo. Scriveva Sontag:
“Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata?”
Sono stata assente, come preannunciato, per due settimane, e al commentarium tocca ancora pazientare un po’, perché da domani mattina sarò a Torino per Scuola Holden. Tornerò più stabilmente nella seconda metà di febbraio.
Se mi affaccio oggi sul blog è perché in questi giorni ho avuto modo di constatare che esiste da parte di alcune persone un risentimento, o quanto meno una disapprovazione, per come sto trascorrendo il primo anno della mia pensione. Mi pare di capire che l’idea generale della pensionata (declino al femminile non casualmente) sia quello della linda signora con la crocchia candida che si occupa dei nipotini (che non ho), inforna torte e, se proprio non riesce a sopprimere quelle velleità artistiche che l’hanno caratterizzata, scrive: naturalmente scrive libriccini autoriferiti, perché se un autore maschio scrive di mamma sua è un genio, se lo fa un’autrice femmina è ombelicale.
E’ vero, da fine giugno ho continuato a fare quello che facevo prima, più o meno: sono andata in giro per l’Italia a chiacchierare e insegnare, ho pubblicato un romanzo e l’ho presentato qua e là, ho registrato un podcast e, nelle ultime due settimane, ho accettato una collaborazione con la radio che mi ha fatta molto felice.
Ciò, sembra, è disdicevole: perché, così si dice e si scrive, chi ha già dato se ne deve andare, deve farsi da parte, deve lasciare il posto alle persone più giovani. Le stesse persone giovani cui quelli che pontificano non pensano affatto e che anzi, qualora si affaccino giustamente nei ruoli che spettano loro, vengono ferocemente criticate, e sicuramente non aiutate, e sicuramente non incoraggiate, perché da parte dei miei contestatori non ho mai visto l’ombra di qualcosa che si possa chiamare mentoring. Anzi. Anzi.
Io sono quella che sono sempre stata, capelli indecorosi e vestitelli elfici inclusi: ho avuto il privilegio di poter fare un lavoro che amo senza l’ombra di un protettorato politico, familiare ed economico, e senza dover ringraziare altri se non chi è stato ed è compagno o compagna di strada, in mille modi possibili.
E resto quella che non ama il potere, ma ama, se mi si passa la retorica, la libertà di essere come sono.
Alla settimana prossima.
Abbiamo un grosso problema con i fantasmi, da ultimo. In parte, non li riconosciamo. E se li riconosciamo non li ascoltiamo. In questi giorni ho letto spesso ammonimenti contro i progressisti, o “sinistri” come amano chiamarli le persone schierate a destra, in quanto ancorati al fantasma del Novecento: non si può più leggere la realtà con i criteri del secolo scorso, dicono. Il mondo è cambiato, dicono. Inutile rimanere inchiodati alle antiche utopie, che a un certo punto della storia recente sembravano potersi realizzare. Basta con le categorie di destra e sinistra, basta con il passato, usiamo le opportunità che abbiamo davanti, addio cari fantasmi.
E’ una lettura che ha il suo fascino. Ma temo contenga parecchi errori: perché molti di quei fantasmi sono ancora presenti, e pronti a fare qualcosa di più che sospirare nelle nostre orecchie. Vanno visti, capiti, ascoltati, per poter ripartire. Certo, la sinistra non ha saputo e forse non sa guardare i fantasmi e soprattutto quel che ha intorno, o è appena un po’ più in là. Ma ha visto altro, che molti non vogliono vedere. Per quello mi arrabbio, e non poco, quando si sostiene che le destre vincono perché da sinistra ci si occupa di “frivolezze” come il linguaggio inclusivo, o i diritti delle persone trans, o i diritti in assoluto, “mentre i problemi non sono questi”. I problemi sono connessi: la povertà, la mancanza di lavoro, lo sgretolamento della sanità, la solitudine, la disperazione, la paura sono tutte questioni interconnesse con il non riconoscimento di esigenze e anche disperazioni che non comprendiamo, non vediamo e non vogliamo riconoscere.
Ci penso e poi penso non tanto al Trump in sé ma al Trump dentro di noi. Su tre punti: lo smantellamento dei programmi di diversità e inclusione del governo federale, con congedo retribuito di tutto il personale che se ne occupa; la promessa di “riportare la libertà di parola negli Stati Uniti”; l’affermazione secondo la quale i sessi sono solo due, maschio e femmina.
Ora, i giornali di casa nostra (quelli di destra) e molti commentatori e utenti social di casa nostra, stanno esultando e gridano alla fine del “delirio woke”.
E io non capisco: perché in molti casi chi festeggia non è innocente come l’infanzia, per citare Striano. Non è neanche crudele, temo: proprio non capisce il concetto.
Che a me sembra elementare: che male faccio, cosa ti sottraggo, se uso un termine anziché un altro? E’ limitazione della tua libertà chiedere di non ascoltare parole insultanti? Poi, liberissimo di dirle dove ti pare: ma non davanti a me, magari.
Non sarà che siamo prigionieri di una gigantesca illusione, la stessa che induce alcuni scrittori di non eccelse fortune lamentarsi in quanto vittime della “cultura woke”, e piagnucolare sul fatto che “non si può più dire niente”.
Ma non è vero, semplicemente.
In questi anni ho letto romanzi durissimi, crudi, scorretti: chi usa questa argomentazione lo fa, a parer mio, per autogiustificarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, almeno.
Io spero nei libri, invece. A differenza di Richard Ford che al Corriere della Sera dichiara: “Gli scrittori americani non pensano che i loro libri abbiano una qualche influenza sul dibattito interno. Non sono, non siamo, veramente interessati alla politica. Affidiamo il compito di affrontare la politica agli esperti”.
Credo e spero di no. Forsan et haec olim meminisse juvabit. Magari si potrebbe provare a crederci.
Quando non si è analisti politici, sociologi, osservatori professionisti, ci si rivolge alla letteratura, ovvero a quel che si sa e si conosce: cercando conforto e a volte precognizioni che ci aiutino a leggere il presente. Un presente che appare piuttosto spaventoso: non solo nei fatti, ma nell’attenzione sviata sui fatti stessi. Si paragonino le reazioni social (perché qui ormai ci esprimiamo) ai primi terrificanti decreti di Donald Trump con la valanga di elzeviri, commenti, meme sul gesto di Elon Musk e se ne avrà contezza.
“Le immagini spaventano e proteggono”, dice Bioy Casares ne “L’invenzione di Morel”. Pur non essendo una persona particolarmente altruista (mi considero nella media, almeno), continuo a pensare a questa riduzione all’io che ha contagiato ogni aspetto delle nostre vite: la politica, la letteratura, persino la maternità.
Non c’è giudizio, intendiamoci: è un fatto su cui pensare, perché quando ci si sente soli si ha bisogno di immaginarsi parte di un gruppo. Ma quel gruppo, quella comunità, nei fatti non c’è. E’ un’illusione, come accade sull’isola di Morel. Che può piacere, ci può persino dare felicità: ma non salva nessuno, purtroppo.
«Terza trave!» ruggì Stillson. «Manderemo nello spazio tutto l’inquinamento! Dentro solidi sacchetti impermeabili. Lo manderemo su Marte, su Giove e sugli anelli di Saturno! Avremo aria pulita, avremo acqua pulita, e le avremo entro sei mesi!»
La folla era al parossismo. Johnny vide nella calca parecchia gente che quasi soffocava dal ridere, così come stava accadendo a Roger Chatsworth.
«Quarta trave! Avremo tutta la benzina e il petrolio che ci occorrono! Metteremo termine ai giochetti di quegli arabi e useremo le maniere forti! L’inverno prossimo, nel New Hamphire, non ci saranno più vecchi e vecchie ridotti in ghiaccioli, come l’inverno scorso!»
Altro compatto tuono d’applausi. L’inverno precedente una vecchia di Portsmouth era stata trovata morta assiderata nel suo appartamento al terzo piano in quanto, evidentemente, l’azienda del gas le aveva tagliato i tubi per mancato pagamento delle bollette.
«I muscoli per farlo li abbiamo, amici e concittadini, possiamo farcela. C’è qualcuno qui che ne dubita?»
«No!» fu la ruggente risposta della folla.
La zona morta, Stephen King, 1979
Il nome di Curtis Yarvin, probabilmente, non dirà nulla a molti di voi. Però vale la pena informarsi. Yarvin è un blogger americano, è un reazionario, antidemocratico, antiprogressista, fondatore del movimento Dark Enlightenment. E’ ammirato assai da Steve Bannon e dal vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance. In pochissime parole, sostiene che la democrazia ha fallito e che la società americana va “resettata”.
Oggi David Marchese per il New York Times intervista Yarvin, nella giornata dell’insediamento di Donald Trump. Leggete. Fra le altre cose Yarvin sostiene che la democrazia è molto debole, perché per esempio l’immigrazione di massa persiste nonostante la maggioranza dei cittadini sia contraria.
Quindi ci vuole l’uomo forte.
Quindi si stava meglio prima (“Quando leggo della condizione delle donne in un romanzo di Jane Austen, prima dell’emancipazione, mi sembra piuttosto buona”).
Ma quando penso a quel che in piccolo capita da noi (ddl sicurezza, per esempio), mi chiedo se davvero pensiamo che gli Yarvin siano un’anomalia. E mi rispondo che temo fortemente che l’anomalia, in questo momento, siano coloro che si oppongono, e che credono ancora che la pur fragile democrazia possa sopravvivere.
Noto che dopo l’intervista con cui il ministro Valditara anticipa le Nuove Indicazioni Nazionali per il primo ciclo scolastico, ci si è concentrati in buona parte sulle poesie a memoria o sul latino o sulla Bibbia (che secondo Paola Frassinetti, sottosegretaria al ministero dell’Istruzione, di Fratelli d’Italia, è rilevante ” per aver ispirato numerose opere di letteratura, musica, pittura e influenzando il patrimonio culturale di molte civiltà”), ma non troppo, mi pare, sull’idea di fondo delle indicazioni. Che Valditara ha esplicitato al Giornale: “prendiamo il meglio della nostra tradizione per una scuola capace di costruire il futuro”.
Questa idea di una scuola che si concentra sulla cultura della regola é faccenda di cui si parla da parecchio tempo, ed è questo il problema, non certo il latino, non certo le poesie a memoria (e neanche introdurre la lettura di Stephen King: cosa che peraltro si fa da tempo, in diverse scuole, su), e neanche la Bibbia in sè. E viene dalla commissione di studio sulle Indicazioni nazionali, che è stata coordinata, per volere del ministro Valditara, da Loredana Perla. La quale Perla, oltre a insegnare Didattica e pedagogia speciale all’Università di Bari, è autrice con Ernesto Galli della Loggia di Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo (Scholè). Parola chiave: identità. Libri per indurre bambine e bambini all’italianità, Cuore di Edmondo De Amicis e Pinocchio di Collodi.
Due libri che vengono incredibilmente fraintesi dalla “nuova scuola”.
Questa è la mia Cosa preziosa sull’ultimo numero de L’Espresso: che ieri lo ha reso pubblico, quindi lo faccio anche io. Buona lettura.
“apprendiamo che il Viminale chiede accertamenti per valutare eventuali reati. Perché il dito medio potrebbe essere punito per vilipendio della Repubblica, che secondo l’articolo 290 del Codice penale prevede una multa da 1000 a 5000 euro. E se qualche politico oggi di governo ha rivolto in passato lo stesso invito all’Italia, pazienza.
Attenzione, non siamo nell’Italia del 1930, quando venne approvato il codice Rocco, ma nel 2024, anche se per parlare dell’oggi si usa la spedizione dei Mille. Siamo nell’Italia che detesta i giovani, con o senza dito medio, e che in controtendenza con tutti i dati che sostengono che la perdita effettiva di competenze riguarda gli adulti, si grida che la colpa del declino è delle nuove generazioni che non conoscono i proverbi. E mostrano il medio, già che ci sono.
Per questo, la cosa preziosa di oggi è Leggere Dante a Tor Bella Monaca, che Emiliano Sbaraglia pubblica per e/o. Sbaraglia è tra i fondatori di Piccoli Maestri e ha raccontato e letto la Commedia dantesca nell’estrema periferia romana. Con convinzione, con amore, sbagliando e riprovando. La storia finisce in una sera d’estate, a scuola terminata, a mangiare hamburger con i ragazzi della classe che chiedono di conoscere gli ultimi versi, e su “l’amore che move il sole e l’altre stelle” uno degli ex allievi dice: “c’avevi ragione tu, professò: ‘sto Dante è pure mejo de Totti”. Trovate le differenze, trovate le possibilità.”
Leggo un’intervista a Marco Minniti che torna a parlare di sicurezza sociale, e dice: “sicurezza è la parola chiave per coloro che pensano sia aperta la sfida tra autocrazie e democrazie, perché nonostante qualcuno dica il contrario, la sicurezza è un tema fondativo della democrazia”. Leggo anche dalla newsletter del Corriere della Sera:
“Mattarella ha già chiesto modifiche al decreto sicurezza che introduce nuovi reati come quello di rivolta e resistenza «passiva» nei centri migranti e nelle carceri; estende il Daspo urbano, che vieta l’accesso a determinati luoghi; dà al governo (e non al Parlamento) il potere di individuare una lista di opere strategiche contro cui diventa reato manifestare; elimina le attenuanti in caso di violenze contro la polizia. Inoltre prevede che gli agenti possano portare senza licenza alcuni tipi di armi quando non sono in servizio e garantisce loro un anticipo fino a 10 mila euro per le spese legali, in ogni fase di giudizio, per gli atti compiuti in servizio che diventano oggetto di indagine o processo penale”.
La Lega si oppone.
Sentir parlare ancora di sicurezza in questi termini è scoraggiante.
Fossi in voi, leggerei Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana, curato da Antigone e pubblicato da Momo edizioni.