Nel trentennale della morte di Franco Fortini, provo a fare una riflessione sulla diffusione della cultura, e provo a farla tirandomi fuori dalla marea di polemiche di questi giorni.
Perché Fortini? Perché una decina di anni fa, un po’ per amore, un po’ per gioco, un po’ perché all’epoca le poesie di Fortini erano introvabili, ho cominciato a postare una poesia (o parte di una poesia) su Facebook, tutte le sere. Era diventato un appuntamento per parecchi commentatori, quello col “Fortini della sera”: preciso che non aggiungevo commenti, o interpretazioni, o critica. Pubblicavo e basta. Così come era cominciata, finì: finì, anzi, con la ripubblicazione delle poesie, e tanto basti.
Ora, a diversi anni di distanza, alcuni, che sono indubbiamente molto più titolati di me, hanno storto il naso su quell’esperimento, giudicandolo incongruo e soprattutto giudicando inadatta me a parlare di Fortini. E’ verissimo: basti dare un’occhiata ai partecipanti ai convegni che ne hanno celebrato in queste ore il trentennale per capirlo.
Il punto è che io non volevo essere titolata: volevo far arrivare le parole e i versi di Fortini a chi non lo conosceva.
Segue con Virginia Woolf, Mozart, i Pokémon e le Winx.
Sono ancora convinta che, certamente, l’accademia e la critica sono indispensabili per restituirci il pensiero e l’opera di un autore o autrice. Ma che il cosiddetto pop aiuti a veicolare quegli autori e quelle autrici: magari avvicinando, in un passo successo, all’accademia stessa.
Nulla di nuovo, nulla, mi auguro, di divisivo. Ma avocare a sé l’unica autorevolezza possibile significa, per me, tornare indietro di molto.