Il “voi intellettuali”. Ieri a Fahrenheit abbiamo discusso con Giorgio Caravale del suo “Senza intellettuali”, dove spiega molto bene il progressivo allontanamento fra politica e, appunto, intellettuali. Con colpe da entrambe le parti (il ricorso ai “tecnici” nel primo caso, l’individualismo nel secondo).
Mi colpisce ma non mi sorprende la messe di messaggi arrivati. Contro la stessa parola. “Che significa? Che c’è chi sa e chi è deficiente?”. “Basta con la supponenza di chi pensa di sapere di più”. “Possiamo fare a meno di quelli che ci umiliano”.
Allora. Da una parte è comprensibile. Dall’altra meno.
Perché invece di comparare il proprio sapere a quello degli altri è possibile fare una cosa semplicissima: studiare. Le biblioteche sono gratis. Internet è gratis. Diciamocelo.
I social network hanno moltissime colpe, e qui non si sono mai negate. Una di queste è quella di aver ulteriormente diminuito quella che negli anni Novanta si chiamava “attention span”, ovvero il tempo di attenzione che dedichiamo all’ascolto degli altri.
Ma hanno dei meriti. Uno di questi è farci ricordare nel dettaglio quello che sempre più spesso tendiamo a dimenticare. Ci blandiscono, cioé, rivendicando il ruolo della nostra memoria, e ogni giorno ci dicono cosa facevamo in questo giorno uno, due, dieci anni fa.
Questa mattina mi è servito.
Era la sera del 23 marzo 2020. Ero sola contro un cielo rosso.
Penso alle Marche, in questi giorni. Ci penso egoisticamente, come sempre mi accade quando per qualche motivo sono lontana. Manco da fine gennaio, e a gennaio non mi sono neanche fermata a dormire a casa mia, perché ero impegnata a Macerata per I giorni della merla. Manco da gennaio e per quel moltiplicarsi di impegni e accelerazione forsennata del tempo cui siamo sottoposti in questo periodo non ci tornerò che a fine maggio. Manco, mi manca. Non riesco a scrivere, o se scrivo lo faccio stentatamente, perché non ho la distensione necessaria, e i miei occhi, quando li sollevo dal computer, non vedono il Montigno. Manco e provo a celebrare a mio modo.
Non sono molto abituata ad associarmi alle celebrazioni e alle giornate dedicate. Ma oggi, giornata dell’acqua, dirò dell’acqua, e dei paesi d’acqua delle Marche interne, e anche di un pezzo di Umbria.
Undici anni dopo “No Logo”, Naomi Klein accetta di scrivere un articolo per The Guardian: è il 20 luglio 2011 e molte cose sono cambiate dagli anni della “bibbia del movimento no-global”. Intanto, lo slogan di L’Oreal è passato da “perché io valgo” a “perché voi valete”. In poche parole, non è il più il marchio a cercarti e a convincerti ad entrare nel suo mondo, ma ti chiede, molto democraticamente, di costruirlo.
E’ da stupidi possedere cose, diceva Tom Peters, ma le cose possiedono noi, nel profondo, proprio perchè ci appaiono “immateriali” pur potendo essere toccate e usate. Nei lunghi discorsi di questi giorni sul lavoro culturale, si torna sempre qui: cosa abbiamo capito dell’immateriale, nonostante siano passati lustri?
“Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso”.
Così Sartre, nel 1945. Certo, parole di un altro secolo. Eppure in questi tempi di solitudini e di ripiegamenti, dovrebbero chiamarci ancora a riflettere su letteratura e lavoro culturale (ancora).
A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.
Ho visto l’ultima puntata di The Last of Us, che prima di essere una serie televisiva è stato ed è uno dei videogiochi più belli, narrativamente parlando (mi verrebbe da usare il termine “letterariamente”, in effetti), che siano stati pensati.
Ne scrivo anche per tornare sul lavoro culturale. Perché se ormai può ritenersi assodato e raccontato il legame fra letteratura e cinema, letteratura e serie televisive, letteratura e fumetto, mi pare che si faccia ancora fatica a riconoscere non una dignità (non serve dignità, serve curiosità) ma una potenza narrativa ai videogiochi. Il lavoro culturale è questo. Capire. Aprire. Immaginare.
Per una volta, parlo di faccende editoriali, e parlo persino di qualcosa che mi riguarda, anche se non riguarda solo me.
Negli ultimi giorni mi è capitato di parlare con un paio di persone che organizzano rassegne o piccoli festival. Mi dicono: quest’anno non hai libri pubblicati, che peccato.
Ho risposto che veramente negli ultimi due anni ne ho pubblicati quattro. Ma con piccoli editori.
Perché? Già detto, ma mi ripeto. Per due motivi. Primo: i piccoli editori vanno sostenuti con i fatti e non solo con le dichiarazioni d’intento. Secondo, più egoistico: in un sovraffollamento come quello attuale non mi sento di pubblicare un romanzo su cui magari ho investito tre o quattro anni di lavoro. Preferisco aspettare tempi migliori, se verranno, o comunque pensarci bene su e nel frattempo provare a scrivere come meglio posso.
Su La Stampa di oggi scrivo dell’ansia adulta nei confronti dei figli. Vecchia storia, con cui sono venuta a contatto da quasi trent’anni. Da quando sono diventata madre, cioé: perché non sempre ci si rende conto di quel che avviene. Non sono affatto certa che si tratti di cancel culture. Penso che sia la deriva di quel che è iniziato negli anni Novanta, anche in Italia. Ne ho raccontato un episodio in Ancora dalla parte delle bambine. Fu un incontro brevissimo, ma mi ha fatto capire molte cose: si trattava di una giovane coppia di professionisti che per risolvere il problema di una “prima elementare complicata” si rivolse al Tribunale dei Minori.
L’iniquità del mancato omaggio alle bare di Cutro, la lotta di Gkn, le truffe agli studenti: tre tappe diverse e un’unica necessità. Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.