Categoria: Ancora dalla parte delle bambine

“L’ho uccisa perché l’amavo” esce domenica in allegato con Repubblica. E’ stato pubblicato dieci anni fa, nel 2013, per Laterza ed era fuori catalogo dalla primavera scorsa. E’ un piccolo libro scritto con Michela Murgia in una manciata di settimane: è stato annunciato a me a dicembre 2012, mentre ero in Val d’Aosta, ed è stato concluso a gennaio 2013, mentre Michela era in Val d’Aosta, per chi crede nelle coincidenze. Noi ci abbiamo creduto.
Quello  che si propone il libro non è raccontare storie (altri e altre lo hanno fatto ed è importante che si continui a fare), ma ragionare sulle parole che vengono usate per raccontare le storie. Per questo, posto sul blog un frammento del capitolo introduttivo. 
C’è un misto di gioia e malinconia nel salutare il ritorno di questo piccolo libro, l’unico scritto insieme, un pezzo per una, e lunghe telefonate in mezzo. Ci sono cose che tornano. E altre che non tornano. Così è.

Dieci anni fa, Adriano Sofri scrisse un articolo sul femminicidio e soprattutto sugli uomini che continuano a negarlo, anche oggi.
Lo ripropongo oggi perché la negazione sembra esserci ancora.
“La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?”

C’è una faccenda di simboli che agita gli animi: è bastato riportare su Facebook la protesta di una giovane coppia che ha trovato alla scuola dell’infanzia pubblica crocifissi in ogni aula e obbligo di grembiulino rosa o celeste, per scatenare il putiferio. Soprattutto su due punti: “che male farà mai” e “volete il gender a scuola”. Non rifaccio qui la storia dei simboli medesimi, ma mi colpisce la violenza delle argomentazioni.
 Andiamo avanti.
Anzi, torniamo indietro. Perché quel di cui non si parla è questo: avviene in America, per ora. Più di un anno dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la sentenza Roe v. Wade, gli attivisti messicani per il diritto all’aborto hanno assistito a un aumento delle donne americane che attraversano il confine per cercare di abortire

Ciclicamente, scoppia una polemica sulle lettrici e i social. L’ultimissima riguarda le booktoker, e mi perdonerete se non entro nel dettaglio (un poco di sconcerto me lo tengo: perché chiedere a Natalia Aspesi – da qui è partita la polemica – di parlare di booktoker significa andare a cercare proprio la polemica, perché è evidente che alla grande Natalia alcuni territori non interessano, ma pazienza).
Ancora una volta, però, approfitto per parlare dell’icona stessa della lettrice,  quanto mai gradita agli scrittori di ogni tempo, che si compiacciono della fedeltà e della passione femminile nei confronti dei libri. Perché queste benedette lettrici saranno anche strapazzate a più riprese, e da non pochi scrittori: ma senza di loro quegli stessi scrittori, come sappiamo, non venderebbero. Quindi, anche se parecchi sguardi critici si rabbuiano pensando a queste ragazzacce che secondo loro leggerebbero solo Erin Doom e se alcuni scrittori sfacciati dicono quello che molti pensano in silenzio, deprecando “le professoresse che affollano i festival”, le lettrici servono.
Esiste, insomma, una mistica della lettura femminile che viene esibita orgogliosamente per avvalorare una certa, dolciastra superiorità morale e intellettuale delle donne sugli uomini.  Che brave, le donne, che brave: leggono. Magari leggeranno me, è il pensiero sottinteso di chi inghiotte il disprezzo (non tutti, per carità, non sempre: non pochi, però).

So che questo blog è in ritardo sui tempi previsti. Ma come è noto settembre è un mese fitto di appuntamenti, e viaggiando tra Mantova e Pordenone e Conversano non riuscirò a tornare ad aggiornarlo prima di fine mese. Per farmi perdonare, posto qui il mio articolo uscito su L’Espresso di inizio settembre. Era ed è sulla violenza contro le donne.
Pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a “moderne fattucchiere” fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle “comunità di dominio”, come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte.

Ma qui occorrerebbe frugare nelle biblioteche e recuperare un libro del 2009, La donna a una dimensione della filosofa inglese Nina Power. In parole molto povere, Power parlava di come la narrazione popolare avesse trasformato il femminismo in tendenza alla moda, che “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”: sempre in parole povere, quel tipo di femminismo, quello del “purché sia donna”, era entrato a far parte dei meccanismi di controllo sociali, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”, con la stessa “blandizie” di cui parlava Michel Foucault. Potere, tacchi a spillo, privilegi, ricchezza, vite performanti, avventure notturne, tailleur firmati, divertimento forzato, ansia da prestazione. Sex and the City, certo: un mondo dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato con lo stesso cinismo, di usare una carta Amex nera e di consumare sesso in una maniera considerata maschile. Non si parlava di scelte individuali, o indotte da una determinata condizione sociale (essere molto ricche a Manhattan): ma di identificazione in un genere sessuale. Una donna che agisce come un uomo.
E’ quel momento dell’anno in cui il blog si congeda: sarò nelle Marche da stasera agli inizi di settembre, mi affaccerò sui social ma non qui. Vi lascio con l’articolo che ho scritto per L’Espresso ai primi di luglio, per meditarci un po’ insieme. Abbiate un’estate felice, o voi del commentarium.

Premessa: non ho visto il film Barbie. Lo farò, appena riuscirò a respirare in questo periodo folle. Però sono molto colpita dalla barbizzazione del mondo che mi circonda, reale e virtuale, in questi giorni sfolgorante di rosa shocking. Ho letto parecchio sul film, comprendo che sia portatore di un messaggio femminista – così mi vien detto – eppure conservo, a prescindere, l’antica perplessità. Cosa succede quando un contenuto positivo viene fagocitato dal marketing? Quanto quel contenuto perde forza e va a vantaggio di un mercato in grado di inghiottire e risputare ogni sacrosanta battaglia per i diritti? Dobbiamo farci necessariamente i conti o possiamo trovare altre strade?
Nell’attesa di capirne di più, vi posto l’articolo che ho scritto un paio di settimane fa per il Venerdì. A prescindere, appunto.

Ricordo come fosse ieri quella cena autunnale (era il 2016) in un ristorante dell’Esquilino (che era buonissimo, ma non ricordo come si chiamava), dove Nicola Lagioia mi raccontò qual era il progetto a cui tentava di dare forma. La prima cosa di cui mi parlò era il gruppo editoriale. Era, allora, un’impresa difficilissima. Oggi si tende a dimenticarlo, ma il Salone era dato per morto. Fior di editori chiamavano in disparte i propri autori per traghettarli a Milano, a Tempo di Libri, e sussurravano che non aveva senso sprecare tempo per un cadavere.
Io me lo ricordo. Altri meno.
Non elenco tutto quello che è stato fatto, e che va al di là delle singole presentazioni dei singoli libri. Ma basta compulsare gli archivi o fare appello alla propria memoria, e ricordare che abbiamo portato quello che non c’era, i mondi che non avevano parola, e soprattutto un modo diverso di lavorare.

Su La Stampa di oggi scrivo dell’ansia adulta nei confronti dei figli. Vecchia storia, con cui sono venuta a contatto da quasi trent’anni. Da quando sono diventata madre, cioé: perché non sempre ci si rende conto di quel che avviene. Non sono affatto certa che si tratti di cancel culture. Penso che sia la deriva di quel che è iniziato negli anni Novanta, anche in Italia. Ne ho raccontato un episodio in Ancora dalla parte delle bambine. Fu un incontro brevissimo, ma mi ha fatto capire molte cose: si trattava di una giovane coppia di professionisti che per risolvere il problema di una “prima elementare complicata” si rivolse al Tribunale dei Minori.

Quando la letteratura dice “io”, e lo dice sempre più spesso e in ogni forma, e anzi a questo punto sa che, almeno per un altro po’ di tempo, più dice io e più incontrerà successo, è normale che le altre forme narranti ripetano “io”. In verità, hanno cominciato prima le altre forme: la televisione e poi, ovviamente, i social. Dunque, non mi stupisce che anche le lettere sanremesi continuino (Chiara Ferragni non è la prima) a dire “io” per poi provare a declinare il noi, senza davvero volerlo fare, credo.
Naturalmente non propongo un paragone ma un’alternativa possibile. Un altro modo di dire “io”. E, soprattutto, un altro intento. Dal discorso di Annie Ernaux per l’accettazione del Nobel per la letteratura.
“È così che ho concepito il mio impegno nella scrittura, che non consiste nello scrivere “per” una categoria di lettori, ma “partendo” dalla mia esperienza di donna e di immigrata interna, dalla mia memoria ormai sempre più lunga degli anni attraversati, dal presente, fornitore incessante di immagini e parole degli altri. Questo impegno come pegno di me stessa nella scrittura, e sostenuto dalla credenza, divenuta certezza, che un libro possa contribuire a cambiare la vita personale, a spezzare la solitudine delle cose subite e seppellite, a pensarsi in modo diverso. Quando l’indicibile viene alla luce, è politico”.

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