Forse susciterà discussioni meno accanite rispetto al gradimento o meno di una serie televisiva, ma insisto sul lavoro culturale (su cui ieri è intervenuto Il Post, sottolineando i rischi della mancanza di bibliodiversità nelle librerie). Anzi, lascio spazio alla lettera che ho ricevuto da Otello Baseggio, ex libraio ed ex direttore di una libreria Feltrinelli, che ha acconsentito (grazie!) alla pubblicazione sul blog.
“Assistiamo a un salto all’indietro di cinquant’anni, quando le librerie, anche le Feltrinelli, organizzavano il proprio assortimento per bandiere editoriali e collane; proprio le Feltrinelli abbandonarono quel sistema per riorganizzare l’offerta in ragione degli interessi dei lettori e perciò ampliarono enormemente l’offerta traducendola in settori veri e propri”.
“L’attuale contrasto tra librai e dirigenza ha trovato la sua miccia nell’euro e cinquanta, ma trova motivazioni profonde lontane e attuali: la centralizzazione da anni va di pari passo con la verticalizzazione, quali due ruote dentate collaboranti in senso antiorario, con processi che via via sottraggono ai librai competenze di scelte, proposte, ordini novità, riordini di catalogo, rese”
“Giorgio Belledi, ahinoi scomparso qualche anno fa, straordinario libraio e direttore a Parma, sosteneva che in Italia i libri non si vendono perché non lo si vuole: aveva e ha ancora ragione; mancano progetti e piani di sviluppo nel business dei libri, impera da anni l’ossessione dei tagli senza contropartite che allarghino la base di lettori acquirenti, non ci sono piani di sviluppo dei servizi, oggi assai arretrati, di profilazione dinamica del fronte di offerta, di efficienza e innovazione dei processi operativi, di formazione continua dei librai, di organizzazione ed empowerment degli stessi”
Eccetera. Eccetera.
Categoria: Ancora dalla parte delle bambine
Dopo il libro sulle madri, uscito nel 2013, ho anche detto che non avrei scritto altro sulle donne: smentendomi nel giro di pochi mesi, perché fu allora che Michela Murgia e io scrivemmo L’ho uccisa perché l’amavo (che tornerà, peraltro, fra non moltissimo, e sarà dunque di nuovo disponibile).
Comunque, ho ripetuto che non avrei scritto altro: non in un libro, almeno, perché sui giornali e sul blog ho continuato a parlare di donne e femminismi. Il motivo era ed è semplicissimo: era giusto che parlassero e scrivessero le altre, soprattutto più giovani di me, ed era giusto che le voci si moltiplicassero, ed era ingiusto tentare di avocare a sé qualunque tentativo di portavocismo (neologismo orribile, ma me lo passerete).
Quando Sperling&Kupfer, diversi mesi fa, mi ha chiesto di curare una raccolta di testi sulla violenza contro le donne prima ho detto no, poi ho detto vediamo, e infine, ragionandoci molto, ho detto sì. Perché era l’occasione giusta per parlare di violenza dal punto di vista culturale, e culturale significa infinite cose, dalla letteratura alla memoria familiare, dalla lingua alla mostrificazione dei corpi ai luoghi dove parlano e si incontrano le giovani persone. E dunque doveva essere un libro collettivo.
Si intitola Le parole sono uno sciame d’api, reinterpretando un verso di Anne Sexton. Perché le parole servono a raccontare e a sperare, anche, di cambiare il mondo.
E’ un libro di tutte le donne che hanno accettato di scrivere: donne diverse fra loro per professione e punti di vista, e anche per femminismi, e questa è una cosa meravigliosa, in tempi di divisioni. Grazie a Maura Gancitano, Vera Gheno, Jennifer Guerra, Giulia Paganelli, Melissa Panarello, Romana Petri, Chiara Volpato.
E a Elisa Seitzinger per la copertina.
Solo una cosa, in chiusura. Ieri ho annunciato l’uscita del libro su Facebook. Mi è stata immediatamente rimproverata, da due uomini che conosco come persone gentili, peraltro, l’assenza di firme maschili. Mi auguro che leggendo, se vorranno, comprenderanno il motivo: questo non è un saggio sociologico sulla violenza. E’ un’insieme di sguardi di donne su come quella violenza, che non è evidentemente solo fisica, viene percepita. E questo deve essere, per me. Poi, attendo un libro fratello tutto al maschile. Così come ho atteso per quasi vent’anni, invano, e avendolo sollecitato, il corrispettivo maschile di Ancora dalla parte delle bambine. Magari succede.
E’ una bellissima primavera per le scrittrici: sono usciti o stanno uscendo romanzi attesi e belli. Ne prendo uno, intanto, Alma di Federica Manzon, che con la grazia cristallina che la contraddistingue esplora la grande questione dei ritorni, e dei confini, e dei Balcani, che pochi e poche, in Italia almeno, raccontano. Intanto leggetelo e amatelo come l’ho amato io.
Approfitto di Alma per tornare su una questione che mi sta a cuore non da oggi, e che è quella delle scrittrici. Che noia, diranno i soliti, ancora sulle quote rosa in letteratura. Affatto. Continuo a pensare che occorra parlare della scarsa “visibilità” delle scrittrici, nel senso di riconoscimento di autorevolezza, nel senso che lo stesso libro firmato da uno scrittore in molti casi susciterebbe un fiorir di elogi. Ma bisogna parlare anche del fenomeno contrario, secondo il quale molte lettrici sceglierebbero, dicon le tendenze, di leggere con maggior riluttanza il testo di uno scrittore di sesso maschile, specie se esordiente o quasi. Generalizzo, evidentemente, e altrettanto evidentemente esistono le eccezioni virtuose.
“L’ho uccisa perché l’amavo” esce domenica in allegato con Repubblica. E’ stato pubblicato dieci anni fa, nel 2013, per Laterza ed era fuori catalogo dalla primavera scorsa. E’ un piccolo libro scritto con Michela Murgia in una manciata di settimane: è stato annunciato a me a dicembre 2012, mentre ero in Val d’Aosta, ed è stato concluso a gennaio 2013, mentre Michela era in Val d’Aosta, per chi crede nelle coincidenze. Noi ci abbiamo creduto.
Quello che si propone il libro non è raccontare storie (altri e altre lo hanno fatto ed è importante che si continui a fare), ma ragionare sulle parole che vengono usate per raccontare le storie. Per questo, posto sul blog un frammento del capitolo introduttivo.
C’è un misto di gioia e malinconia nel salutare il ritorno di questo piccolo libro, l’unico scritto insieme, un pezzo per una, e lunghe telefonate in mezzo. Ci sono cose che tornano. E altre che non tornano. Così è.
Dieci anni fa, Adriano Sofri scrisse un articolo sul femminicidio e soprattutto sugli uomini che continuano a negarlo, anche oggi.
Lo ripropongo oggi perché la negazione sembra esserci ancora.
“La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?”
C’è una faccenda di simboli che agita gli animi: è bastato riportare su Facebook la protesta di una giovane coppia che ha trovato alla scuola dell’infanzia pubblica crocifissi in ogni aula e obbligo di grembiulino rosa o celeste, per scatenare il putiferio. Soprattutto su due punti: “che male farà mai” e “volete il gender a scuola”. Non rifaccio qui la storia dei simboli medesimi, ma mi colpisce la violenza delle argomentazioni.
Andiamo avanti.
Anzi, torniamo indietro. Perché quel di cui non si parla è questo: avviene in America, per ora. Più di un anno dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la sentenza Roe v. Wade, gli attivisti messicani per il diritto all’aborto hanno assistito a un aumento delle donne americane che attraversano il confine per cercare di abortire
Ciclicamente, scoppia una polemica sulle lettrici e i social. L’ultimissima riguarda le booktoker, e mi perdonerete se non entro nel dettaglio (un poco di sconcerto me lo tengo: perché chiedere a Natalia Aspesi – da qui è partita la polemica – di parlare di booktoker significa andare a cercare proprio la polemica, perché è evidente che alla grande Natalia alcuni territori non interessano, ma pazienza).
Ancora una volta, però, approfitto per parlare dell’icona stessa della lettrice, quanto mai gradita agli scrittori di ogni tempo, che si compiacciono della fedeltà e della passione femminile nei confronti dei libri. Perché queste benedette lettrici saranno anche strapazzate a più riprese, e da non pochi scrittori: ma senza di loro quegli stessi scrittori, come sappiamo, non venderebbero. Quindi, anche se parecchi sguardi critici si rabbuiano pensando a queste ragazzacce che secondo loro leggerebbero solo Erin Doom e se alcuni scrittori sfacciati dicono quello che molti pensano in silenzio, deprecando “le professoresse che affollano i festival”, le lettrici servono.
Esiste, insomma, una mistica della lettura femminile che viene esibita orgogliosamente per avvalorare una certa, dolciastra superiorità morale e intellettuale delle donne sugli uomini. Che brave, le donne, che brave: leggono. Magari leggeranno me, è il pensiero sottinteso di chi inghiotte il disprezzo (non tutti, per carità, non sempre: non pochi, però).
So che questo blog è in ritardo sui tempi previsti. Ma come è noto settembre è un mese fitto di appuntamenti, e viaggiando tra Mantova e Pordenone e Conversano non riuscirò a tornare ad aggiornarlo prima di fine mese. Per farmi perdonare, posto qui il mio articolo uscito su L’Espresso di inizio settembre. Era ed è sulla violenza contro le donne.
Pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a “moderne fattucchiere” fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle “comunità di dominio”, come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte.
Ma qui occorrerebbe frugare nelle biblioteche e recuperare un libro del 2009, La donna a una dimensione della filosofa inglese Nina Power. In parole molto povere, Power parlava di come la narrazione popolare avesse trasformato il femminismo in tendenza alla moda, che “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”: sempre in parole povere, quel tipo di femminismo, quello del “purché sia donna”, era entrato a far parte dei meccanismi di controllo sociali, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”, con la stessa “blandizie” di cui parlava Michel Foucault. Potere, tacchi a spillo, privilegi, ricchezza, vite performanti, avventure notturne, tailleur firmati, divertimento forzato, ansia da prestazione. Sex and the City, certo: un mondo dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato con lo stesso cinismo, di usare una carta Amex nera e di consumare sesso in una maniera considerata maschile. Non si parlava di scelte individuali, o indotte da una determinata condizione sociale (essere molto ricche a Manhattan): ma di identificazione in un genere sessuale. Una donna che agisce come un uomo.
E’ quel momento dell’anno in cui il blog si congeda: sarò nelle Marche da stasera agli inizi di settembre, mi affaccerò sui social ma non qui. Vi lascio con l’articolo che ho scritto per L’Espresso ai primi di luglio, per meditarci un po’ insieme. Abbiate un’estate felice, o voi del commentarium.
Premessa: non ho visto il film Barbie. Lo farò, appena riuscirò a respirare in questo periodo folle. Però sono molto colpita dalla barbizzazione del mondo che mi circonda, reale e virtuale, in questi giorni sfolgorante di rosa shocking. Ho letto parecchio sul film, comprendo che sia portatore di un messaggio femminista – così mi vien detto – eppure conservo, a prescindere, l’antica perplessità. Cosa succede quando un contenuto positivo viene fagocitato dal marketing? Quanto quel contenuto perde forza e va a vantaggio di un mercato in grado di inghiottire e risputare ogni sacrosanta battaglia per i diritti? Dobbiamo farci necessariamente i conti o possiamo trovare altre strade?
Nell’attesa di capirne di più, vi posto l’articolo che ho scritto un paio di settimane fa per il Venerdì. A prescindere, appunto.