Categoria: Cose che accadono in giro

E’ che sono stata abituata male.
Sono stata abituata a credere nell’intelligenza dei gruppi, nella diverse età della mia vita. E ho potuto far parte più volte di gruppi luminosi per intelligenza: nella mia giovinezza, al tempo del partito radicale, negli anni Novanta, quando ho conosciuto gli attuali Wu Ming, negli anni Zero, quando ho conosciuto scrittori e scrittrici che sono ancora fra le mie amicizie. Uno su tutti, morto esattamente tre anni fa, era Valerio Evangelisti, che è stato davvero un compagno di via indimenticabile, non solo come autore, ma per  lo sguardo ai deboli, ai non garantiti, ai contadini, a coloro cui abitualmente non si guarda.
Ho potuto farlo, ancora, negli anni Dieci, con l’avventura magnifica del Salone del Libro insieme a Nicola Lagioia e al gruppo editoriale, quando non si trattava solo di metter su un programma ma di immaginare qualcosa di diverso da quanto si era conosciuto fino a quel momento.
Ecco, con tutte queste storie alle spalle e peraltro ancora vive nel presente, proprio non riesco a capire come si possa mettere insieme pensiero politico, e letterario, e giornalistico usando l’arma  della delegittimazione. Davanti a questa sempre più ampia tendenza, mi viene in mente ancora una volta Mark Fisher, quando parlava di salute mentale e diceva che “la depressione è il lato oscuro della cultura dell’autopromozione”. Credo sinceramente che siamo tutte e tutti, se non depressi, nella terra che lambisce la depressione stessa. Perché “la nostra immaginazione”, ha scritto Fisher in The Only Certainties are Death and Capital, “è ancora dominata (o stordita) dal lavoro che emerge da questa mistione dopata di edonismo, cinismo e pietà che hanno governato l’arte e la politica negli anni Novanta e nei primi anni Zero”.
E come se ne esce? Lo diceva proprio Evangelisti: costruendo un immaginario attraverso le storie, che ci aiuti a “evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”. Sognando un altro sogno, insomma.
Dovremmo, tutte e tutti, essere consapevoli di questa possibilità che è anche una responsabilità. Anche quando scriviamo un post. Anche quando commentiamo. Ogni volta che prendiamo parola pubblica e sprechiamo l’occasione, contribuiamo a quel cinismo che ci sta schiacciando da anni.
E Buona Pasqua.

Che ci fosse una dicotomia in atto è cosa risaputa da cinque anni, ed è nata e si è sviluppata nel momento in cui dicevamo di noi stessi che saremmo stati migliori. Invece, non abbiamo mai fatto i conti con gli effetti della pandemia e, prima ancora, di un certo uso dei social che ha scavato la divisione profondissima fra “voi e noi”. Non è la prima volta che scrivo di questo, ma ci torno perché in questi anni, e poi in questi giorni, sto constatando quanto sia diventato difficilissimo dialogare.
Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin (atto spaventoso,  diciamolo prima che qualcuno alzi il ditino e dia della putiniana a me, a me che ancora fremo di rabbia per l’assassinio di Anna Politkovskaja), non è stato più possibile parlare di pacifismo senza ricevere insulti.
E’ avvenuto con Carlo Rovelli, avviene con Alessandro Barbero.
Laddove chiunque abbia contestato l’uso del falso video “in quanto falso video”, e non per le posizioni che venivano espresse, è putiniano, fango, fan accecato, altro.
Ci sono ovviamente decine di altri esempi sul modo in cui ci si divide e ci si sbrana vicendevolmente, ma non fa ben sperare il fatto che persone stimabili e stimate, intelligenti, colte, attente a quanto succede nel mondo, mostrino sempre più quello che, se non sbaglio (potrei) Elias Canetti chiamava “duro cristallo di rancore”.
E ancora, allora, qual è il compito di chi scrive? Secondo il mio umilissimo parere è esattamente auspicare altri discorsi, altri confronti, altre parole. Che non eliminino il conflitto, ma anzi lo accolgano nei termini in cui possa essere costruttivo.

Già, e le fumetterie? O comunque i luoghi dove si vendono i fumetti? Fin qui abbiamo parlato di librerie, ma il meccanismo della centralizzazione non è prerogativa delle medesime.
Oggi mi ha scritto un lavoratore che chiamerò Qin, come uno dei protagonisti della bellissima serie a fumetti Strangers in Paradise di Terry Moore. Ed ecco qual è la situazione.
“Da qualche anno (e con orgoglio) è stata introdotta la “tecnica dei 5 sorrisi” ovvero 5 step di vendita che i commessi devono mettere in pratica con ogni cliente. Se utilizzata bene e con costanza, si potrà portare a termine la vendita riuscendo a fare un add-on sale e anche un upsale! Mi spiego: un add-on sale è la vendita di un oggetto che magari non si sta nemmeno cercando, ma inerente a quello che si compra.
Per esempio:  abbiamo un cliente che è entrato per comprare un fumetto dal prezzo di 5,20 che, se sono stato bravo, ha comprato i primi 10 numeri di quel fumetto (52,00€) e mi sta lasciando un’altra decina di euro per sovrapprezzo della variant e buste protettive.

Ma (cito nuovamente) non devo sentirmi in colpa se faccio spendere tutti questi soldi a un cliente, perché gli sto dando dei consigli preziosi per divertirsi. E il tutto, se sono bravo, in venti minuti. Perché poi devo passare al prossimo.

Come si fa a controllare se i propri dipendenti effettuano con successo la tecnica dei 5 sorrisi? Avvalendosi di un’altra ditta che procura dei “mistery client”, ovvero finti clienti che di mese in mese vengono mandati nei punti vendita in tutta Italia allo scopo di creare varie situazioni di vendita e compilare poi un questionario di valutazione per il commesso che li ha serviti, con punteggio che va fino a 100. Per la catena, la sufficienza è il 95).”

Nelle giornate un po’ storte, e aprile è per sempre il più crudele eccetera, avviene che si aggiungano alle cose storte altre cose storte, quindi il post non sarà proprio allegro.
Da ieri sera, costernata per centinaia di cose, dal pestaggio dei manifestanti milanesi (anche da parte del poliziotto con bomber che inneggia ai neonazisti polacchi) alla modifica costituzionale in Ungheria che infine porta alla negazione delle manifestazioni Lgbtq+, e ovviamente si può andare avanti e avanti, perché non ci mancano e non ci mancheranno le notizie che ci mozzano il fiato e ci fanno chiedere cosa succederà, anzi, cosa sta succedendo già.
Giusto, questa forse vi manca: l’amministrazione Trump ha congelato oltre due miliardi di sovvenzioni ad Harvard, perché l’università, prima fra gli altri atenei, si è rifiutata di aderire alle richieste del governo. Ovvero, “ridurre il potere di studenti e docenti ;  segnalare immediatamente alle autorità federali gli studenti stranieri che commettono violazioni della condotta; e di coinvolgere un soggetto esterno per garantire che ogni dipartimento accademico sia “diversificato da opinioni diverse””.
Tutto quasi noto, certamente. Mi chiedo, come spesso mi accade, cosa possono fare le persone che lavorano con le parole. Raccontarlo, certo: serve a pochissimo, ma almeno potrebbe essere qualcosa di meglio rispetto al lamento sulle persone che vengono alle presentazioni e poi non comprano i libri (si è liberissimi di essere stufi di fare presentazioni, per carità: ma fare di un caso personale un caso generale mi sembra eccessivo), o al trecentocinquantesimo libro sulla propria ava. Capita di essere sconfortate, come me oggi, e di cercare una risonanza, un barlume di interesse, uno sguardo verso il mondo: ci sono, eh, ma non sono così tanti.

Erano altri anni, da ogni punto di vista e anche per la mia piccola vita. Venticinque anni fa collaboravo regolarmente con Repubblica e il 13 aprile 2000 scrissi questo articolo su Gianni Rodari. E dal momento che il giornale oggi lo ripropone on line, lo ripropongo pure io. Con immensa nostalgia per Rodari.

“C’ è una cosa che non si dice abbastanza sul celebratissimo Gianni Rodari, in questi giorni ancor più celebrato in occasione del ventennale dalla morte. Una cosa che viene anzi dimenticata del tutto, forse perché non in linea con il politicamente ipercorretto che si vuol forzatamente attribuire allo scrittore di Omegna. Il fatto è che Rodari fu probabilmente l’unico intellettuale italiano a prendere posizione a favore di un mondo che tutti gli altri odiavano perché lo percepivano estraneo e dunque minaccioso, un mondo che, non casualmente, sarebbe diventato la cultura di riconoscimento per una generazione intera: quello dei cartoni giapponesi. Era il 1980, l’anno della sua morte, e Rodari scrisse per Rinascita un articolo che si chiamava Dalla parte di Goldrake, il robot appena approdato in Italia e già oggetto di interpellanze parlamentari e anatemi pedagogici. Schivando le saette, Rodari proponeva: “Invece di polemizzare con Goldrake, cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno. Il vecchio Ercole era metà uomo e metà dio, questo in pratica è metà uomo e metà macchina spaziale, ma è lo stesso, ogni volta ha una grande impresa da affrontare, l’affronta e la supera. Cosa c’è di moralmente degenere rispetto ai miti di Ercole?”.

La settimana scorsa ho pubblicato su Lipperatura la lettera di Anonima Libraia che esprimeva diverse critiche al primo intervento di Otello Baseggio. Il quale mi ha riscritto, e devo dire che gli scritti di Baseggio, anche se giustamente molto tecnici, sono lezioni importanti per me e credo anche per voi che leggete. Pubblico dunque la sua replica e approfitto per ricordare che il blog non sarà aggiornato fino a lunedì, perché per l’intera settimana ho lezione a Torino.
“Quanto all’aspetto economico di Panoplìa la dottrina di David Ricardo sui rendimenti decrescenti potrebbe esserti utile
– l’anonima libraia ha notato direttori di passaggio in magazzino osservare che qualche editore entrava a sconto “bassissimo”; un tocco di attenta osservazione: tanti, ma davvero tanti librai universitari sono diventati ricchi con fornitori al 25% quand’anche al 20%, trasferendo pure uno sconto del 15% o del 10% ai loro clienti; come mai? Lo sconto residuale andava a colpire libri di alto prezzo, ad altissima rotazione (magazzino pressoché azzerato a fine campagna) e a domanda rigida, lo stesso avviene con gli acquisti internet: se non hai domanda rigida, ma hai un profilo qualitativo ben definito riesci a dare rigidità al tuo bacino di clienti e, con gli strumenti e l’attenzione imprenditorialmente dovuti (non è possibile dilungarsi ma molti Baseggio ne ha illustrati durante i lunghi anni della formazione d’aula), puoi creare valore e ricchezza da distribuire, per esempio ai dipendenti, diversamente non avrai quanto serve da mettere sul tavolo per una buona trattativa
– semplificazione con esposizione per sigle editoriali: vallo a dire a chi si occupa di saggistica o legge narrativa per generi o acquista libri per ragazzi ragionando per interessi ed età: Panoplìa non soddisfa nessuno di questi requisti; Feltrinelli ha fondato le proprie fortune sulle porte aperte ai libri di buona fattura culturale e di intrattenimento, questo era il discrimine, la gestione commerciale poggiava su questo discrimine per ottenere condizioni favorevoli, discriminare sulla sola base del costo di acquisizione alza invece un muro invalicabile per parte di autori e opere che soddisfano il criterio fondativo, di conseguenza alla fruizione del pubblico nella catena Feltrinelli si tolgono opere che tale criterio soddisfano”

Per una volta, vi invito apertamente a comprare L’Espresso, per un paio di motivi.
Il primo: Sabina Minardi racconta il disvelamento di Jianwei Xun, autore di Ipnocrazia, saggio pubblicato da Tlon sui meccanismi del potere nell’era digitale. Lo legge, coglie alcuni indizi disseminati nel testo, comincia a dare la caccia al filosofo. E capisce, infine, che si tratta di un esperimento sulla costruzione della realtà nei nostri tempi. Così, intervista Andrea Colamedici, che racconta come il libro sia nato da un esperimento di “cocreazione” con l’intelligenza artificiale.
Mitopoiesi, si diceva negli anni Novanta a proposito di Luther Blissett.
Nell’intervista, Colamedici spiega il processo di costruzione di Xun e invita, ed è necessario, a una riflessione pubblica. Da leggere.
E già che ci siamo, in questo numero, oltre alla Cosa preziosa della settimana, c’è un mio lungo articolo sulle Nuove Indicazioni 2025 del ministro Valditara.
Che comincia così:

“Immaginiamo che a Guglielmo da Baskerville, il sapiente protagonista de Il nome della rosa di Umberto Eco, venga chiesto se è vero che “solo l’Occidente conosce la Storia”, come si afferma nelle Nuove Indicazioni 2025 per la Scuola dell’infanzia e il Primo ciclo di Istruzione. La domanda andrà naturalmente corredata da una precisazione per non incorrere nell’ira di Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera del 25 marzo ha detto, non senza anatemi verso “la miseria del nostro ceto intellettuale”, che la frase con cui si apre la parte del documento dedicata allo studio della Storia va intesa così: “solo in quell’area geo-storica che si chiama Occidente la conoscenza dei fatti storici e la riflessione su di essi — alimentata dal pensiero greco-romano e dal messaggio cristiano — ha dato vita a una dimensione culturale particolarissima nella quale il realismo analitico più crudo si è mischiato al profetismo sociale più estremo”.
Alla fine della prima riga Guglielmo si sarebbe tolto gli occhiali sbuffando, e, cercando di essere paziente, avrebbe snocciolato una serie di nomi, chiamando a convegno i cinesi Sima Qian, autore di  Shiji o Memorie Storiche,  Ban Gu e sua sorella Ban Gao, cui dobbiamo molto di quanto sappiamo della Cina antica, gli storici arabi Ibn Ishaq e poi Ibn Khaldun la cui Muqaddimah (Introduzione alla Storia Universale) è  considerata una delle opere maggiori della storiografia tutta (vi si parla persino di asabiyya , o solidarietà sociale).”
Segue in edicola.

C’è una libreria di provincia che scrive:
“Cara Loredana, noi da libreria di paese stiamo tenendo duro. Ancora oggi consigliamo regolarmente libri usciti due anni fa o più, insomma di catalogo, anche perché consigliare un libro che non ci è piaciuto solo perché è in quella lista di libri “che vanno di moda” lo consideriamo un tradimento nei confronti dei nostri lettori e lettrici. Tendiamo a tenere più catalogo e le novità solo quelle indispensabili e cioè che riteniamo belle oppure che bisogna per forza avere perché pubblicizzate sui social. I social, come tiktok che ormai sta scavallando anche IG, vanno obbligatoriamente tenuti d’occhio. Cercare di capire cosa attira in libreria i giovani lettori e lettrici è indispensabile se si vuole stare al passo con i tempi. Quello che ci fa ben sperare è che ogni tanto, non spesso ma è meglio che niente, da un libro pubblicizzato sul BookTok chiedono poi Orgoglio e pregiudizio”.
Ci sono le tante librerie grandi e piccole che commentano le storie che sto pubblicando in questi giorni. E ci sono libraie e libraie di catena che sono andate via. Da un ex libraia Feltrinelli ricevo e pubblico.
“So perfettamente quando tutto cambiò: era il 2003 e arrivò la fusione Feltrinelli/Ricordi con la nascita dei Megastore. 
La libreria di Bari si trasformò: oltre 1300 mq di luci e colori e pile di libri ovunque. Più tecnologia (con differenti totem con cuffie che sparavano musica con le hit del momento o con i nuovi videogiochi da testare), più spazio all’intrattenimento e meno ai momenti di silenziosa scoperta tra gli scaffali che piano piano perdevano l’impianto iniziale – il catalogo – per diventare esili (addio bibliodiversità) e con la durata di vita che andava riducendosi sempre più. 
I lettori storici iniziarono a perdersi e a non riconoscersi più in quel luogo che prima era un rifugio e ora sembrava inseguire logiche diverse: ricordo i primi scioperi bianchi, le varie proteste con il primo esproprio e le manifestazioni con gli slogan “Feltrinelli discount della cultura” strillati da tutti. Il sindacato che premeva e molto spesso otteneva mettendoci forza e cuore”.

Perché quando si comincia è difficile smettere, e per fortuna. Continuano ad arrivare mail e messaggi, e testimonianze dal mondo delle librerie. E io mi chiedo quando è successo che ci siamo distratti, e distratte, e perché.
Qui la persona che mi scrive ha lavorato in una libreria di catena che non è Feltrinelli, e racconta che sono almeno dieci anni che il lavoro è cambiato, e che la considerazione stessa in cui si tengono i libri è profondamente mutata.
Buona lettura.
“Quando ho varcato per la prima volta la soglia di una libreria come dipendente, la rotazione dei libri sugli scaffali era di sei mesi. C’era il tempo di far scoprire un titolo, di consigliarlo, di lasciarlo respirare sugli scaffali e trovare il suo pubblico. C’era un’idea di permanenza, di cura.
Quando ho lasciato quel mondo, la rotazione era ridotta a un mese e mezzo, due mesi al massimo. Il mio ruolo si era trasformato da libraiə a facchinə, ma senza la dignità salariale di un vero facchino.”
“Non sorprende, oggi, quello che sta succedendo in Feltrinelli. In altre catene era già cominciato da anni: nel 2015-2016, molte figure esperte e appassionate sono state sostituite da supermanager provenienti da settori che nulla avevano a che fare con il libro. Il loro unico obiettivo era il taglio dei costi, la riduzione del personale qualificato, lo smantellamento delle reti di agenti e di supporto alle librerie. Tutto ciò che era ritenuto “superfluo” è stato spazzato via con un colpo di spugna, mantenendo una direzione precisa. In compenso, venivano organizzati in tutta fretta corsi di aggiornamento per i librai, affinché imparassero a vendere di più, e soprattutto, a vendere tutto, senza distinzioni.”
“Ma la domanda che oggi dovremmo porci è: cosa resta della libreria se viene meno il libraio? Cosa resta del libro se è trattato come una merce qualsiasi, soggetta a scadenze, trend imposti e obsolescenza programmata?”

Pubblico tutte le lettere di libraie e librai che sto ricevendo, dunque anche quella di Anonima Libraia che, come leggerete, è molto critica nei confronti di Otello Baseggio. Su questo si aprirà la discussione. Ma su una cosa non sono d’accordo io, e dunque mi prendo la libertà di dirla: lavare i panni sporchi in famiglia, come si adombra alla fine, nella maggior parte dei casi sfocia in catastrofe.
“Un ruolo decisivo, ma davvero decisivo anche ai tempi dell’online, lo hanno i distributori e i promotori, specie i principali: basti ricordare che gli editori incassano sul distribuito ma guadagnano sul venduto al netto di costi di produzione, redazione, resa, trasporto, stallo, macerazione. Un’impresa che giustamente è stata paragonata alla lotteria, che induce ad acquistare un altro biglietto (ovvero a pubblicare un altro libro e distribuirlo e incassare altro denaro) nella speranza di imbroccare la vincita (il libro buono, che permette di sistemare i conti e sanare i bilanci).”

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