Categoria: Cose che accadono in giro

Non da oggi medito sui gruppi facebook  e sui comitati di quartiere, che sono cosa preziosa in sè ma facilissimi alle infiltrazioni. Che infatti ci sono e prosperano. Dunque, accanto ad annunci e ricerche, che sono cose utili, e segnalazioni di gatti a zonzo, quello che accalora gli animi è la prossima apertura di un centro di accoglienza per i senza dimora a Pietralata. Parliamo di venti persone, non di duecento. Orbene. Ci sono un paio di utenti, quasi sempre con profilo semivuoto, che soffiano sul fuoco paventando rapine, scippi e stupri e la catastrofe criminosa nel quartiere. Perché, questa è l’argomentazione, i delitti sono aumentati.
So di ripetermi, ma vale sempre la pena tornarci.
Qualche settimana fa, a Fahrenheit, Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto nell’Università Roma Tre e autore di Giustizia e politica , ha fornito nuovamente i numeri. In particolare:
“Negli ultimi trent’anni la criminalità in Italia è crollata: gli omicidi, che nel 1991 furono 1.938, sono oggi poco più di 300 e anche gli altri reati sono in larga parte diminuiti. “

Ieri sera ho rivisto Ferie d’agosto. Per curiosità, per nostalgia di Ventotene, per capire. Non scriverò quel che altri hanno già scritto, ovvero di come molta parte di quel che siamo diventati era, in nuce, in quella storia. Però, per assonanze, ho ricordato altro: in quello stesso 1996 David Forster Wallace rilasciava un’intervista a Salon. E diceva, fra l’altro: “C’è però poi a volte una specie di “Ah-ha!” Qualcuno almeno per un momento, sente o vede qualche cosa nel mio stesso modo. Non sempre succede. Sono dei lampi o brevi fiammate, ma a me ogni tanto succede. Ma mi sento non più solo — intellettualmente, emotivamente, spiritualmente. Mi sento umano e non più in solitudine e in una profonda conversazione piena di significato e con un’altra coscienza in narrativa e in poesia, in un modo che non credo sia possibile con altre arti.”

A PORTE CHIUSE

Negli ultimi quattro anni siamo stati ossessionati dalla casa, siamo stati prigionieri nelle nostre case e capita che molti di noi lo siano ancora. Sia pur liberi di uscire, in certi casi ci riesce difficile. La casa ci richiama indietro, ci pretende, e anche se il mondo è teoricamente (almeno in parte, viste le circostanze) a nostra disposizione, ci ricorda che anche quando facevamo i turni per metterci in coda al supermercato eravamo colti da una strana fascinazione per le nostre quattro pareti, piccole o grandi.
Ora, sul New York Times di ieri c’è un articolo sulla nuova tendenza di farsi costruire una porta nascosta che conduce in una stanza segreta nella propria casa: esattamente come quelle dei romanzi gotici o delle Cronache di Narnia. C’è anche chi si dà al fai da te, con le porte girevoli mascherate da libreria: ma non mi fanno pensare a Narnia, né a un gioco illusionistico, in verità. Mi fanno pensare, invece, a un peggioramento di quel ritirarsi nel Sè, sempre più profondo, sempre più separato e chiuso, che ormai caratterizza il nostro tempo. Un rifugio dove è impossibile entrare (e, chissà, uscire).
E questo, a mio parere, spiega molte cose.

COMPLICITÀ

Mediterraneo, il film diretto da Gabriele Salvatores nel 1991, aveva in epigrafe una frase di Henri Laborit: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”. Poco prima, uno dei personaggi diceva: “Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente… e allora gli ho detto… avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice…. così gli ho detto, e son tornato qui.”
Parole che mi sono tornate in mente poco fa, mentre ripensavo a quanto è accaduto ieri e nei giorni precedenti.

QUATTRO ANNI DOPO

Quattro anni fa, cominciava. Non eravamo ancora chiusi nelle case, almeno a Roma, ma stavamo per esserlo. 
Ricordo che stavo preparando la lettura di Testamenti di Margaret Atwood per Radio3, con Viola Graziosi e Laura Palmieri. Ricordo che quella lettura sarebbe avvenuta in una sala vuota, solo noi e, a distanza, i tecnici. Ricordo che l’8 marzo non ci sarebbero state piazze, e per questo la serata si chiamò “Come se fosse una piazza”.
Ricordo tutto. Ricordo di aver scritto e pensato che la mia paura era  che una situazione inedita, che ci spaventava e ci separava, tirasse fuori il peggio di noi. Ricordo di aver letto cose che non avrei voluto e non vorrei mai più leggere. Demonizzazioni di persone che “entrano in un supermercato col naso rosso” e “andrebbero arrestate subito”. Scenari dove i giovani, ovviamente debosciati per anagrafe, ciucciano canne passandosi tonnellate di coronavirus. E i vecchi, si sa, son maledetti perché escono a fare una passeggiata, che crepino subito, si diceva.

Permettete uno sfogo. Sono di cattivo umore, nonostante la palestra e le relative endorfine, perché aprendo la posta mi sono trovata svariate richieste, in certi casi anche un filino imperative, per un passaggio di qualche libro a Fahrenheit. Ora, qui ripeto per la decimillesima volta che è alla redazione che vanno rivolte le richieste medesime e non a chi conduce, né via mail, né via messenger o instagram e neanche via piccione viaggiatore.
Ma approfitto per porre una domanda. Non a chi mi ha scritto, tranquilli.
Leggo sui social cose orrende sul libro di Gino Cecchettin, Cara Giulia, che è uscito ieri. Quando dico orrende intendo in senso letterale. Mi chiedo: perché non riuscite a credere a quello che io, nel mio assai piccolo, vedo invece come un gesto d’amore e di rimpianto? E lo scrive una che non ama molto, come è noto, i memoir (con i soliti distinguo) e che all’ennesimo libro dove si raccontano i propri cari perduti sospira un po’, un po’ tanto, anche quando sono molto belli.

Barbara Balzerani ha attraversato una stagione di morte, ha creduto che si potesse realizzare un mondo migliore con il sangue degli altri. Ha sbagliato atrocemente, ha lungamente pagato (quant’è brutta questa parola, quando si parla di pena, quanto: pagare, pagato). Ha avuto un’altra vita fatta di libri, e di questo si parla molto poco. I titoli dei giornali e molti social insistono sul fatto che non si è mai pentita. Come se la raffica di scuse che la Chiesa offrì negli anni Novanta, chiedendo perdono a Galilei, agli eretici e persino alle streghe che aveva bruciato, riparasse uno strappo. 
La sua morte era attesa da una serie di personaggi che non vedevano l’ora di usarla.
Posso parlare perché, sì, faccio parte di quella generazione che vide il sangue versato dalle Brigate Rosse ma che in nessun momento ha accettato l’ideologia della violenza (ero radicale, ero e sono nonviolenta, prendevo botte da destra, sinistra e polizia).
Perché quando muore qualcuno dei protagonisti di quegli anni quella parola che si chiama diritto sparisce, a favore delle nostre viscere.
 Quel che interessa me è parlare di diritto, ché le viscere sono faccenda personale. Quando c’è un reato, si commina la pena. E talvolta sulla pena e su quel che significa vale la pena interrogarsi.

Mi si scrive in privato sulla vicenda Generale pubblicato da Piemme. Mi si scrive mettendo le mani avanti così: “Immagino che, nel Suo ruolo pubblico, Lei non possa esprimere giudizi sui profili social (o è una mia idea…? Vista l’atmosfera di censura quasi da Inquisizione che ultimamente impera in tv e in altri media)”
Mi si scrive ignorando, evidentemente, un ventennio di blog e di scritture, ma anche un quarantennio e rotti di radio.
Dunque, eccomi qua.
Con un richiamo a Tucidide e uno, ancora e sempre, a George Lakoff. Perché invece di piazzare elefanti nelle piazze reali e virtuali sarebbe il caso di ricostruire il famigerato noi, e di far passare le nostre idee e i nostri frame. E’ il modo migliore per dissolvere in un soffio tutto quello che, anche grazie a noi, si è costruito intorno a un personaggio di nullo valore e di nullo spessore. E a pensarci verrebbe da piangere: mentre avremmo dovuto ridere, e passare oltre.

Tra le pile di libri su vari tavoli, che somigliano ormai a plastici del Grand Canyon, ci sono quelli che aspettavo e volevo leggere (e voglio leggere) ma non sono ancora riuscita ad aprire. In ordine sparso, Alma di Federica Manzon, Marabbecca di Viola Di Grado, Storia dei miei soldi di Melissa Panarello, Chi dice e chi tace di Chiara Valerio, La reputazione di Ilaria Gaspari, Missitalia di Claudia Durastanti, Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini, Dove la luce di Carmen Pellegrino, O Caledonia di Elspeth Barker eccetera eccetera, e chiedo venia a chi non ho nominato perché non è un’esclusione o una diminuzione, ma una dichiarazione di impotenza.
Quel gioco di equilibri che permetteva di pubblicare Naipaul e Uccelli di rovo è andato all’aria, perché escono IN NUMERO MAGGIORE ottimi libri, ma escono tutti insieme, rischiando di annullarsi a vicenda.
E’ un problema enorme.
In più, mentre scrivevo questo post, ha suonato il corriere portandomi Il famiglio della strega di Francesca Matteoni. Sono nei guai. Anzi, siamo, tutte e tutti, scrittrici e scrittori, in grossi guai.

Prevedibilmente, alcuni giornali e molti profili social hanno rievocato in questi giorni alcuni stralci dalla poesia Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini. Qualche politico ha addirittura affermato di essere “come Pasolini” a difesa della polizia. Non stupisce, ma è desolante: non è bastato un centenario, non sono bastati decenni di studi pasoliniani per fare giustizia del pregiudizio. Varrà la pena, allora, riportare qui almeno qualche stralcio dell’articolo che Wu Ming 1 scrisse nel 2015 per Internazionale (con link all’integrale).
“La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.”
 

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