Categoria: Cose che accadono in giro

Questa mattina su La Stampa, Simonetta Sciandivasci torna, da par suo, sulla questione dello sciopero dei librai Feltrinelli. E lo fa, all’inizio dell’articolo, ponendo una domanda non da poco:
“Non risultano scrittori che abbiano preso posizione sullo sciopero dei librai Feltrinelli. Non un’intervista, un intervento, un editoriale, un X, un post, una petizione, un botta e risposta su Facebook, un boicottaggio. Niente”.
E’ già accaduto. Dieci anni fa, quando Erri De Luca andò a processo, e cinque, con un po’ di eccezioni, con il caso Grafica veneta.
Ora, tutte e tutti amiamo Luciano Bianciardi: ma la questione del lavoro culturale non è faccenda del secondo Novecento. Anzi, deve uscire dallo studio di Bianciardi per arrivare all’oggi. Non ci si riesce. Così mi chiedo, oggi come cinque e dieci anni fa, come mai ci sia questa scarsa propensione di  molti scrittori italiani a sentirsi parte di un discorso comune. Con eccezioni, certo. Poche.

Oggi su La Stampa in edicola torno a parlare dei librai Feltrinelli. E parlo anche di un’altra cosa, che racconta nell’articolo Corrado Meluso della valorosa Timeo. Riporto il suo virgolettato perché è importantissimo. 

“Feltrinelli ha preteso dagli editori più piccoli uno sconto di oltre il 50% (a cui vanno aggiunte le percentuali di promozione e distribuzione) solo per aprire le cedole novità e valutarle, e senza garantire maggiore esposizione né un incremento  del prenotato – e considera che la nostra media di prenotato al lancio nel circuito Feltrinelli è stata, nei due anni scorsi, di 17 copie a titolo per oltre 150 librerie. 
Editori un po’ più grandi di noi sono stati inclusi in un programma chiamato Panoplia, che prevede uno sconto base del 48%, che aumenta di 2/3 o 4 punti nel caso dovesse generare un incremento sul sell out del 10/20 o 30% rispetto all’anno precedente, e consente agli editori di raccontare la cedola anche ad alcuni librai Feltrinelli oltre che alla propria rete vendita: disintermediando si aumenta lo sconto, in buona sostanza, anziché diminuirlo”.

Cosa succede se ti rifiuti? Non sei in Feltrinelli, se non a richiesta del lettore (con quello che i librai Feltrinelli chiamano “Ordine Special”). E perché succede? Per un motivo ovvio, da una parte: dare più spazio ai libri pubblicati dal gruppo, e ci potrebbe pure stare.
Ma ci sono altre questioni.

Feltrinelli celebra i suoi 70 anni con ristampe e festeggiamenti. Intanto, però, i  1200 librai Feltrinelli scioperano, oggi, per otto ore: le organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs ricordano di aver incontrato la direzione della catena di librerie lo scorso 28 febbraio, per discutere del rinnovo del contratto integrativo aziendale senza che il confronto abbia portato a nulla. L’azienda, dicono, dimostra chiusura rispetto alle richieste: l’aumento del ticket-buono pasto, per esempio. Ma non è solo questo.
Chi lavora nell’editoria, specie se piccolo editore, sa quanto sia difficile essere visibile in una Feltrinelli, e non certo per colpa di chi ci lavora. Chi lavora nell’editoria, chiunque sia, sa che occuparsi dei propri colleghi è la prima cosa da fare, che si sia editor, scrittori o scrittrici, editori o editrici. Senza i librai non si arriva a chi legge. Lavoro culturale significa esattamente questo: occuparsi di ogni anello della catena, e non soltanto degli affaracci propri.
Se ci sono testimonianze, le ospito volentieri. Solidarietà, intanto.

Care e cari, ho lavorato un po’ per fornirvi l’elenco completo della Bibliografia disarmata, un progetto che risale al 2022 e che per diversi mesi è stato al centro di questo blog. Questa bibliografia, nei fatti, è un’arma, ma argomentativa, da usare per spiegare a tutti coloro che parlano di pacifinti e anime belle e imbelli da divano che non funziona così, e che la storia della rivolta nonviolenta, in tutte le forme che ha preso nel tempo, è tutt’altro che pigra inazione. Troverete le storie di scrittori e scrittrici, da Cassola a Woolf, da Moravia a Huxley e Hugo. Troverete i profili di attivisti e pensatori, da Langer a Gene Sharp, da Dolci a Capitini. Troverete le azioni, dalla rivolta di Pratobello alla guerra contro la fosforite. Troverete le storie, i racconti, i romanzi. A ogni link corrisponde un post. Con l’augurio che sia utile, e che serva, almeno, a trovare le parole.

Oggi, su Facebook, una scrittrice e storica di luminosa intelligenza come Vanessa Roghi (leggete, a proposito, il suo La parola femminista, perché avremo occasione di parlarne) pone un problema non piccolo. I libri delle altre. Ed è un problema a varie sfaccettature, perché i social, lo si voglia o meno, sono il terreno in cui nella maggior parte dei casi passa non solo la promozione ma il racconto dei libri. Mi rendo conto che io stessa mi informo molto dai social, che spesso arrivano prima dei canali tradizionali, e che mi fido del parere di alcune e di alcuni.
Però parlo molto poco, sui social e sul blog, di libri italiani, se non per informare in poche righe di un’uscita che mi sembra significativa: parlo di più di libri stranieri, e con meno titubanza. Il motivo è semplice: detesto quell’idea malevola di sottofondo secondo la quale se parli di un testo che ti è piaciuto lo fai per amicizia. E’ peraltro interessante che questa accusa si rivolga soprattutto alle scrittrici, mentre da tempo incalcolabile gli scrittori sono decisamente disinvolti e continuativi nel sostenersi, on e off line.
Il secondo motivo risale ai tempi di Fahrenheit: se parli di un autore e autrice fai torto a chi non nomini.
Di fatto, è un problema mio.
Di fatto, è un problema comune.

Dopo il  libro sulle madri, uscito nel 2013, ho anche detto che non avrei scritto altro sulle donne: smentendomi nel giro di pochi mesi, perché fu allora che Michela Murgia e io scrivemmo L’ho uccisa perché l’amavo (che tornerà, peraltro, fra non moltissimo, e sarà dunque di nuovo disponibile). 
Comunque, ho ripetuto che non avrei scritto altro: non in un libro, almeno, perché sui giornali e sul blog ho continuato a parlare di donne e femminismi. Il motivo era ed è semplicissimo: era giusto che parlassero e scrivessero le altre, soprattutto più giovani di me, ed era giusto che le voci si moltiplicassero, ed era ingiusto tentare di avocare a sé qualunque tentativo di portavocismo (neologismo orribile, ma me lo passerete).
Quando Sperling&Kupfer, diversi mesi fa, mi ha chiesto di curare una raccolta di testi sulla violenza contro le donne prima ho detto no, poi ho detto vediamo, e infine, ragionandoci molto, ho detto sì. Perché era l’occasione giusta per parlare di violenza dal punto di vista culturale, e culturale significa infinite cose, dalla letteratura alla memoria familiare, dalla lingua alla mostrificazione dei corpi ai luoghi dove parlano e si incontrano le giovani persone. E dunque doveva essere un libro collettivo.
Si intitola Le parole sono uno sciame d’api, reinterpretando un verso di Anne Sexton. Perché le parole servono a raccontare e a sperare, anche, di cambiare il mondo. 
E’ un libro di tutte le donne che hanno accettato di scrivere: donne diverse fra loro per professione e punti di vista, e anche per femminismi, e questa è una cosa meravigliosa, in tempi di divisioni. Grazie a Maura Gancitano, Vera Gheno, Jennifer Guerra, Giulia Paganelli, Melissa Panarello, Romana Petri, Chiara Volpato.
E a Elisa Seitzinger per la copertina.
Solo una cosa, in chiusura. Ieri ho annunciato l’uscita del libro su Facebook. Mi è stata immediatamente rimproverata, da due uomini che conosco come persone gentili, peraltro, l’assenza di firme maschili. Mi auguro che leggendo, se vorranno, comprenderanno il motivo: questo non è un saggio sociologico sulla violenza. E’ un’insieme di sguardi di donne su come quella violenza, che non è evidentemente solo fisica, viene percepita. E questo deve essere, per me. Poi, attendo un libro fratello tutto al maschile. Così come ho atteso per quasi vent’anni, invano, e avendolo sollecitato, il corrispettivo maschile di Ancora dalla parte delle bambine. Magari succede.

CUTRO, DUE ANNI DOPO

Due anni fa ho pubblicato questo post. Oggi leggo le parole di Nicola Aloi, già comandante della Capitaneria di porto di Crotone al momento del naufragio: «Se ci avessero chiamato un’ora e mezza prima noi li salvavamo. Perché? Perché riuscivamo ad intercettarli. Noi sappiamo che poi ti spiaggi o ti sfracelli sopra gli scogli, li fermavamo e li portavamo via. Purtroppo quando siamo arrivati non c’era più modo di fare niente se non salvare qualcuno».
Dunque, non possiamo salvare tutti, non noi, ma qualcuno poteva, e non lo ha fatto. Qualcuno, come ben sapete, si spinge anzi a insinuare che quei morti se la sono cercata, perché insomma chi ve lo fa fare a mettere a rischio la vita dei figli. Il problema è che a pensarlo, magari silenziosamente o magari no,  sono in tanti, e tante, dal calore delle proprie case, le mani sulla tastiera del computer.
Non salvano, non salviamo neanche noi, che piangiamo quei morti e ci chiediamo come sia possibile.

Questa mattina, sul New York Times, ho letto un articolo di Maura Kelly che racconta prima le ansie e poi la gioia del suo trasloco. Non avrai solo una casa, ma un quartiere, le aveva detto l’agente immobiliare. Da quarant’anni, nella sua strada, i vicini organizzavano un pizza party al mese, con l’unica raccomandazione di contribuire con cibi semplici, per dare la possibilità di partecipare a chi aveva meno disponibilità economiche. La scrittrice era terrorizzata dall’idea di dover necessariamente far parte di una comunità. Anche se, racconta, aveva letto Bowling Alone di Robert Putnam ed era consapevole della disgregazione delle medesime e dell’isolamento dei singoli, almeno negli Stati Uniti, e non solo. I vicini sono invadenti, i vicini sono un incubo, voglio starmene in pace, sbotta.
Cambierà idea, ma tutti abbiamo bisogno di un quartiere. Me ne sono resa conto per l’ennesima volta ieri mattina alla Libreria Ubik Prenestina.
E, librerie a parte, abbiamo bisogno di un quartiere.
Ne abbiamo bisogno noi che scriviamo e leggiamo, per incontrarci, conoscerci, parlare, capire cosa ci accade intorno anche attraverso i libri, e questo è qualcosa che nessuna grande manifestazione culturale potrà darci, perché in ognuna di queste occasioni, pur belle e importanti, ci si limita a sfiorarsi e a salutarci da lontano, quasi sempre.
Ne abbiamo bisogno noi che siamo sconcertati e angosciati da quanto accade in questo tempo, e non è vero che i social vecchi e nuovi suppliscono: lo fanno per un po’, e in parte, ma alla fine dobbiamo ritrovarci, parlarci, abbracciarci anche (e perché la rievocazione del trauma di cinque anni fa non parla di questo? Non ci siamo potuti abbracciare, per mesi e mesi).
Se ci sarà una rivolta culturale partirà da qui. Altri, come i Wu Ming, lo fanno da anni. Stare insieme. Avere un quartiere in dono. Creare quartieri. Esserci.

Ieri sera ho pubblicato un post sgomento per quanto Silvana De Mari ha scritto, su La Verità, contro Selvaggia Lucarelli: prendendo a pretesto il non gradimento della canzone di Cristicchi (autodenunciamoci: siamo parecchi a non aver gradito), l’ha attaccata sul suo aborto con parole intollerabili. L’ho fatto perché trovo terribile che si possano impunemente scrivere articoli, ripeto, articoli, di questo tenore, e suppongo che l’Ordine dei giornalisti stia facendo il solito pisolino in proposito, ma pazienza.
Quello che mi ha colpito, ma ancora una volta non sorpreso, è che alcune commentatrici hanno, se non difeso De Mari, spezzato una lancia in suo favore per il suo essersi spesa contro i vaccini.
E questo mi riporta a un discorso molto importante, che prova a infilarsi negli articoli commemorativi di questi giorni che rievocano quanto avvenuto cinque anni fa con la prima scintilla, o il primo incendio, del Covid in Italia.
Le divisioni non sono state prese in considerazione. Il trauma continua a essere ignorato. I discorsi non accolgono il dolore e la paura collettivi. Non si fa, ancora, un ragionamento serio e riparatore sul greenpass.
E invece dovremmo. 
Ripubblico un articolo di dieci mesi fa. Lo ripubblico testardamente, perché dopo cinque anni bisognerebbe parlarne e parlarne e parlarne, proprio per non lasciare alle De Mari di turno l’ultima parola per quel che riguarda le persone che hanno sofferto, ebbene sì, in prima persona l’imposizione del greenpass. Che si possa almeno discuterne ora è necessario, anche se vedo che non avviene, e probabilmente non avverrà, lasciando campo libero a chi non ha altro interesse che raccattare seguaci (sì, ancora una volta è una questione di potere e, no, non esistono poteri buoni).

La domanda è semplice: perché grandi e importanti e amate manifestazioni culturali come il Salone del Libro e Lucca Comics & Games ospitano gli stand dell’esercito? Si dirà: perché no? Pagano come tutti gli altri e usano i loro spazi. 
Non proprio come gli altri: sia all’ultima edizione del Salone sia a Lucca, ho visto che quello spazio veniva usato come una piccola esercitazione, come una dimostrazione (oh, giocosa, oh, spettacolare) per convincere i giovani che l’esercito è bello. A Lucca c’erano carabinieri e paracadutisti che invitavano i ragazzi a partecipare ai loro eventi, “un’esibizione di esercizi quali obbedienza, agilità e coraggio“.
Al Salone del Libro dello scorso anno, accanto allo stand, c’era un percorso più piccolo rispetto a Lucca, ma sempre “giocoso” e affollato.
Certo, avviene anche nelle scuole, e avviene sempre più spesso. Ed è gravissimo.
Pacifismo da vecchie signore? No, pacifismo e costruzione di un immaginario diverso: proprio adesso, proprio in questi tempi tremendi, abbiamo bisogno di altro. E abbiamo bisogno che i luoghi della cultura parlino di pace, e non di guerra.
Magari succede.

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