Fra pochi giorni si vota nelle Marche, e chissà come andrà. Oggi, in uno di quei prevedibili avvitamenti della sinistra, ma anche degli osservatori e commentatori della sinistra, si riflette non su un punto chiave, ovvero la presenza della sinistra medesima nei territori, che con qualche eccezione recente sono stati abbandonati alla destra che avoca a sé anche le sagre e le tavolate un tempo semplicemente popolari, ma su come si vestono le donne di sinistra. In questo caso la sindaca di Genova, Silvia Salis, rea di aver indossato un abito “da sirenetta” per i suoi 40 anni. Era accaduto anche con Elly Schlein ai tempi dell’affaire armocromista. Mancano soltanto, ma arriveranno, i rimpianti per Moro che passeggia sulla spiaggia in giacca e sulle borsette di Nilde Jotti.
Che poi, basterebbe leggere il bellissimo “Ersilia e le altre” di Lucia Tancredi, appena uscito per Ponte alle Grazie, per capire che anche Anna Kuliscioff amava gli scialli di cashmere, le sottovesti di seta e i vestiti di Rosa Genoni, senza che questo sottraesse niente al suo pensiero e al suo essere vicina al popolo.
Sì, si chiama populismo. Che è una cosa molto diversa dall’essere vicini al popolo: perché essere vicini “al popolo” significa andare nelle periferie e non soltanto a tagliare nastri e inaugurare luoghi arcani come avviene dalle mie parti. Essere vicini al popolo significa prendere i mezzi pubblici, andare al mercato e al supermercato, andare in un pronto soccorso fra i pazienti che aspettano per ore o chiedono un appuntamento che verrà assegnato fra mesi se non anni, parlare con le persone, ascoltare le persone, prendere posizione, rischiare, sbagliare, ricominciare, sbagliare di nuovo, provare a capire, restituire.
E sinceramente se si fa tutto questo in abito di raso o in jeans e maglietta poco mi interessa.
E, sì, l’esibizione di purezza mi ha stufata: preferisco quelli e quelle che sbagliano, anche perché in genere le patenti di purezza vengono autoattribuite da chi se ne sta a casa sua, e non fra il popolo.