Torno sul lavoro culturale, e pazienza per chi sbuffa. Sto leggendo diversi interventi di vario orientamento. E ci sono, secondo me, un paio di punti da chiarire: lavoro culturale non equivale a scrivere libri. Incredibile che occorra puntualizzarlo, ma puntualizziamo allegramente: lavoro culturale è scrivere articoli, scrivere testi per la televisione o per la radio, organizzare eventi, manifestazioni e festival, insegnare, fare ricerca e una marea di altre cose che, volendo, hanno a che fare con la narrazione. Lo scrive nella sua newsletter Giulia Blasi, che aggiunge:
“La gente della cultura piace a malapena alla gente della cultura, per tutti gli altri siamo dei fighetti che non hanno mai lavorato in vita loro, e che – a seconda di chi parla – sono dei figli di papà o dei poveri illusi, più la prima che la seconda. Nessuno pensa di avere bisogno di noi”.
C’è un secondo equivoco, più interessante. Ovvero, si pensa che Bazzi, che ha sollevato la questione, voglia vivere dei suoi libri. Sospetto che sia questo che ha inteso Emiliano Ereddia, che è peraltro un bravissimo scrittore, nel suo articolo su substack, dove racconta di come, per potersi permettere di fare letteratura, lavori per la televisione.
Temo ci sia un equivoco, visto che siamo tutti consapevoli del fatto che per scrivere bisogna sottrarre ore al sonno e alla vita sociale, perché tocca lavorare. Ma dai? E’ quello che fa il 98% delle persone che scrivono, e forse anche il 99%: la questione del lavoro culturale non sta nelle singole lamentazioni, che finiscono sempre per attribuire ogni male alla presunta casta-cricca-cerchio, che a sua volta strappa con i denti il tempo per scrivere visto che non si vive di scrittura, tranne pochissimi (che se lo sono meritato, vorrei dire) e tranne i ricchi (che però non sono così tanti, in ambito letterario). Se faccio un elenco mentale e parziale di scrittori e scrittrici che conosco, so che lavorano quasi tutto il giorno per poter scrivere: sono insegnanti di lettere o insegnanti di sostegno, librai, grafici, programmatori, autori televisivi o radiofonici. Sono anche meccanici, pizzaioli, bancari, medici, postini, impiegati. Qualcuno prova a barcamenarsi con le sole collaborazioni (e chi, nella generazione trenta-quaranta, non lo fa?), e ammucchia traduzioni, articoli pagati male, consulenze, editing. Quel che intendo, è che nessuno è così poco realista da pensare che di letteratura si viva. E nessuno dovrebbe mai puntare il dito sul lavoro principale, diciamo così, che ti permette di scrivere, di notte o all’alba o durante le feste comandate. La questione è semmai un’altra: è come veder pagato decentemente il lavoro che deriva dalla scrittura, o che ruota intorno alla scrittura, come le presentazioni dei libri altrui (è un lavoro), la partecipazione a convegni (è un lavoro), le consulenze che ti vengono richieste (è un lavoro). Questo e solo questo è il punto.