Allora, non è la prima volta che la premier gioca la carta del vittimismo, come ha fatto in queste ore a proposito della Global Sumud Flotilla, accusata di utilizzare “la sofferenza del popolo palestinese per attaccare il governo italiano” (ehm, è una missione internazionale), e protestando per il fatto che in molti “mi accusano di essere complice di quello che accade a Gaza, che ho le mani sporche di sangue, che sono un’assassina”. Aggiungendo di non aver mai usato un linguaggio simile quando stava all’opposizione e qui per carità cristiana rimandiamo alla rete che serba memoria.
Ricordo soltanto quello che avvenne mesi fa, quando Meloni bacchettò Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Bologna, ribadendo che è grave sostenere che le “radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”. Si potrebbe rispondere, citando una frase di Tolkien che Meloni ha deformato a proprio uso e consumo, che le radici profonde non gelano. Più semplicemente, è vero che il neofascismo degli anni Settanta e il postfascismo degli anni Venti non sono identici: ma è molto difficile negare che siano due lingue della stessa fiamma (non è una metafora).
Il problema che il vittimismo governativo funziona come ha funzionato la campagna elettorale che ha portato all’elezione di Meloni: perché chi li vota non aspetta altro che di essere rassicurato sul fatto che la colpa è sempre, sempre degli altri, e mai sua.