Quello che volevo dire sull’intervista di Michela Murgia è sulla Stampa di questa mattina.
Ci sarebbe molto altro su cui riflettere, e riguarda non Michela, ma le reazioni alle parole di Michela: qualcuno sostiene che essendo il suo un discorso pubblico è normale che si reagisca. Non obbligatorio, però, vorrei aggiungere. 
Ma sarebbe lungo. Dico solo che le parole sulla morte o prima della morte hanno sempre suscitato angoscia mista a curiosità, o curiosità mista ad angoscia. Da sempre esistono e si moltiplicano  le affannose ricerche (dei vivi) che spesso accompagnano la fine di un’esistenza, e che riguardano l’atteggiamento, l’espressione, dove possibile i discorsi di chi chiude la propria vita.
Non so per quale strana e tortuosa associazione, ho pensato a William Burroughs e i 1200 vocaboli di Dutch Schultz,.

Sto ripensando alla trasmissione di due giorni fa, quando abbiamo parlato dei necrologi scritti da Manganelli (Il vecchio gioco di esistere, Hacca) e di quel condolersi collettivo che è proprio di social. Ci penso perché penso alla rapidità del tempo, di questo tempo.
Per quanto io faccia e scriva tante cose, e abbia giornate pienissime, resto quella che cammina piano. Sono la tartaruga di Zenone e di Achille non mi curo. Sono quella che ogni volta viene sorpassata da persone sbuffanti (“eh mamma mia che lentezza”) e mandata a quel paese dai motociclisti mentre attraverso (sulle strisce, ma sempre piano). Non è colpa dell’artrosi. E’ che immagino un sacco di cose quando cammino (quali fiori piantare, quanto sono belli i figli, dove sarà finito stanotte il gatto, che meraviglia il libro che sto leggendo – o che delusione -, quali storie si stanno intrufolando per essere scritte). 
Quindi, sono lenta dentro. E penso a quanto siano cambiate le cose proprio sul lutto.

Non da oggi, ma soprattutto oggi, abbiamo un problema: e lo abbiamo, ma guarda, proprio con le parole. Quando si espongono idee diverse, scatta subito l’accusa di accanimento (o gogna, nel peggiore dei casi). Bene, quell’esposizione di idee diverse è un’arte antica, che dopo lunghi anni passati a guardare i talk show abbiamo scambiato per altro. Dal momento che, almeno fra le persone che leggo, nei confronti di Ambra Angiolini c’è stata proprio questa esposizione di idee e non un linciaggio, offro al commentarium un servizio pubblico. Ho consultato la Treccani per chiarire che differenza passa fra un termine e l’altro. Fatene buon uso (e ricordate che consultare la Treccani è gratis).

Con il monologo di Ambra Angiolini si sostiene, in concreto, che le persone che si occupano di parole sono indifferenti ai fatti, e non si sono mai occupate di quei fatti. Il sottotesto è questo. Dunque, chi ragiona sulla lingua, da Alma Sabatini in poi, vivrebbe in un mondo tutto suo, costellato di declinazioni al femminile e di tisane alla verbena, mentre fuori le donne subiscono le “vere” discriminazioni.
E’ falso.
Chi si occupa di discriminazioni se ne occupa nell’interezza: lo sfruttamento sul lavoro, le diseguaglianze retributive, le molestie, i soffitti di cemento armato (altro che di cristallo), la mancanza di asili nido e tutto quel che DOVREBBE essere noto vanno di pari passo con il discorso linguistico. La divisione fra “professorone” e “donne del popolo” è tossica, pericolosa, ingiusta. Populista. E pronunciata dal palco del 1 maggio è ancora più grave.

IL BALZO DELLA TIGRE

Questo è un 25 aprile più importante del solito, anche se tutti i 25 aprile lo sono. Questo è un giorno in cui tenere bene a mente quello che diceva Franco Fortini nel 1974 a Enzo Golino:

“Dipendiamo dall’avvenire in quanto siamo riusciti a recuperare dal passato, con il balzo della tigre di cui parla Walter Benjamin, qualcosa che dovrà essere divorato nel futuro”.

E’ un giorno in cui il passato deve consentire il balzo, soprattutto per le giovani persone, visto che la mia generazione (sempre quella che ha perso, diceva Gaber) non è riuscita a trasmettere quel che desiderava. E visto che molti miei colleghi, in questi ultimi tempi, hanno scelto – anche legittimamente, ognuno è padrone della propria vita – di non esporsi, di non parlare di argomenti “politici”, vedi mai.

W.A. Auden mise a fuoco uno dei grandi temi di Jane Austen nella sua Lettera a Lord Byron: “Voi non potreste urtarla/più di quanto essa mi urti:/Joyce accanto a lei è più innocente dell’erba./ Mi mette in imbarazzo lo scoprire/una zitella inglese della media classe/descrivere gli effetti amorosi del “contante”, /rivelare francamente con tale sobrietà/le basi economiche della società”.
Ieri, al Festival internazionale del giornalismo a Perugia, abbiamo provato – chi vi parla, Daria Bignardi e Vera Gheno – a rispondere al titolo dell’incontro, “Come le scrittrici hanno cambiato il mondo”. Mi sono venute in mente due autrici che l’hanno fatto: Mary Shelley, con Frankenstein, e Jane Austen. Ecco, su Jane vi ripropongo quanto ho scritto per La Stampa, parola per parola. Buona quasi-liberazione.

Guardo i giornali, guardo i social. Si sta parlando della campagna pubblicitaria con la povera Venere botticelliana che mangia pizza. Si sta parlando degli exploit quotidiani dei ministri. Si sta parlando di vignette. Sono i soliti, immutabili, elefanti nella stanza. “Non pensare all’elefante!”, diceva George Lakoff una vita fa, intendendo questo: “non usare le stesse parole dei tuoi avversari, o finirai con l’evocare le stesse idee, rinforzandole”.
Quello che voglio dire è che esiste una tendenza terribile, e generale, a non vedere la povertà, o l’impoverimento. I licenziati, gli sfrattati, i senza lavoro e i senza casa. Di cui ogni tanto ci si occupa e poi, certo, si dimentica. Ma questo non è un film, non è un romanzo. E’ vero. E che altro deve succedere?

Ieri, parlando con i due ospiti di Fahrenheit, biologi, zoologi e ambientalisti, dell’orsa Jj4, mi sono fatta un bel po’ di domande. La prima me l’ero fatta da un po’ di giorni, e riguarda il fatto che tutti hanno detto tutto, su questa storia. Se volete sapere perché la tuttologia, in questo caso, è un errore, leggete l’articolo di Mauro Fattor docente al Master Fauna e Human Dimension dell’Università dell’Insubria, membro dell’associazione teriologica italiana, collaboratore di National Geographic Italia. 
Dice tutto. Parlando con Filippo Zibordi, che appunto ne sa, ho riflettuto sulle sue parole a proposito dell’orsa. Ha premesso che rispondeva con il cinismo dello zoologo e che a suo parere doveva essere “rimossa” (che sta per due cose: messa in condizione di non nuocere o abbattuta).
Mi è venuto il cuore stretto, e mi sono chiesta perché.
Ed ecco la seconda considerazione. Che riguarda non il nostro rapporto con gli animali in genere, ma con quelli che ci sono compagni. Dove e come sbagliamo? Non lo so. Non sono in grado di rispondere. Però vi ripropongo quello che ho scritto qualche tempo fa sui gatti. Magari serve, magari no. Ci penso ancora.

FUNES E NOI

Icona: un racconto di Borges, Funes el memorioso. Un uomo con una memoria prodigiosa, costretto a ricordare ogni singolo istante della sua vita. Non solo il bicchiere sul tavolo, ma tutti gli acini dei grappoli d’uva che formano la pergola sopra il tavolo. Non potendo dimenticare nulla, finisce col non avere ricordi.

Mi chiedo, allora, come si fa a trasformare la memoria in qualcosa di vivo. Perché esiste una contraddizione tremenda fra la ragazzina che svolge religiosamente il tema in classe sulla Shoah e, una volta a Birkenau, sorride allo schermo del cellulare. Ma non è, a mio parere, colpa sua. E’ un ripensamento generale della memoria e del come la trasmettiamo, che andrebbe fatto.

Nicolas Eymerich è una metafora impeccabile dei meccanismi del potere. Ma il potere mortale che rappresenta non è innocuo in quanto lontano nei secoli: pur accuratissimi nella ricostruzione storica, i romanzi di cui è protagonista mettono a confronto il crudele domenicano con avvenimenti misteriosi che quasi sempre aprono una o più dimensioni temporali parallele. Il che, di fatto, permette al lettore di capire che si sta parlando del presente. Se è fantascienza, è una  fantascienza che conferisce al passato e al futuro ipotetico la stessa caratteristica di mondo alieno in grado di rispecchiare le inquietudini del nostro presente. E con un intento preciso: perché Evangelisti ha sempre sostenuto che la narrativa fantastica “con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisca un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”.
Un anno fa è morto Valerio Evangelisti. Oggi ne parleremo a Fahrenheit. In realtà non si è mai smesso di parlarne, e grazie al cielo di leggerlo. La speranza è che sia così ancora e ancora e ancora. Un anno fa scrivevo questo, per La Stampa. Lo ripropongo, e lo riproporrò ancora e ancora e ancora.

Loredana Lipperini
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