Ieri sera, su Facebook, ho espresso il mio stupore per le discussioni sull’editoria di questi giorni. Cosa succede, in pratica? Che si perdono lettori, e lo sappiamo. Che i libri vendono poco, pochissimo, e sapevamo pure quello. Che se ne pubblicano troppi, e sfioreremo probabilmente le centomila novità nel 2025, e anche questo era noto. Che stare sui social non garantisce la vendita, né per i libri “letterari” né per quelli pop (dovrebbe ancora bruciare il bagno di sangue per Amiœ. Il manuale del cörsivœ di Elisa Esposito). Che, insomma, siamo in stallo.
E’ che non si riesce a fare un discorso collettivo, ma solo individuale, e i discorsi individuali finiscono sempre per essere ciechi, e non riuscire a vedere quello che si ha intorno. Il lavoro culturale non riguarda il destino di una sola persona, ma di tutti coloro che provano a sopravvivere in questo durissimo ambito.
Però, tanto per rinfrescare la memoria, ripubblico qui un articolo scritto per Repubblica nel 2011, che seguiva quello sulla resa che ho citato ieri. Avevo intervistato alcuni editori, che al tempo fornivano una strada. La domanda è: chi ha percorso quella strada, oggi?
Allora si diceva questo: “«Capitalismo da straccioni», commenta Sandro Ferri di E/O che spiega come funziona il mercato: «Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell´ottanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamo uscire, perché librai e distributori li pagano: quando ci sarà la resa, gli ridarai i soldi, ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro. Perché lo facciamo? Per avere visibilità, in parte. I grossi editori prendono sempre più spazio in libreria: e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità di farci vedere. E perché ci facciamo ingannare da un´illusione».
E oggi?
Il 23 dicembre 1976 la Rai trasmette la prima delle quindici puntate della serie I tre moschettieri, adattata per la televisione da Giuseppe Bertolucci, Paolo Poli e Sandro Sequi, che ne firma la regia. Gli attori sono solo quattro: Marco Messeri, Paolo Poli, Lucia Poli e Milena Vukotic e si dividono i ruoli del romanzo di Dumas, Vukotic interpreta sia D’Artagnan che Costanza; Lucia Poli è Aramis e la Regina; Paolo Poli è Athos e Milady; Messeri è Porthos e la moglie del procuratore e così via. I costumi sono di Lele Luzzati e Santuzza Calì, le musiche di Gino Negri e potete vedere tutto lo sceneggiato su Raiplay.
La visione è consigliata soprattutto a coloro che, giustamente, hanno abbandonato inorriditi la visione di Viva Puccini su Raitre, nei fatti omaggio a Beatrice Venezi più che al compositore, visti i tempi, e che hanno scritto un po’ ovunque che era difficile imbattersi in qualcosa di così Kitsch dai tempi del Bagaglino (che pure, in quel tempo, aveva il suo senso).
Ora, è inutile irridere lo sciagurato Viva Puccini, che non è altro che la punta dell’iceberg, una fra le tante: il problema è che negli ultimi anni (dieci? Venti?) è stato fatto il contrario di quanto andava fatto: abbassare il livello della proposta invece di fornire stimoli e strade per capire la proposta medesima. Vale per la televisione, per l’editoria (spesso), per il linguaggio che usiamo sui social. E il problema sta qua, non nei giovani scapestrati che non capiscono i proverbi.
Questa mattina ho letto un articolo sul New York Times apparentemente leggero: raccontava di un servizio di porcellana passato attraverso cinque generazioni. Si comincia nel 1906, quando Laura Jane Briggs arriva a Boston dopo una lunga traversata dall’Inghilterra. E’ poverissima, ha tre figli piccoli, il marito è già in America. Dopo quattro anni, nonostante viva in affitto e non se la passi benissimo, acquista un servizio di porcellana di Limoges: erano gli anni in cui gli americani spendevano in media il 13% del loro reddito annuo in stoviglie, l’equivalente odierno di più di 10.000 dollari all’anno. Con il secondo matrimonio, le cose migliorano per Laura, che diventa suffragetta e vive in una casa migliore. Ha con sé il suo servizio di porcellana: si rompe però una tazza, che ripara con attenzione.
Quel servizio passa attraverso molte mani, ogni volta si rompe qualcosa, ogni volta viene riparato. E’ destinato a finire negli scatoloni perché i figli dell’ultima erede hanno già fatto sapere che non sono interessati a quelle tazze e a quei piatti.
Mi ha fatto venire in mente qualcosa che scriveva Ernaux, e qualcosa sulla scrittura. Si può scrivere per moltissimi motivi, ma, almeno per me, se il punto di riferimento è la propria vita e basta, il risultato riguarderà poche persone. E, a meno che il gesto anche riparativo (incollare il coperchio della burriera, sì) che nella scrittura esiste non riguardi anche gli altri, quello che scriviamo potrebbe metaforicamente finire negli stessi scatoloni del servizio di porcellana di Laura Jane. Forse.
Ho sempre immaginato il mio spirito del Natale – comprensivo di passato, presente e futuro perché siamo in tempi di risparmio – identico a Frank’n’furter, il protagonista di Rocky Horror Picture Show che proprio nel 2025 compie cinquant’anni. Uno spirito con tali fattezze provocherà accuse sparse di gender e transfemminismo, cosa che va molto di moda da ultimo: ma l’immaginario è l’immaginario, e uno spirito del Natale come il vecchio Frank ha molti vantaggi: mette di buon umore e canta bene, e a confronto i trascurabili svantaggi (lustrini seminati sui tappeti, lampade spostate per centrarsele sul viso mentre canta “I’m going home”, qualche portacenere rovesciato durante un time-warp preserale) sono poca cosa. Del resto, uno spirito del Natale in guêpière vale quelli canonici, e magari è persino beneaugurale rispetto a un Clarence qualsiasi.
Gli indirizzo una letterina sullo stato delle cose dell’editoria, che non cambia troppo, ahinoi. E gli chiedo Pazienza, Passione, Parole. E pure qualche lustrino.
Sembrerà strano, ma io nutro qualche dubbio sulla scelta della parola “rispetto” come parola dell’anno. Le intenzioni, certo, sono ottime: porre un argine alle dicotomie, al tutti contro tutti, alla tendenza in apparenza inarrestabile alla rissa, anche per motivi futili.
E però vedo un punto debole: è necessario il rispetto, ma è necessaria anche la lotta nel momento in cui la violenza di cui si parla in quelle righe viene esercitata continuamente. Mi riesce difficile nutrire un sentimento di rispetto verso chi non riesce a vedere le esigenze degli altri, e cerca anzi di schiacciarle. Mi riesce difficile non smantellare le argomentazioni di avversari e avversarie: provo a farlo senza cedere a parole violente, certo, ma il rispetto è un’altra cosa. Rispetto, per me, significa considerare quelle argomentazioni come dettate da una convinzione reale, e non da un calcolo. E non è per niente facile farlo, in queste circostanze.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ho parlato con molte persone, nella trascorsa settimana torinese, ed è stato sempre un bel parlare, magari problematico, e per fortuna anzi problematico perché porta a rivedere molte proprie posizioni. Un’amica, in particolare, mi ha fatto pensare a lungo. Ha parlato di chi, come lei, prende uno stipendio che basta a malapena per pagare l’affitto e mangiucchiare qualcosa: lavora nel settore culturale, che continua a essere trascurato sotto questo aspetto per venire considerato semplicemente privilegio. Eppure anche nella cultura si lavora, e pure tanto, e si viene tutelati ancor meno a causa dell’odioso semi-ricatto “fai qualcosa che ti piace, fai qualcosa di bello”. E quest’amica, sospirando, mi diceva che comincia a capire la disaffezione comune per le battaglie sui diritti. “Come fai”, diceva dunque, “ad appassionarti ai diritti quando non riesci a pianificare niente, figuriamoci una famiglia, perché a fine mese non ci arrivi?”.
E’ innegabilmente il punto su cui agiscono le destre, e trovano terreno fertilissimo, come si nota dal discorso della premier ad Atreju. Eppure, dieci anni fa, Stefano Rodotà diceva: “Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme”.
Da quindici anni a questa parte, la fiera della piccola e media editoria è stata un appuntamento fisso del mio dicembre: fisso e convulso, perché condurre la diretta di Fahrenheit significava arrivare prima al Palazzo dei Congressi e poi alla Nuvola alle dieci di mattina, carica di libri e appunti, e di insalate fatte in casa nel contenitore per evitare la coda al bar, ché non c’era tempo, e passare le ore prima della diretta chiusa nella stanzetta della redazione, dove arrivava sempre qualcuno non della redazione a posare cappotto e borsa (con relativo crollo dell’attaccapanni) o qualcun altro a chiedere di presentare il proprio libro, ma anche qualcun altro ancora a portare generi di conforto (le sfogliatelle restano indimenticabili).
Questa volta sarà diverso, per molti motivi.
Il più ovvio è che sarò presente come ospite o presentatrice, e non come conduttrice, ma questo va bene, perché i cicli devono essere chiusi per essere sani, e prometto solennemente alla redazione di Fahrenheit che andrò a posare il mio cappotto da qualche altra parte, per non affaticare l’attaccapanni.
Il più evidente è che a Più Libri ci si arriva con la sofferenza di quanto è avvenuto, e che comunque inciderà molto sul rapporto con tutto il mondo intellettuale, e non solo con chi ha preso la decisione, da cui moltissime si sentono tradite. L’auspicio è che la rabbia venga capita e soprattutto accolta e che si riparta, senza per forza ricucire, ma con la coscienza piena di quanto è avvenuto.
Detto questo, a Più Libri ci sarò, per onorare gli impegni presi con diverse persone, e per prendere spunto per discutere di quanto è avvenuto, come avverrà, tra l’altro, insieme a Mariano Tomatis.
Detto ancora questo, nel post c’è il calendario dei miei incontri per chi volesse.
E’ vero, il mondo preme sul piccolo mondo dei libri, e ne reclama l’attenzione, e qualcuno gliela dà peraltro, perché se qualcosa possono fare i libri è aiutarci a capire, nei mille modi in cui un libro può farlo. Dunque occuparsi dei dieci libri dell’anno scelti dal New York Times può sembrare faccenda frivola. Però ci provo, perché almeno alcuni di questi testi potrebbero dirci qualcosa.
I titoli nel post. Le considerazioni subito.
I cinque romanzi sono stati tradotti in italiano, mentre nella saggistica è disponibile solo Crematorio freddo, che però risale a metà Novecento.
Di quei cinque romanzi ho la sensazione che molti lettori non sappiano molto, se si esclude, forse Percival Everett.
Probabilmente perdiamo molte buone opportunità di lettura per sovrapproduzione: perché nessun critico o nessun giornalista culturale riesce a stare dietro a tutto. La constatazione è vecchia ma diventa sempre più stringente: nel mio piccolo caso, ho una pila di libri che voglio leggere ma che ancora non ho letto, e ovviamente la pila cresce.
Cose vecchie, sì, ma sempre utili e sempre preoccupanti, specie nell’imminenza di fiere e strenne.
Tutti parlano di brain rot, le parole dell’anno scelte dall’Oxford Dictionary, attribuendo il marciume ai social.
Cosa vera ma anche straordinariamente falsa. Certo, viviamo da anni in un flusso di onnipotenza individualista: qui ricordo qualche frase notevole dei cosiddetti modelli adulti, soprattutto politici. E ricordo anche un orrore di dieci anni fa, quando Cosimo Pagnani annunciò su Facebook di aver ucciso la moglie ottenendo 65 like.
Ma grazie alla filosofa Silvia Federici dovremmo capire che siamo di fronte a un altro tipo di stregoneria: “Il disincantamento significa vivere un mondo in cui non è più possibile pensare fuori dalla logica dello sviluppo capitalista. “
Rito del mattino: caffé, yogurt, libro da rileggere, rassegna stampa online. Bene. Sulla newsletter del Corriere della Sera, a proposito di Sanremo 2025, leggo:
“Quello che è certo, perché l’ha detto ufficialmente Conti, è che nelle canzoni «non si parlerà di guerra e immigrazione», ma di «famiglia e rapporti personali». Per carità, meglio non rischiare con temi difficili, meglio mantenere buoni rapporti con tutti, a partire dal governo, meglio restare nazionalpopolari e mettere da parte l’impegno”.
Ti pareva, penso.
Poi però mi chiedo: di cosa parla la maggior parte dei romanzi italiani usciti o in uscita? Famiglia e rapporti personali.