C’è una libreria di provincia che scrive:
“Cara Loredana, noi da libreria di paese stiamo tenendo duro. Ancora oggi consigliamo regolarmente libri usciti due anni fa o più, insomma di catalogo, anche perché consigliare un libro che non ci è piaciuto solo perché è in quella lista di libri “che vanno di moda” lo consideriamo un tradimento nei confronti dei nostri lettori e lettrici. Tendiamo a tenere più catalogo e le novità solo quelle indispensabili e cioè che riteniamo belle oppure che bisogna per forza avere perché pubblicizzate sui social. I social, come tiktok che ormai sta scavallando anche IG, vanno obbligatoriamente tenuti d’occhio. Cercare di capire cosa attira in libreria i giovani lettori e lettrici è indispensabile se si vuole stare al passo con i tempi. Quello che ci fa ben sperare è che ogni tanto, non spesso ma è meglio che niente, da un libro pubblicizzato sul BookTok chiedono poi Orgoglio e pregiudizio”.
Ci sono le tante librerie grandi e piccole che commentano le storie che sto pubblicando in questi giorni. E ci sono libraie e libraie di catena che sono andate via. Da un ex libraia Feltrinelli ricevo e pubblico.
“So perfettamente quando tutto cambiò: era il 2003 e arrivò la fusione Feltrinelli/Ricordi con la nascita dei Megastore.
La libreria di Bari si trasformò: oltre 1300 mq di luci e colori e pile di libri ovunque. Più tecnologia (con differenti totem con cuffie che sparavano musica con le hit del momento o con i nuovi videogiochi da testare), più spazio all’intrattenimento e meno ai momenti di silenziosa scoperta tra gli scaffali che piano piano perdevano l’impianto iniziale – il catalogo – per diventare esili (addio bibliodiversità) e con la durata di vita che andava riducendosi sempre più.
I lettori storici iniziarono a perdersi e a non riconoscersi più in quel luogo che prima era un rifugio e ora sembrava inseguire logiche diverse: ricordo i primi scioperi bianchi, le varie proteste con il primo esproprio e le manifestazioni con gli slogan “Feltrinelli discount della cultura” strillati da tutti. Il sindacato che premeva e molto spesso otteneva mettendoci forza e cuore”.
Perché quando si comincia è difficile smettere, e per fortuna. Continuano ad arrivare mail e messaggi, e testimonianze dal mondo delle librerie. E io mi chiedo quando è successo che ci siamo distratti, e distratte, e perché.
Qui la persona che mi scrive ha lavorato in una libreria di catena che non è Feltrinelli, e racconta che sono almeno dieci anni che il lavoro è cambiato, e che la considerazione stessa in cui si tengono i libri è profondamente mutata.
Buona lettura.
“Quando ho varcato per la prima volta la soglia di una libreria come dipendente, la rotazione dei libri sugli scaffali era di sei mesi. C’era il tempo di far scoprire un titolo, di consigliarlo, di lasciarlo respirare sugli scaffali e trovare il suo pubblico. C’era un’idea di permanenza, di cura.
Quando ho lasciato quel mondo, la rotazione era ridotta a un mese e mezzo, due mesi al massimo. Il mio ruolo si era trasformato da libraiə a facchinə, ma senza la dignità salariale di un vero facchino.”
“Non sorprende, oggi, quello che sta succedendo in Feltrinelli. In altre catene era già cominciato da anni: nel 2015-2016, molte figure esperte e appassionate sono state sostituite da supermanager provenienti da settori che nulla avevano a che fare con il libro. Il loro unico obiettivo era il taglio dei costi, la riduzione del personale qualificato, lo smantellamento delle reti di agenti e di supporto alle librerie. Tutto ciò che era ritenuto “superfluo” è stato spazzato via con un colpo di spugna, mantenendo una direzione precisa. In compenso, venivano organizzati in tutta fretta corsi di aggiornamento per i librai, affinché imparassero a vendere di più, e soprattutto, a vendere tutto, senza distinzioni.”
“Ma la domanda che oggi dovremmo porci è: cosa resta della libreria se viene meno il libraio? Cosa resta del libro se è trattato come una merce qualsiasi, soggetta a scadenze, trend imposti e obsolescenza programmata?”
Pubblico tutte le lettere di libraie e librai che sto ricevendo, dunque anche quella di Anonima Libraia che, come leggerete, è molto critica nei confronti di Otello Baseggio. Su questo si aprirà la discussione. Ma su una cosa non sono d’accordo io, e dunque mi prendo la libertà di dirla: lavare i panni sporchi in famiglia, come si adombra alla fine, nella maggior parte dei casi sfocia in catastrofe.
“Un ruolo decisivo, ma davvero decisivo anche ai tempi dell’online, lo hanno i distributori e i promotori, specie i principali: basti ricordare che gli editori incassano sul distribuito ma guadagnano sul venduto al netto di costi di produzione, redazione, resa, trasporto, stallo, macerazione. Un’impresa che giustamente è stata paragonata alla lotteria, che induce ad acquistare un altro biglietto (ovvero a pubblicare un altro libro e distribuirlo e incassare altro denaro) nella speranza di imbroccare la vincita (il libro buono, che permette di sistemare i conti e sanare i bilanci).”
Sto ricevendo molte mail dai librai di Feltrinelli o da persone che in Feltrinelli lavorano. Ho deciso di pubblicarle tutte, e non perché abbia qualcosa contro Feltrinelli, visto che è stata anche la mia casa editrice e continua a pubblicare bellissimi libri: semplicemente, vorrei che si capisse cosa accade all’interno di un grande gruppo editoriale oggi. E, soprattutto, cosa ne è dei lavoratori della cultura. L’invito al racconto è sempre aperto a tutte e tutti: potete usare i contatti di questo blog, collegati alla mia mail.
Questa lettera è molto forte e illuminante: per tutelare il “vecchio feltrinelliano” ho nascosto il suo nome con quello di Pim, da Pim Casaubon, il narratore de Il pendolo di Foucault.
“I librai sono scoraggiati non tanto per il buono pasto, ma perché si chiede loro di diventare soldatini sempre sorridenti. Ai nostri librai è stato detto che devono “accogliere” il cliente, posizionandosi vicino all’entrata, e chiedergli sempre se possono aiutarlo. Ma molti clienti che entrano in libreria vogliono essere curiosi degli affari loro. Forse, fra il libraio scorbutico e il libraio iper sorridente e invasivo servirebbe una sana via di mezzo.
Per altro, è stato già annunciato che i librai a breve dovranno indossare una divisa elegante, che immagino l’AD o la capa del dettaglio stiano facendo disegnare a qualche amico della moda.
Non basta: un tempo le diverse librerie Feltrinelli potevano scegliere molti dei libri da ordinare ed esporre, in base alle specificità del territorio e al gusto dei libri. Oggi le scelte vengono dall’alto. Inoltre, le librerie Feltrinelli sono oramai invase dai libri “di casa”, spezzando un delicatissimo equilibrio costruito nel tempo. Quell’equilibrio dava certamente molta visibilità ai libri Feltrinelli (su cui, come la dottoressa Carra ci ricorda sempre, marginiamo di più), ma dava spazio anche a tanti editori piccoli e grandi, sostenendo appunto la bibliodiversità. Così invece le librerie perdono il loro valore culturale, e infatti molti lettori colti dicono che siamo diventati indistinguibili da altre catene.
In Feltrinelli il problema vero non è neanche che il top management provenga dalla moda, ma che non faccia il minimo sforzo per capire il settore librario.
Poi c’è Panoplia, di cui avete scritto, che strozza i piccoli editori. Non avete però scritto di un altra prassi usata in Feltrinelli, ossia gli editori che si è deciso di marginalizzare, perché non pagano abbastanza e hanno basse rotazioni.”
In questi giorni mi passano davanti agli occhi, sui social, i post del 2020, in pieno lockdown. Rileggo e rivivo lo smarrimento, l’incredulità delle strade deserte, i cieli pieni di uccelli, il silenzio. Ma anche: gli inviti, pure istituzionali, a denunciare gli assembramenti e comportamenti ritenuti scorretti via portale, whatsapp, post su Facebook.
Ripenso a come tutto questo è stato raccontato in quei giorni. E leggo anche di come viene raccontata dai social media manipolati dagli Stati Uniti la necessità di “prendersi la Groenlandia”. Penso al linguaggio che, per inciso, è un virus esso stesso, diceva il vecchio e amato William Burroughs. Significa che le parole che abbiamo usato hanno generato un problema. Più d’uno, in verità.
Serve a qualcosa parlarne? Sì, moltissimo. Serve come serviva allora lavarsi le mani. Perché abbandonarsi al flusso di notizie e contronotizie non ha fatto che immergerci nell’abitudine all’eccezionalità. Occorre sempre guardare quell’eccezionalità negli occhi, e sapere esattamente dove siamo.
Lo ha fatto, per esempio, Le Monde Diplomatique, in un articolo che riflette sul confinamento, e dice: “La chiusura della primavera 2020 è una delle esperienze umane più rilevanti e meno dibattute degli ultimi anni”
Noi non lo abbiamo fatto, non lo stiamo facendo. Ed è un virus, anche questo.
Non interverrò qui (né probabilmente altrove) su Adolescence che quanto meno ha il merito di aver fatto scoprire a un po’ di gente che esistono gli Incel (però approfitto per invitare a leggere La colpa è mia di Andrea Donaera, che di incel parla e che meritava maggior fortuna, secondo me). Intervengo, invece, quasi per parlare fra me e me, e raccontare, a chi interessa, cosa mi colpisce in una serie.
Penso, per dire, a Black Mirror. Che continua a porci la stessa domanda: chi siamo davvero? Non è tanto la questione del discostarsi o avvicinarsi tra identità reale e identità virtuale, e di chiederci quanto la seconda coincida del tutto con la prima. Non c’è una risposta netta, evidentemente: Black mirror racconta quel che siamo già, con appena un avanzamento nel possibile. Veniamo bannati e non possiamo comunicare con gli altri, cerchiamo di crescere in popolarità con cortesia o ammirazione manifesta spesso ipocrite, auguriamo la morte sui social in nome del nostro diritto di parola e via così. E allora?
Qualche anno fa Fabio Chiusi scrisse per Valigia Blu un articolo, di cui vale la pena citare un passo:
“…il monito di Malka Older, studiosa e scrittrice di sci-fi a sfondo politico che, citando Yuval Noah Harari, riporta: “per cambiare un ordine immaginario esistente, dobbiamo prima credere in un ordine immaginario alternativo”. A dire: dovremmo usare di più l’immaginazione, specie fantapolitica e fantascientifica, se vogliamo provare a realizzare un mondo, e un’ideologia, in cui i monopolisti dei dati non sono immutabili, irregolabili, inamovibili. Older la chiama “resistenza speculativa”: “Abbiamo bisogno di futuri speculativi”, dice, “ci ricordano che il mondo in cui viviamo non è inevitabile”. Se l’ideologia dominante è tale proprio in quanto capace di rendersi invisibile, di entrare tra le norme e i comportamenti quotidiani come il respiro nel torace, il grido immaginativo della scrittrice è la forma più pura, e forse più forte, di critica ideologica a Silicon Valley”.
Forse susciterà discussioni meno accanite rispetto al gradimento o meno di una serie televisiva, ma insisto sul lavoro culturale (su cui ieri è intervenuto Il Post, sottolineando i rischi della mancanza di bibliodiversità nelle librerie). Anzi, lascio spazio alla lettera che ho ricevuto da Otello Baseggio, ex libraio ed ex direttore di una libreria Feltrinelli, che ha acconsentito (grazie!) alla pubblicazione sul blog.
“Assistiamo a un salto all’indietro di cinquant’anni, quando le librerie, anche le Feltrinelli, organizzavano il proprio assortimento per bandiere editoriali e collane; proprio le Feltrinelli abbandonarono quel sistema per riorganizzare l’offerta in ragione degli interessi dei lettori e perciò ampliarono enormemente l’offerta traducendola in settori veri e propri”.
“L’attuale contrasto tra librai e dirigenza ha trovato la sua miccia nell’euro e cinquanta, ma trova motivazioni profonde lontane e attuali: la centralizzazione da anni va di pari passo con la verticalizzazione, quali due ruote dentate collaboranti in senso antiorario, con processi che via via sottraggono ai librai competenze di scelte, proposte, ordini novità, riordini di catalogo, rese”
“Giorgio Belledi, ahinoi scomparso qualche anno fa, straordinario libraio e direttore a Parma, sosteneva che in Italia i libri non si vendono perché non lo si vuole: aveva e ha ancora ragione; mancano progetti e piani di sviluppo nel business dei libri, impera da anni l’ossessione dei tagli senza contropartite che allarghino la base di lettori acquirenti, non ci sono piani di sviluppo dei servizi, oggi assai arretrati, di profilazione dinamica del fronte di offerta, di efficienza e innovazione dei processi operativi, di formazione continua dei librai, di organizzazione ed empowerment degli stessi”
Eccetera. Eccetera.
Il punto di partenza è la storia della popolazione Haida, le cui poesie sono arrivate fino a noi grazie a un traduttore, a un antropologo e al racconto che ne fa Margaret Atwood.
La storia è bella, e probabilmente in molti penseranno che non ci riguarda, convinti come siamo che quel che scriviamo, e leggiamo, resterà per sempre dopo di noi.
No, se qualcuno non interviene a preservarlo, come ha fatto l’antropologo.
Ma rimaniamo all’oggi, e a un tempo molto più breve dei cento anni intercorsi dal racconto orale dei poeti Haida alla pubblicazione della raccolta: mi capita di pensare alle sacrosante rivendicazioni di chi scrive per quel che riguarda il proprio lavoro, e dunque di essere liberi di esprimersi, ma anche di essere pagati per i propri interventi e presentazioni in festival e occasioni pubbliche, come scrisse tempo fa Vincenzo Latronico.
Tutto questo è appunto sacrosanto, e certamente ci vorrebbe un organismo che, come la Authors Guild americana, tuteli scrittrici e scrittori.
Ma, ecco il punto, non solo loro: perché la tutela dovrebbe diventare una rete che riguarda tutte le figure editoriali, i redattori, i traduttori, gli uffici stampa e, sì, i librai, ancora una volta.
Perché è vero che la materia prima viene fornita da chi scrive, ma senza tutto il resto svanisce come le parole degli Haida.
Stamattina leggevo su Collettiva della sparizione di chi legge a Roma. O meglio, della diminuzione delle librerie in centro.
Ma c’è un fenomeno di cui non si parla abbastanza, ed è quello dei gruppi di lettura: che invece si moltiplicano e funzionano e attirano. Esempio personale: ho fortemente voluto che il mio podcast, Cose (molto) preziose avesse un’espansione mensile dal vivo per visitare i gruppi di lettura e sapere da loro come hanno letto e che impressione hanno tratto dai libri presentati: fin qui sono stata a Roma, Catania, Matelica, Torino e domani sarò a Reggio Emilia per un doppio appuntamento che si deve a degustibook, un gruppo di lettura tutto femminile che domani apre ad altri gruppi, ovvero DoRaTe della Rosta Nuova, MOMO di San Pellegrino, la PARADISA di Massenzatico. E da quanto capisco se ne aggiungeranno ancora.
Sottovalutare i lettori, come ho scritto su Lucy-sulla cultura, è errore gravissimo: perché lettrici e lettori, a dispetto dei pochi soldi e del poco tempo, vogliono essere avvinti, e lo dimostra il proliferare in ogni città, piccola e grande, proprio dei gruppi di lettura. Sono i “nidi di vespe”, l’azione che dai grandi luoghi, dalle fiere e dai festival giganteschi, si sposta sul territorio. Ed è questo che, secondo me, dovremmo fare: per i libri, per la politica.
Questa mattina su La Stampa, Simonetta Sciandivasci torna, da par suo, sulla questione dello sciopero dei librai Feltrinelli. E lo fa, all’inizio dell’articolo, ponendo una domanda non da poco:
“Non risultano scrittori che abbiano preso posizione sullo sciopero dei librai Feltrinelli. Non un’intervista, un intervento, un editoriale, un X, un post, una petizione, un botta e risposta su Facebook, un boicottaggio. Niente”.
E’ già accaduto. Dieci anni fa, quando Erri De Luca andò a processo, e cinque, con un po’ di eccezioni, con il caso Grafica veneta.
Ora, tutte e tutti amiamo Luciano Bianciardi: ma la questione del lavoro culturale non è faccenda del secondo Novecento. Anzi, deve uscire dallo studio di Bianciardi per arrivare all’oggi. Non ci si riesce. Così mi chiedo, oggi come cinque e dieci anni fa, come mai ci sia questa scarsa propensione di molti scrittori italiani a sentirsi parte di un discorso comune. Con eccezioni, certo. Poche.