La prima è Violetta, che ha scelto di vivere nel paesello, e ricordo bene quando si avvicinava il primo autunno e c’era quel velo di incertezza, per ora raccolgo nocciole, e comincio a preparare le marmellate, e poi, ce la farò? Ce l’ha fatta, con le sue maglie e sciarpe e giacche e tutto quel che di bello si può fare con la lana. Ma penso ora a Violetta ricordando la paura nei suoi occhi, fra la prima e la seconda scossa di ottobre, e tutto quello che mi disse in quei pochi minuti, in piedi davanti alla nostra automobile, il rumore e il buio e la pioggia fuori, e chi lo dimentica.
La seconda è Monica, che è riuscita a fuggire dalla sua casa di Camerino prima che le si ripiegasse addosso, e anche dai suoi rifugi provvisori non ha mai, mai perso il sorriso, e la fiducia di ricominciare, e quella fiducia la comunica a tutti coloro che la incontrano.
Terza, e quarta: Silvia e Francesca, la loro libreria a Matelica, la Visso di Silvia annientata, eppure c’è il progetto, felicissimo, di riempire di libri la Visso che non c’è più, per riportarla dov’era e com’era, a dispetto di chi quel “dov’era com’era” non vuole neanche sentirlo ipotizzare, non sarete mica pazzi, i soldi son finiti, è finita la pacchia, andarsene bisogna. Come mi diceva lunedì sera un tassista a Torino. Via di là, questo bisogna fare.
Quinta è un’altra Silvia, ristoratrice a Pieve Torina , che ha tenuto aperto il suo ristorante a dispetto di tutto, e ha cucinato per i soccorritori, prima ancora di poter pensare a un rimborso, ed è rimasta là dove tutto è crollato.
Sesta è Alice, che da Amandola ha raccontato quel che NON avveniva e la solitudine degli allevatori, questi montanari ostinati, e ha scritto e ha denunciato e, neanche a dirlo, continua.
Settima è Lidia, che ha rinominato i luoghi delle Marche come Mesopotamia, e formula l’alfabeto dell’abbandono, con le parole della poesia.
Ottava è Stefania, che ha scritto con indignazione il Manifesto della Marca Maceratese perché il patrimonio artistico delle zone colpite non si disperda.
Nona è un’altra Silvia, che ha scritto un libro che racconta gli animali delle zone colpite, e attraverso le loro storie spiega a chi non sa cosa sta accadendo davvero.
La decima non ha nome, e racchiude tutte quelle che non conosco, o che colpevolmente dimentico: giovani e vecchie, bambine e adulte, rassegnate e arrabbiate, silenziose mentre guardano il mare che non volevano vedere, non ora, non così, perché questa non è una vacanza e casa è altrove, o furiose dentro un container che hanno rimediato da sole, perché niente e arrivato, e postano sui social le foto delle finestre che ghiacciano.
Penso a tutte voi, donne del terremoto. Al di là delle polemiche che accompagnano ogni 8 marzo, e di chi dice “non se ne può più di sentir parlare di donne”, e di chi non capisce come si possa essere femministe, e di chi non capisce come si possa non esserlo. Al di là dei riti, al di là delle manifestazioni, al di là di ogni schieramento, penso a voi. E di voi sono fiera, e di voi mi sento sorella, care sibille di cui non si parla mai, o troppo poco comunque. Auguri, e forza.