BARBIE, A PRESCINDERE

Premessa: non ho visto il film Barbie. Lo farò, appena riuscirò a respirare in questo periodo folle. Però sono molto colpita dalla barbizzazione del mondo che mi circonda, reale e virtuale, in questi giorni sfolgorante di rosa shocking. Ho letto parecchio sul film, comprendo che sia portatore di un messaggio femminista – così mi vien detto – eppure conservo, a prescindere, l’antica perplessità. Cosa succede quando un contenuto positivo viene fagocitato dal marketing? Quanto quel contenuto perde forza e va a vantaggio di un mercato in grado di inghiottire e risputare ogni sacrosanta battaglia per i diritti? Dobbiamo farci necessariamente i conti o possiamo trovare altre strade?
Nell’attesa di capirne di più, vi posto l’articolo che ho scritto un paio di settimane fa per il Venerdì. A prescindere, appunto.

 

“Facciamo una premessa: ho giocato con la Barbie. Ci ho giocato quasi in tempo reale, perché è nata tre anni dopo di me, nel 1959, e sono stata fra le bambine che hanno avuto fra le mani la bambola col vitino di vespa, il costume zebrato e l’espressione imbronciata (faccenda che molti hanno dimenticato: oggi Barbie sorride sempre, ai tempi era di pessimo umore, con le labbra ben disegnate dal rossetto che sporgevano in fuori). Non solo: anche mia figlia ha giocato con le mie Barbie, e con gli aggiornamenti degli anni Novanta, in versione grunge con salopette e cappellino o più scanzonata e modaiola mentre il decennio finiva e impazzava la canzone degli Aqua (ricordate? You can brush my hair/undress me everywhere). Quindi non sono per la proibizione della Barbie, anche perché sono contraria alle proibizioni in assoluto.
Però, davanti al Barbie-verso, rigorosamente rosa,  continuo a temere. Non c’è nulla che non sia riconducibile a lei.  E’ stata tutto. Ha insegnato (yoga, danza, lingue), ha allenato una squadra di football, è stata veterinaria, infermiera, hostess, biologa marina, fotografa, chef, cassiera, paracadutista, dentista, delegata Unicef, astronauta, principessa. E’ stata la Tippy Hedren degli Uccelli di Hitchcock, è stata Mary Poppins, con Ken è stata Giulietta (e lui Romeo) e ha fatto parte dell’equipaggio di Star Trek. E’ stata velina di Striscia la notizia (giuro). E’ stata candidata cinque volte alla presidenza degli Stati Uniti (anche se non conosciamo il suo programma).
Ed è inclusiva. La sua pelle ha cambiato spesso colore, ha la sindrome di Down, è calva, ha una protesi, è sulla sedia a rotelle, porta l’apparecchio acustico, ha la vitiligine. Ha corpi non più necessariamente magri. Che le puoi dire? Come fai a criticarla?
Però il motore primo resta quello originario: amici, feste, shopping. Questo, del resto, è stato l’intento della donnina di plastica da quando è nata, l’identikit che l’ha segnata, l’ha lanciata, l’ha portata nei ritratti di Andy Warhol e persino nello spazio, in una Time Capsule fornita di tutti i simboli della nostra epoca. “Alta poco di più di una margherita, guida la macchina ed è invitata a tutte le feste” era la sua primissima biografia.  Diceva un altro slogan, su una T-shirt americana: “Voglio essere Barbie. Quella puttana ha tutto”.
Anche oggi? Oggi in fondo c’è la Barbie magistrato e nei libri si celebra soprattutto la sua forza, con l’imperativo “Non ti distrarre, non ti arrendere, non ti lamentare, ma fai tesoro dell’esperienza”. Se Barbie è il modello delle bambine, e lo è ancora, l’invito ha anche il suo lato oscuro. Perché Barbie, perdonate la parola, è l’icona del capitalismo che vuole che quella bambina sia “tosta” e performante.  Sarebbe anche bellissimo che qualcuno dicesse alle bambine: prenditi il tuo tempo, distraiti, impara, ama, osserva, ascolta, sogna. Soprattutto sogna. E sii infine chi vuoi essere. Non so se Barbie lo farebbe: lei è un immenso catalogo dell’esistente, non di quello che ancora deve essere immaginato. Per fortuna”.

 

 

 

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