Oggi Donatella Di Pietrantonio mi ha dato molto da pensare, con il suo bellissimo articolo sui prematuri che trovate su Lucy sulla cultura.
Leggere per i bambini e le bambine nati troppo presto non significa soltanto aiutare, con la propria voce, i piccoli (“Mentre nel libro della giovane volontaria crescono amicizia e amore, l’infermiera mi indica i monitor, mostra le frequenze cardiache e respiratorie che si stanno riducendo, le saturazioni dell’ossigeno già migliorate. È l’effetto dell’ascolto, dice. Qualcuno che piangeva ha smesso”). Significa ricreare un gruppo solidale:
“In molte culture, per esempio nel Maghreb e nell’Africa subsahariana, l’intera comunità assiste le giovani madri nella fase di maggior dispendio fisico ed emotivo. Da noi la maternità è spesso vissuta nella solitudine, soprattutto se in condizioni di svantaggio sociale. Il figlio è quasi tutto di chi lo ha partorito. La povertà, la perdita o la rinuncia forzata al lavoro, l’emigrazione come nel caso della famiglia di T., rendono più profondo il solco che isola la donna con i suoi figli. ”
Quando è nata la mia primogenita, prematura, molte cose non si sapevano: allora la pratica del marsupio per mantenere figlio o figlia pelle a pelle non si usava, e bisognava aspettare che qualcuno si distraesse per infilare le mani negli oblò dell’incubatrice e strappare un contatto, una carezza, qualche canzone da sussurrare, perché magari nessuno ce lo aveva detto, ma avevamo bisogno di toccare la pelle dei figli, di far sentire che eravamo presenti, che anche se eravamo stati separati troppo presto eravamo comunque vicini, e che saremmo usciti da là insieme.
Ricordo anche che un’infermiera, un giorno che i medici non c’erano, sbottò che era il momento che tenessi in braccio mia figlia, e con la massima cautela, mantenendo collegati fili e ventose, me la mise sulle ginocchia, e ricordo anche che tutte e due siamo scoppiate a piangere (io e la figlia) per l’emozione.
Ma anche allora, in quella stanza che risuonava di bip e campanelli che avevamo imparato a percepire come rassicuranti o minacciosi, non eravamo sole, noi madri dei troppo piccoli: c’erano appunto le infermiere, le altre mamme, ci si rassicurava o consolava a vicenda.
Io sono sicura che succeda ancora, perché nonostante tutto credo che negli esseri umani ci sia parecchia luce, oltre all’ombra che vediamo ogni giorno, ogni minuto. Mi chiedo però perché dimentichiamo le cose buone e belle che abbiamo avuto e abbiamo . Perché cediamo all’ira, al commentaccio, al risentimento (a volte per motivi futili, non parlo certo dell’importanza di saper confliggere).
Non ho risposte e non credo che la colpa sia, o non solo, dei social. Credo, ma se ne parlerà meglio domani, che troppo abbiamo rimosso dalle nostre vite.
Intanto, tengo caro il finale della Biblioteca di Babele di Borges che Donatella Di Pietrantonio leggeva al piccolo che le era stato assegnato:
“Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine”.
Ieri, rileggere qui, proprio proprio proprio quel Borges, proprio quel finale, mi ha ridonato il sorriso per diverse
ore.
anche qualche lacrima
grazie di questi momenti che ci allontaniamo dalla cruda realta e ci rcordano che il bello e il bene esiste e forse un giorno,soero non lontano, possa prevalere sul male