Categoria: Cose che accadono in giro

Appena ho parlato dell’erigendo stadio della Roma, questo blog è fitto di commenti. Insulti a parte (mi farete cambiare squadra, se insistete così, eh), sono interessanti le motivazioni a favore dello stadio medesimo. Florilegio: il valore delle case aumenta, l’indotto pure, avremo più soldi, questa è una capitale da terzo mondo con “i ruderi di 2000 anni fa”.
Ma parliamo di paesaggio, dai. Parliamo del verde promesso, che appunto è promesso fino a questo momento.
Una decina di anni fa una ricerca dell’università inglese di Exeter dimostrò che la bellezza è sinonimo di assenza di esseri umani o di umane attività, e i luoghi più amati sono quelli dove restano appena le tracce di quelle attività, le chiese, le statue, le moschee, o nulla del tutto, i mari e le montagne e i deserti. Amiamo quello che non siamo riusciti a distruggere ma dal momento che non possiamo fare a meno di distruggere continuiamo allegramente.
Per dirla tutta: per me possono fare anche venti stadi. Purché non sia a scapito del verde. Ma questa è una campana che suona senza che la si voglia ascoltare. Salvo piagnucolare quando, come oggi, le temperature sfiorano i 40 gradi, chissà come mai.

Voglio incontrare il sindaco di Roma Gualtieri. Lo chiedo da cittadina romana, da sua elettrice (e che bisognava fare?), persino da tifosa romanista. Voglio incontrarlo perché sono nata un anno dopo la pubblicazione dell’inchiesta Capitale corrotta=Nazione infetta che Manlio Cancogni scrisse per L’Espresso (sul quale scrivo io adesso, pur non essendo all’altezza di Cancogni, lo dico subito). 
Voglio incontrare il sindaco Gualtieri perché abito a Pietralata. E sono stufa di sentir definire il mio quartiere come degradato perché fa comodo, perché bisogna costruire prima la Rambla e poi lo stadio della Roma, e spazzare via il bosco di Pietralata, che come si dice è a sua volta incolto e degradato. Il degrado, signor sindaco, è un’altra faccenda: il degrado è l’incuria, la mancata cura del verde, il cemento, le concessioni edilizie. Quell’articolo di Cancogni, settant’anni fa, diceva proprio questo: i patti antichi con i costruttori distruggono la Capitale, e pure la nazione.
Ma parliamo della Rambla. E’ stata inaugurata e lei, signor sindaco, era presente, ma si era portato un gazebo per ripararsi dal sole. Legittimo e giusto: ma le chiedo, se fosse stata prevista una zona d’ombra non ne avrebbe avuto bisogno. Né le forze dell’ordine presenti sarebbero state costrette a ripararsi sotto uno dei pochi alberi lasciati vivere.
Ah, ingrati, dite qua e là, da municipio e giunta: vi risistemiamo il quartieraccio in degrado e ve lo rendiamo decoroso. Non è questa l’idea di decoro che abbiamo, in molti: anzi, guardi, lasciamolo proprio perdere il decoro, che è concetto che piace a Marco Minniti e a Rudolph Giuliani, ma non dovrebbe piacere a lei e a chi ha a cuore un’idea di città che torni a incontrarsi. E lo stadio della Roma distruggerà il poco verde che ancora resiste, e che voi chiamate “degrado”.
Il suo assessore Veloccia liquida il tutto come “fake news”. Ma allora mi permetta di chiederle dove sono i piani esatti, dove sta il progetto, dove sta il benedetto verde promesso, perché al momento sono parole. Le vostre come le mie e quelle di chi ci abita. Noi degradati, noi “torpigna”, come gli intellettuali definivano gli abitanti delle periferie negli anni Novanta. Mi pare di ricordare che il suo partito dovrebbe guardare con attenzione alle periferie, e non usarle. Perché le avete abbandonate alle destre, salvo strapparvi i capelli dopo le elezioni. Ma sarà sempre peggio, se andrete avanti con il disprezzo che avete dimostrato fin qui.
Buon cemento, buono stadio, e pure forza Roma, nonostante.

Il 14 giugno 2018 Matteo Salvini inizia la sua battaglia contro gli intellettuali. Fa così. Manda un suo emissario all’incontro con Edoardo Albinati alla Feltrinelli di Milano, l’emissario registra un pezzo del suo intervento che viene subito rilanciato sui giornali simpatizzanti della Lega. Poi, Matteo Salvini  aizza i cani (“Che vergogna”).
Ma restiamo a quel mese di giugno del 2018. Perché tra il 21 e il 22 giugno, grosso modo contemporaneamente all’aggressione ad Albinati, Roberto Saviano in un post lo appella “ministro della malavita”: è una citazione da Gaetano Salvemini. Anzi, è il titolo di un suo saggio, che per esteso è  Il ministro della mala vita: notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, viene pubblicato nel 1910 e ripercorre imbrogli e violenze del candidato giolittiano Vito De Bellis per le elezioni politiche di Gioia del Colle. Salvini, in aula, ammette di conoscere il libro anche se non l’ha letto, ma ribadisce di voler mantenere la querela.
A questo punto gli avvocati gli chiedono conto di quello che Salvini stesso aveva affermato nello stesso giugno 2018.
“Ehhhhh…..ma se mi chiedete di ricordare quel che ho detto a giugno 2018”, minimizza Salvini, che evidentemente considera la memoria qualcosa che si può manipolare a proprio tornaconto. Alcune cose si ricordano, altre no.
Comunque, durante la sua campagna elettorale di quel 2018, Salvini ha affermato più volte che una volta al governo, “toglieremo a Saviano l’inutile scorta”.
A dimostrazione che le frittate si possono rivoltare e si rivoltano, e che la campagna salviniana contro scrittori e intellettuali passa in secondo piano e svanisce, mentre tutti e tutte ricordiamo benissimo il tiro al bersaglio di quei giorni, visto che la nostra memoria non è parziale. E sappiamo che continua, e continuerà, e che non si tratta di difendere il solo Roberto Saviano, ma la libertà di espressione e di parola di tutti noi, che domani potremmo essere in quell’aula dove la E de “La legge è uguale per tutti” è scritto con l’apostrofo, e questo farà inorridire i puristi ma non è che un simbolo, uno spunto, mentre non c’è nulla di simbolico, e molto di pericoloso, nel disequilibrio fra un ministro della Repubblica e uno scrittore.
Ricordiamocelo.

Nel mondo culturale ed editoriale italiano riverberano le stesse questioni generali che riguardano tutte e tutti. Il classismo, certo: anche inconsapevole, ma non per questo meno forte.  La disuguaglianza, certissimo. La solitudine e la fragilità, ovvio.
Ma restiamo sul mondo culturale. Perché mi sembra interessante che si parli qua e là di casi singoli e non del sistema, che è avvelenato da un bel pezzo. Mi perdonerete se cito per l’ennesima volta Mark Fisher, che parlava di una cultura soffocata da finitezza e sfinimento, perché oppressa, da un bel po’ di lustri, dalla “creazione di valore” e dalla dimenticanza del passato, che ci costringe a vivere in un “presente permanente”.
La depressione, scriveva, è il sintomo.  Anzi, “la depressione è il lato oscuro della cultura dell’autopromozione”: “L’attuale ontologia dominante esclude categoricamente ogni possibile causa sociale della malattia mentale”. 
E viviamo in un mondo infestato dall’immobilità: nella sua idea di Hauntology, degli spettri dell’online che schiacciano il mondo reale, tutto peggiora. Se si deve produrre valore, e subito, non possiamo più ragionare di futuro, ma ci muoviamo fra competizione, narcisismo e individualismo. 
Non è una novità, ma certamente. Però ce lo dimentichiamo, ogni volta che dobbiamo denunciare o protestare: non è una singola realtà a essere preda dei fantasmi e dell’ansia di “valore”, qualunque sia il significato che affidiamo a questo termine. E’ tutto. Mondo culturale compreso, o forse per primo: e la caduta delle vendite, affiancata all’iperproduzione e alla rapida sparizione delle novità librarie, sta cominciando a mostrare il volto del fantasma che abbiamo ignorato.

Questa è una piccola storia, una storia di quartiere, dunque ininfluente rispetto alle storie grandi e terribili che si muovono sopra le nostre teste. Però contiene in sé qualcosa che riguarda un modo di pensare che ci strangola, e che ancora non viene compreso: nelle nostre città, nelle nostre regioni, il verde viene eliminato in favore del cemento. Ma come?, ci vien detto, non vedete che tagliato un albero ne viene piantato un altro? Già. Alberini infelici e sottili, che quasi sempre si seccano per mancanza di manutenzione, che non fanno ombra e che fanno pure tristezza, a vederli solitari e già malati circondati dalle nuove e ardite e geniali costruzioni che dovrebbero, ci risiamo, dare “decoro” alle nostre città. Sottraendo ossigeno.
Per esempio. Nel mio quartiere, domani pomeriggio, si inaugura “la Rambla”. Cosa c’entri una Rambla a Pietralata lo sa solo il Comune di Roma, e perché il pomeriggio inaugurale si debba chiamare “La Rambla è Fashion” non lo sa nessuno, e sarebbe bellissimo che invece di scomodare i linguisti per tuonare contro lo schwa lo si facesse ogni volta che si usano le parole a caso (non ho nulla contro gli anglismi, è che vorrei capire il termine Fashion applicato alla schifezza di cui sto per parlare).
Ma che è la Rambla?
Intanto, è una rotonda. Con un totem. Avete capito bene, un totem gigantesco che sembra un palo a cui legare i sacrifici umani per Chtulhu. Come dice il presidente del Municipio Umberti: “quando sarà illuminato diventerà un landmark del territorio”. Detto in parole povere, un punto di riferimento. Per fare cosa, a parte i sacrifici umani, non è chiaro. Poi c’è una scalinata, “dove in futuro si terranno gli eventi culturali e le sfilate di moda”, al cui centro sorge “una fontana artistica”.
Nei fatti, il tutto ha l’aspetto di una bella colata di cemento che difficilmente attirerà i passanti, che invece chiedono quello che chiediamo tutti. Verde.
Bene, il problema non è solo del mio quartiere, figurarsi: è vero, come scrivevano i Wu Ming, che esiste una classe dirigente “innamorata di cemento e asfalto”, che adora abbattere alberi, aprire cantieri e decidere urbanizzazioni insensate. 
Che si fa? Si racconta, si resiste. 
E si rilegge Antonio Cederna:
“Per me la lotta per la salvaguardia dei valori storico-naturali del nostro paese è la lotta stessa per l’affermazione della nostra dignità di cittadini, la lotta per il progresso e la coscienza civica contro la provocazione permanente di pochi privilegiati onnipotenti”.
Fashion un corno.

Circa un anno fa ho preso coraggio e ho telefonato a Francesco Pazienza, faccendiere, uomo dei misteri, morto ieri nella sua casa di Lerici a 79 anni. Nell’ingenuità che ancora mi porto addosso volevo chiedergli cosa sapesse di Graziella e Italo. 
C’era un motivo.
Nel 1983 Pazienza scrive a Bettino Craxi chiedendo formalmente “di poter essere liberato dal possibile vincolo di segreto di Stato per quanto da me svolto dal periodo marzo 1981-aprile 1982” in cui fu “portavoce del generale Santovito” presso Arafat.  E’ un faccendiere, si diceva già allora di lui. Collaborava con il Sismi. Collaborava con uno dei tanti nomi oscuri di quegli anni, Licio Gelli, per sorvegliare Roberto Calvi, banchiere di Dio, presidente del Banco Ambrosiano, coinvolto nello scandalo della lista P2, pronto a rivendicare, prima della bancarotta, i favori fatti ai potenti. Pronto a dichiarare che 15 milioni di dollari  provenienti dai servizi segreti americani erano stati utilizzati da Licio Gelli per finanziare chi ha messo la bomba alla stazione di Bologna.  Un depistaggio, diranno le sentenze, che gli fruttò una condanna a dieci anni.
Francesco Pazienza era solo un nome: eppure era uno di coloro che entra nella storia di Graziella perché è uno di coloro che conoscono l’esistenza del lodo Moro, che della fine di Graziella è in un certo senso l’evento scatenante. Per anni Pazienza ha accettato interviste sul lungomare di Lerici, fumando sigarette e dichiarandosi orgoglioso della sua attività di volontario durante il terremoto dell’Aquila. E sì, certo, raccontava serenamente di aver trattato con il terrorismo palestinese, sì, certo, perché lui ha addirittura condotto la trattativa per il lodo Moro. “Quella fu la moneta di scambio per la tranquillità”, dice.  Garanzie da parte dello Stato italiano in cambio di sicurezza. Niente massacri come ai Giochi Olimpici di Monaco. Niente rappresaglie. Niente stragi.
Ah, la telefonata. Quando gli chiesi di parlargli, sul suo whatsapp che ha come immagine profilo un cagnolino, mi rispose con il pollice alzato. Fu gentile, cortese, fluviale e volutamente insignificante. Ma il senso era: “Non so niente, avranno visto qualcosa che non dovevano vedere”. Ho sempre pensato che sapesse molto, ma non me lo disse e si informò sulla mia vita, di cui gli dissi molto poco. Era agosto, ero a Serravalle. Chiusi la telefonata con angoscia, con la quasi certezza che non avremmo mai saputo nulla. Eppure, bisogna continuare a credere che non sia così.

Dunque sono in partenza, questa sera Formia, domani  Ventotene per Gita al Faro. Sarà un’edizione particolare, molto. Più condensata, più centrata su quel che avviene intorno a noi, anche con le parole della letteratura.
C’è un motivo, anzi più d’uno. 
Mai come in questi ultimi mesi si è parlato di Ventotene: la sua storia e quella dei confinati politici sono state evocate nelle piazze, in Parlamento, sui giornali. Mai come oggi si è tornato a fare i nomi di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni (dimenticando, spesso, Ada Rossi e Ursula Hirschmann, che molta parte ebbero nel Manifesto). E mai come oggi, dunque, è necessario ricordare cosa è avvenuto davvero nell’isola in cui furono confinati numerosi uomini e donne che parteciparono alla resistenza e alla lotta per la liberazione, di cui ricorre in questo 2025 l’ottantesimo anniversario, molti dei quali futuri esponenti della classe politica repubblicana. 
La memoria di quanto è avvenuto è stata in passato delegata a pochi, instancabili studiosi, scrittori, attivisti che hanno continuato a indagare sui lunghissimi anni in cui Ventotene e la vicina Santo Stefano sono state luoghi di confino e di carcere. Ed è per questo che l’edizione 2025 di Gita al faro, che da quattordici anni ospita scrittrici e scrittori per conoscere e raccontare l’isola, sarà interamente dedicata a cosa davvero è stata quell’esperienza.
Saranno tre gli ospiti del Festival, Annalena Benini, Paola Caridi e Wu Ming 1, e ognuno declinerà a suo modo la storia di Ventotene e come riecheggia nel presente.
Gita al Faro, insomma, cambia nella continuità, per questa edizione 2025: perché la letteratura non è mai lontana dal mondo in cui nasce, e ne riporta gli orrori, ma anche le speranze. Un’edizione speciale per tempi speciali: dove gli scrittori sono chiamati a guidarci nella comprensione di quel che la cronaca non sempre riesce a restituire.
Questo blog non sarà aggiornato fino a lunedì. E speriamo che siano giorni portatori, se non di pace, di lucidità e di pietà.

In quella parte dei social frequentati dai più anziani va per la maggiore postare vecchie foto di se stessi bambini, o bambine, oppure adolescenti, oppure novelli sposi, e chiedere agli utenti che sanno farlo di animarle, in modo da ricevere dal padre un abbraccio così raro nella realtà, o di baciare il fidanzato mai più visto, o di accarezzare la madre scomparsa. Non ci trovo nulla di condannabile, in fondo, e mi fa anzi tenerezza constatare quanta solitudine o rimpianto o amore si affidi a un luogo complicato come la rete.
Dovessi usarla io, quell’app, farei invece video con le immagini di tutti coloro che negli anni hanno  affidato alla rete una domanda retorica: “Dove sono le femministe?”. Mi rendo conto che non mi basterebbe lo spazio del computer e neanche di una cineteca, perché quel che avviene in queste ore è la replica esatta di quanto accaduto negli ultimi  anni. 
Immediatamente dopo l’attacco di Israele all’Iran si sono levate voci e vignette e meme con un’unica richiesta: quella. Dove sono le femministe quando Israele va a esportare democrazia nel paese degli ayatollah? Perché non difendono le donne angariate e uccise, perché non gridano Donna Vita Libertà? Perché sono dalla parte della teocrazia? Dove siete, femministe?
Anzi, meglio: dov’è Non Una di Meno, visto che secondo costoro è la causa di tutti i mali?
Sempre la stessa storia. Negli anni è rimbalzata da testate giornalistiche (sempre quelle: Libero, Il Giornale, Il Foglio) alle bacheche di singoli e anche singole.
Ed è impressionante constatare che chi grida cercando femministe non le abbia mai viste quando agiscono, che guardi solo al proprio cortile, alla propria bacheca, alla propria manifestazione sotto l’ambasciata iraniana, come se le femministe dovessero essere e agire a piacimento, dopo che il gridante di turno infila il gettone nel juke-box, e apparire proprio dove la testata giornalistica o l’utente dei social chiede che siano. A casa sua, quasi sempre.
Dunque, la prossima volta che state per scrivere “dove sono…?”, pensate a dove siete voi, e cosa fate voi, e quanto siete informati voi, e quando desiderate informare voi. E non è una rispostaccia: è un invito sincero. Perché nessun cambiamento passa attraverso un social network, nonostante quel che pensiate.
Peraltro, le femministe sono dove sono sempre state: dalla stessa parte, sempre e per sempre. E non vogliono che nessuno parli in nome delle donne, soprattutto se ha la coscienza sporca.

Di Alessandra Casilli conosco l’età, 54 anni. Conosco l’affetto dei suoi studenti dai commenti sulla pagina Facebook del Liceo Rocci di Fara Sabina, dove insegnava. Conosco, apprendo, dei vent’anni di insegnamento di matematica: dunque, la giovane donna trentaquattrenne era arrivata alle soglie della mezza età senza un lavoro fisso. Perché la vita di Alessandra Casilli si è spezzata in una galleria della statale 85, in Molise. Alessandra ha guidato per centinaia di chilometri, probabilmente alzandosi prestissimo, per andare a sostenere la prova orale del concorso che forse le avrebbe permesso di avere una certezza professionale. Stava tornando dai suoi allievi, per la cena di fine anno, e invece è finito tutto, la fatica di girare l’Italia a proprie spese e con i propri mezzi per non essere più una precaria. E tutto quanto è contenuto in una vita.
Possiamo parlare di molte cose, per quanto riguarda la scuola. Possiamo concordare o meno su tanti punti (so che la questione del cellulare, di cui ho scritto, è risultata divisiva: ma ci sta, ma è giusto, purché si possa discutere). Ma su questo, invece, occorre essere fermi e compatti e solidali, noi che si vive di parole e si crede nella centralità della scuola: non è possibile morire di precariato. E’ dolorosissimo e assurdo che accada, e su questo il ministro Valditara deve dare risposte.
Pubblico qui sotto la lettera della comunità scolastica del Liceo Rocci, accolta dal Domani e accolta, per quel che serve, anche qui.

Questa mattina ho pensato a Viola, la ragazzina di Venite venite B-52 che Sandro Veronesi scrisse esattamente trent’anni fa. Viola che si inginocchia davanti alla finestra e prega “Venite, venite, B-52. Venite qui, buttatela qui la bomba, venite e spazzate via tutto”.  Ci ho pensato leggendo i giornali, leggendo dell’ennesima follia dell’attuale governo israeliano e dell’escalation di una guerra di cui non si vede la fine. Si dirà che era il 1995, altri tempi, anche se una guerra atroce, quella in Bosnia, ci stava attraversando. Si dirà che è un romanzo (e poi si scoprirà, in quel bel romanzo di Veronesi, il motivo dell’implorazione di Viola). E che comunque ancora in minima parte molti noi conservavano la certezza di poter ancora vedere la pace, anche se i fatti ci stavano smentendo, anche se avremmo dovuto capire, e molti di noi in effetti hanno capito, e alcuni non hanno resistito a quella comprensione.
C’è molto e c’è poco da dire, c’è da restare impietriti e chiedersi cosa deve accadere ancora. C’è da provare a recuperare le parole degli altri, anche se quegli altri non sono più vivi. Penso a José Saramago. Penso al discorso che tenne a Madrid nel marzo del 2003. Allora c’era la guerra in Iraq. Allora si immaginava però che ci fossero movimenti in grado di fermarla.
“Senza pace, senza una pace autentica, giusta e rispettosa, non ci saranno diritti umani. E senza i diritti umani – tutti, uno per uno – la democrazia non sarà mai altro che  un’offesa alla ragione, uno scherzo. Quelli di noi che sono qui fanno parte della nuova grande potenza mondiale. Ci assumiamo le nostre responsabilità. Combatteremo con il cuore e il cervello, con la volontà e l’illusione. Sappiamo che gli esseri umani sono capaci del meglio e del peggio. Loro (non ho bisogno di dire i loro nomi ora) hanno scelto il peggio. Noi abbiamo scelto il meglio”.
Non torniamo a dormire, per favore.

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