Categoria: Cose che accadono in giro

IL BALZO DELLA TIGRE

Questo è un 25 aprile più importante del solito, anche se tutti i 25 aprile lo sono. Questo è un giorno in cui tenere bene a mente quello che diceva Franco Fortini nel 1974 a Enzo Golino:

“Dipendiamo dall’avvenire in quanto siamo riusciti a recuperare dal passato, con il balzo della tigre di cui parla Walter Benjamin, qualcosa che dovrà essere divorato nel futuro”.

E’ un giorno in cui il passato deve consentire il balzo, soprattutto per le giovani persone, visto che la mia generazione (sempre quella che ha perso, diceva Gaber) non è riuscita a trasmettere quel che desiderava. E visto che molti miei colleghi, in questi ultimi tempi, hanno scelto – anche legittimamente, ognuno è padrone della propria vita – di non esporsi, di non parlare di argomenti “politici”, vedi mai.

W.A. Auden mise a fuoco uno dei grandi temi di Jane Austen nella sua Lettera a Lord Byron: “Voi non potreste urtarla/più di quanto essa mi urti:/Joyce accanto a lei è più innocente dell’erba./ Mi mette in imbarazzo lo scoprire/una zitella inglese della media classe/descrivere gli effetti amorosi del “contante”, /rivelare francamente con tale sobrietà/le basi economiche della società”.
Ieri, al Festival internazionale del giornalismo a Perugia, abbiamo provato – chi vi parla, Daria Bignardi e Vera Gheno – a rispondere al titolo dell’incontro, “Come le scrittrici hanno cambiato il mondo”. Mi sono venute in mente due autrici che l’hanno fatto: Mary Shelley, con Frankenstein, e Jane Austen. Ecco, su Jane vi ripropongo quanto ho scritto per La Stampa, parola per parola. Buona quasi-liberazione.

Guardo i giornali, guardo i social. Si sta parlando della campagna pubblicitaria con la povera Venere botticelliana che mangia pizza. Si sta parlando degli exploit quotidiani dei ministri. Si sta parlando di vignette. Sono i soliti, immutabili, elefanti nella stanza. “Non pensare all’elefante!”, diceva George Lakoff una vita fa, intendendo questo: “non usare le stesse parole dei tuoi avversari, o finirai con l’evocare le stesse idee, rinforzandole”.
Quello che voglio dire è che esiste una tendenza terribile, e generale, a non vedere la povertà, o l’impoverimento. I licenziati, gli sfrattati, i senza lavoro e i senza casa. Di cui ogni tanto ci si occupa e poi, certo, si dimentica. Ma questo non è un film, non è un romanzo. E’ vero. E che altro deve succedere?

Ieri, parlando con i due ospiti di Fahrenheit, biologi, zoologi e ambientalisti, dell’orsa Jj4, mi sono fatta un bel po’ di domande. La prima me l’ero fatta da un po’ di giorni, e riguarda il fatto che tutti hanno detto tutto, su questa storia. Se volete sapere perché la tuttologia, in questo caso, è un errore, leggete l’articolo di Mauro Fattor docente al Master Fauna e Human Dimension dell’Università dell’Insubria, membro dell’associazione teriologica italiana, collaboratore di National Geographic Italia. 
Dice tutto. Parlando con Filippo Zibordi, che appunto ne sa, ho riflettuto sulle sue parole a proposito dell’orsa. Ha premesso che rispondeva con il cinismo dello zoologo e che a suo parere doveva essere “rimossa” (che sta per due cose: messa in condizione di non nuocere o abbattuta).
Mi è venuto il cuore stretto, e mi sono chiesta perché.
Ed ecco la seconda considerazione. Che riguarda non il nostro rapporto con gli animali in genere, ma con quelli che ci sono compagni. Dove e come sbagliamo? Non lo so. Non sono in grado di rispondere. Però vi ripropongo quello che ho scritto qualche tempo fa sui gatti. Magari serve, magari no. Ci penso ancora.

FUNES E NOI

Icona: un racconto di Borges, Funes el memorioso. Un uomo con una memoria prodigiosa, costretto a ricordare ogni singolo istante della sua vita. Non solo il bicchiere sul tavolo, ma tutti gli acini dei grappoli d’uva che formano la pergola sopra il tavolo. Non potendo dimenticare nulla, finisce col non avere ricordi.

Mi chiedo, allora, come si fa a trasformare la memoria in qualcosa di vivo. Perché esiste una contraddizione tremenda fra la ragazzina che svolge religiosamente il tema in classe sulla Shoah e, una volta a Birkenau, sorride allo schermo del cellulare. Ma non è, a mio parere, colpa sua. E’ un ripensamento generale della memoria e del come la trasmettiamo, che andrebbe fatto.

Nicolas Eymerich è una metafora impeccabile dei meccanismi del potere. Ma il potere mortale che rappresenta non è innocuo in quanto lontano nei secoli: pur accuratissimi nella ricostruzione storica, i romanzi di cui è protagonista mettono a confronto il crudele domenicano con avvenimenti misteriosi che quasi sempre aprono una o più dimensioni temporali parallele. Il che, di fatto, permette al lettore di capire che si sta parlando del presente. Se è fantascienza, è una  fantascienza che conferisce al passato e al futuro ipotetico la stessa caratteristica di mondo alieno in grado di rispecchiare le inquietudini del nostro presente. E con un intento preciso: perché Evangelisti ha sempre sostenuto che la narrativa fantastica “con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisca un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti”.
Un anno fa è morto Valerio Evangelisti. Oggi ne parleremo a Fahrenheit. In realtà non si è mai smesso di parlarne, e grazie al cielo di leggerlo. La speranza è che sia così ancora e ancora e ancora. Un anno fa scrivevo questo, per La Stampa. Lo ripropongo, e lo riproporrò ancora e ancora e ancora.

Succede che sulla bacheca facebook della rivista Focus il social media manager faccia una domanda (fessa): “Qual è la puzza più puzzolente al mondo?”. Posso lasciarvi immaginare il tenore dei commenti: razzismo a valanghe, un po’ di goliardia di bassa caratura. Poi però c’è questa signora che si chiama Sara Ferrero (sì, certo, nomi e cognomi), di Torino. Una signora elegante, da quanto si intravede dall’acconciatura dotata di un bel fiocco nero sulla nuca, e non giovane, immagino della mia età. La signora posta direttamente una mia foto, ingrandita sul sorriso. Insomma, io puzzo, solo perché in quella foto si vede la mia imperfetta dentatura. Non racconto questa storiella per lamentarmi, ma per l’ennesima considerazione sui social a cui facevo già riferimento un paio di giorni fa. Non solo abbiamo un problema di parole, come detto: ma di autoinganno. Pensiamo, cioé, di poter scrivere qualsiasi cosa contando sulla nostra invisibilità.
Quanto alla signora Sara, posso dirle che dopodomani, sabato 15 aprile, sarò alla Rocca di Arignano (non lontano da Torino) per Castelli in giallo, e che alle 18.30 leggerò La lotteria di Shirley Jackson. Sarà l’occasione per conoscerci, parlarci, e magari pure per mostrarle la mia dentatura nuova, a cui finalmente sto lavorando. La aspetto.

Chi frequenta Facebook, e si muove in una bolla letteraria, conosce, spero, Monica Rossi. Monica Rossi è dichiaratamente un uomo, la cui identità resta misteriosa. E’ persona che conosce benissimo il mondo editoriale in ogni sua piega, ne saggia vizi e virtù ed è ricca di arguzia e franchezza. Da qualche settimana, ha deciso di intervistare altri frequentatori del mondo editoriale: scrittori e scrittrici, soprattutto, ma non solo.
Leggetele tutte. Quelle che mi hanno colpito di più sono le ultime due: ad Alfonso Signorini e Veronica Tomassini. Quella a Signorini è un fake: molto scoperto, non individuato da molti commentatori, e che pure contiene una parte di assoluta verità. Quella a Tomassini fa male, e fa pensare parecchio.

Dodici anni fa Tullio De Mauro ci diceva che solo il 20 per cento degli italiani possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura per orientarsi nella società.
Partiamo da qui. Come mai non leggiamo quello che gli altri scrivono e interveniamo prima di farlo? Come mai non riusciamo più a leggere? L’urgenza è semmai quella di scrivere subito quello che pensiamo, prescindendo dai testi. Ma l’arricchimento delle nostre vite (tutte) è dato dall’ascolto e dalla lettura degli altri e delle altre. Se questo viene meno, e sta venendo meno, ci ritroveremo privati delle parole necessarie, e ne balbetteremo poche, sempre le stesse, senza neppure rendercene conto.
Forse bisogna cominciare a prenderci spazi e tempi sempre più ampi di disconnessione.

Andai a trovare mio padre, appena sposata e non ancora trentenne: sarebbe stato uno dei nostri ultimi incontri. Gli feci una visita a sorpresa, e parlammo molto, quel pomeriggio: alcune cose le ho dimenticate, altre sono ancora con me, e con me restano.
Ma ho voglia di condividerne una, perché è il regalo più grande che mio padre mi abbia fatto. Non vengo da una famiglia benestante, e dunque il regalo  non riguarda la stabilità economica o il raggiungere traguardi altissimi o posizioni di potere. Quel che mi disse allora, ma me lo aveva già detto altre volte, è di fare quello che mi faceva sentire bene. Male non fare, paura non avere, ripeteva sempre. Qualunque cosa tu scelga, diceva, fai in modo che non contrasti con quella che sei davvero. Non forzarti, diceva, non frequentare le persone per obbligo, non mentire né agli altri né a te stessa. Non censurare le tue idee sperando di ottenere qualcosa in cambio. Non sedere ai tavoli dove si bara (era un bravissimo giocatore di poker: sapeva bluffare, ma non ha mai barato). Non fare nulla di cui non saresti fiera.

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