Fra pochi giorni si vota nelle Marche, e chissà come andrà. Oggi, in uno di quei prevedibili avvitamenti della sinistra, ma anche degli osservatori e commentatori della sinistra, si riflette non su un punto chiave, ovvero la presenza della sinistra medesima nei territori, che con qualche eccezione recente sono stati abbandonati alla destra che avoca a sé anche le sagre e le tavolate un tempo semplicemente popolari, ma su come si vestono le donne di sinistra.
Leggo infatti uno scambio di battute fra Mirella Serri e Francesco Merlo su Silvia Salis, la sindaca di Genova cui si guarda come una politica che potrebbe guidare in futuro la sinistra, e che comunque si è dimostrata di rango nella manifestazione che ha salutato la partenza da Genova della Sumud Flotilla. Il problema, stavolta, sono i vestiti di Salis. Anzi, il vestito “da sirenetta” indossato in una festa privata per i suoi quarant’anni, mi par di capire urticante più della scelta del Palazzo della Borsa per i festeggiamenti (privati, appunto). Era accaduto anche con Elly Schlein ai tempi dell’affaire armocromista. Mancano soltanto, ma arriveranno, i rimpianti per Moro che passeggia sulla spiaggia in giacca.
Che poi, basterebbe leggere il bellissimo “Ersilia e le altre” di Lucia Tancredi, appena uscito per Ponte alle Grazie, per capire che anche Anna Kuliscioff amava gli scialli di cashmere, le sottovesti di seta e i vestiti di Rosa Genoni, senza che questo sottraesse niente al suo pensiero e al suo essere vicina al popolo.
Si dice infatti che sarebbe stato meglio un atteggiamento sobrio di Salis in vicinanza al popolo medesimo che soffre un’economia che langue, gli stipendi bassi, e tutto quello che si ripete da anni (veramente lo si ripete altrove, non mi sembra che si brilli, in generale, per empatia verso la povertà e la solitudine degli italiani, se non quando si deve attaccare qualcuno). Ma ancora una volta il problema è il vestito indossato da una donna e non quello che quella donna, o altre, fanno per lottare contro gli stipendi bassi e tutto quello che viene tirato fuori in queste occasioni.
Sì, si chiama populismo. Che è una cosa molto diversa dall’essere vicini al popolo: perché essere vicini “al popolo” significa andare nelle periferie e non soltanto a tagliare nastri e inaugurare luoghi arcani come avviene dalle mie parti. Essere vicini al popolo significa prendere i mezzi pubblici, andare al mercato e al supermercato, andare in un pronto soccorso fra i pazienti che aspettano per ore o chiedono un appuntamento che verrà assegnato fra mesi se non anni, parlare con le persone, ascoltare le persone, prendere posizione, rischiare, sbagliare, ricominciare, sbagliare di nuovo, provare a capire, restituire.
E sinceramente se si fa tutto questo in abito di raso o in jeans e maglietta poco mi interessa.
Ma c’è un vecchio tabù che riguarda i vestiti delle donne, o in assoluto quella che chiamiamo moda, e che pure dovrebbe essere letta come un racconto del tempo, perché questo fanno le stoffe e i vestiti. Oggi guardavo una fotografia di Claudia Cardinale, erano gli anni Sessanta, immagino, e lei aveva addosso una vestaglietta rosa con un bordo di piume, ed era rannicchiata su un divano di velluto a righe che ho riconosciuto subito: non perché sia mai andata a casa di Claudia Cardinale, ma perché erano le stoffe che nelle case degli anni Sessanta si imitavano e si desideravano, così come quelle vestagliette che non avevano forse le piume ma un’arricciatura, e non erano di seta ma di tessuto sintetico, e raccontavano, appunto, parte dello spirito di quegli anni.
Perché la demonizzazione di quel che si indossa non dà a nessuna e nessuno la patente della militanza perfetta e della purezza.
Anzi, se posso dirla tutta, la purezza esibita mi ha stufata. Sono i fatti a contare: quello che si scrive, le parole che si usano, le azioni che si tentano, anche se non riescono. Il resto serve solo a tirarsi fuori e ad autoassegnarsi un ruolo fra i giusti. Preferisco quelli che sbagliano, come sicuramente sbaglio pure io, tutti i giorni.
Onestamente non capisco perché ci si debba sempre concentrare sull’aspetto esteriore delle donne in politica. Secondo me sarebbe meglio parlare delle loro idee e dei programmi, non di come si vestono.