Sei anni fa, di questi tempi, andava in onda l’ultima puntata di Game of Thrones, destinata a dividere il pubblico per lungo tempo, e forse ancora oggi. Non molto tempo fa uno degli attori, Liam Cunningham (sir Davos) ha ribadito il suo orrore per quanto avviene a Gaza. “Noi”, ha detto, “raccontiamo storie. Cosa possono farmi se parlo? Mi spareranno per la strada? Non hanno alcun potere. L’unico potere che hanno è quello che gli diamo noi.”
Il potere delle storie, si sa, è gigantesco, ma si infrange quando le storie diventano vere: rivedere oggi quella puntata, e la distruzione di Approdo del Re da parte di Daenerys Targaryen, e la morte di migliaia di innocenti che a lei si erano arresi, e la cenere che copre le macerie, beh, fa male. Perché noi sappiamo benissimo che quelle macerie esistono, e non appartengono a una città immaginaria in una storia che ci ha fatto sognare. Ma a Gaza. Di cui giorno dopo giorno conosciamo l’orrore, e di cui giorno dopo giorno sappiamo le nuove morti di innocenti, e vediamo le macerie e le ceneri.
Nel 2018, Edoardo Rialti scrisse un articolo importante su Tolkien e Martin, e sul rapporto che le storie hanno con il mondo reale. Disse, fra l’altro:
“Certamente, l’Anello del Potere non era la bomba H e Sauron non era Hitler (“i nostri problemi col Signore delle Tenebre risalgono a qualche tempo prima” borbottò Tolkien in televisione); il creatore degli Hobbit non amava affatto l’allegoria e preferiva quella che chiamava applicabilità, ma è pur vero che ogni racconto fantastico è “intessuto di necessita e realtà”, come notò Calvino: semmai sono gli eventi del mondo reale che hanno la strana tendenza ad adeguarsi a esso, affermò il sodale C. S. Lewis. Col senno di poi ciò risulta vero dello stesso Martin, e in misura impressionante. Sulla soglia del secondo decennio del nuovo millennio, in un mondo dove ovunque si innalzano muri, milioni di lettori e telespettatori aspettano bramosamente di sapere come proseguirà una storia concepita negli anni Novanta che ha al suo centro una gigantesca Barriera e dietro la quale si annida una minaccia che troppi si rifiutano di ammettere, un pericolo in procinto di far ripiombare il mondo della storia e del potere ordinario – con le sue glorie e miserie – in un conflitto preistorico, lo scontro mitico e basilare della sopravvivenza stessa. Tra giorno e notte, calore e gelo, vivi e morti”.
E dunque, noi sappiamo. Ma siamo impotenti. In questi giorni si moltiplicano appelli, si organizzano manifestazioni (oggi un flashmob a Roma, la protesta dei sudari il 24 maggio, per esempio, come si può leggere qui e in molti altri luoghi). Eppure rimane la domanda: cosa può fare chi non ha altro che le parole? Scrive giustamente un’autrice, Rossella Milone, su Facebook, che bisognerebbe fermare tutto, saloni e festival, viaggi di Stato e concerti e premi, davanti alle infinite morti già avvenute e quelle previste. Ha senso. Forse ha più senso dei nostri status sui social, dei video, delle immagini che diffondiamo. E che purtroppo, mille volte purtroppo, si smarriscono e vengono dimenticate.
Come fate a parlare di libri quando c’è Gaza? Così mi chiedeva, qualche giorno fa, una donna su Facebook. Già, come facciamo? E’ troppo comodo evocare il Ricardou degli anni Sessanta, così come lo ricordava Beniamino Placido:
“Ci fu nel 1964 in Francia un acceso dibattito. L’ aveva provocato Sartre con certe sue e ancora ben note dichiarazioni. A che serve la letteratura di fronte a un bambino che muore di fame? Di bambini che muoiono di fame è pieno il mondo, specie il Terzo Mondo. A che servono i romanzi, dico anche il mio romanzo La nausea? La nausea esistenzial-personale; figuriamoci. Ma soprattutto a che servono questi nuovi romanzi alla Robbe-Grillet che si pubblicano adesso in Francia? Fu organizzato (da Clarté) un pubblico dibattito al quale parteciparono Simone de Beauvoir, Yves Berger, Jean-Pierre Faye, Jeorge Semprun, oltre a Sartre stesso, naturalmente, ed a Jean Ricardou, teorico del nouveau roman. Le argomentazioni di Sartre le ricordiamo tutti, tutte. Non so se ricordiamo altrettanto bene quelle del suo contraddittore Ricardou: incomparabilmente più sensate. Disse Jean Ricardou: Sartre ha ragione ovviamente; la morte di un bambino è più importante della nascita di un romanzo; si tratti de La nausea o di un nouveau roman. Però se i romanzi non ci fossero, rimarremmo indifferenti”.
So che non ci basta. Ed è giusto che non basti, perché qui si parla e si scrive e là si muore. Ma cosa fare, dunque? Se non parlare, scrivere ancora e ancora, dare spazio a chi sa più di noi, scrollarci di dosso non tanto l’indifferenza, ma qualcosa forse peggiore: l’assuefazione. Continua ad accadere, dunque dimentico. Non far dimenticare, come dice Liam Cunningham, forse è un minuscolo tassello. Sperando che serva.