Dieci anni fa, nel giugno del 2015, uno scrittore importante e ascritto al mondo della letterarietà come Beppe Sebaste scelse la strada del self publishing. Aveva pubblicato con Einaudi, con Feltrinelli, con Laterza e altri ancora. Aveva ricevuto apprezzamenti non certo piccoli. Aveva però scritto un libro nuovo, fuori canone, particolarissimo, che è, insieme, un metahorror, un’autofiction, una fotografia terribile degli anni Zero, una restituzione di letture, una confessione. Eppure, ha scelto di pubblicarlo da solo. Il romanzo si chiama Fallire. Storia con fantasmi ed è ancora disponibile su Amazon.
All’epoca, ci si chiese cosa lo avesse portato, pur avendo ricevuto offerte tradizionali (a cui è tornato nel 2022, pubblicando con Neri Pozza), a scegliere un’altra via. Lo spiegò sul suo blog, e alcune delle motivazioni sono intuibili: la crisi “culturale” dell’editoria, la solitudine dell’autore che “nella generale alienazione e sofisticazione del mondo editorial-letterario, ignora perfino la qualità stessa della propria scrittura, nonché le ragioni per cui viene (o no) pubblicato”, la mancanza di un’area di sperimentazione condivisa fra scrittori. Di una comunità, per meglio dire: “non credo possa esistere letteratura senza comunità, credo anzi che lo “spazio letterario” sia esattamente il luogo fondativo della vita comune, ciò che crea e popola moltitudini”. Dunque, la decisione di affidarsi alla rete, sentendosi un po’ fuorilegge, un po’ clandestino.
Disse, allora, di volerlo fare con un’opera decisamente letteraria, agli antipodi della semplificazione. Pubblicare su Amazon, disse ancora, non è solo un paradosso, ma un gesto critico nei confronti dell’attuale politica editoriale. Come se la letteratura dovesse, anche suo malgrado, uscire dall’editoria “classica” cui appartiene per avventurarsi come uno spettro nell’immaterialità del libro on line. Ed è proprio di fantasmi che questo libro ci parla – fantasmi psichici e sociali, scrittori fantasma.
L’avventura di Sebaste mi torna in mente da qualche settimana, dopo aver parlato con diverse scrittrici e diversi scrittori del diffuso sentimento di impotenza: va bene, si pubblica con il proprio editore, quello che per anni è stato “casa”, ma quell’editore non riesce più a sostenerti più di tanto, e se il libro funziona nei primi giorni va tutto liscio, ma se non funziona bisogna arrangiarsi, facendo più presentazioni e magari candidandosi o facendosi candidare a qualche premio. Così, mi dicevano quelle amiche e quegli amici, è spuntata la tentazione del self publishing.
Che è un mondo di cui non solo io, ma la maggior parte di chi lavora fra i libri in modo, diciamo così, tradizionale, sa poco, nei fatti. Ovviamente sappiamo che il self publishing è tutt’altra faccenda dalla sciagurata editoria a pagamento in tutte le sue forme, incluse quelle più insidiose che ti chiedono di sbatterti per raggiungere una quota tale di prenotazioni da poter permettere la pubblicazione (sempre editoria a pagamento è, anche se si chiama in un altro modo). Sappiamo che i libri pubblicati con Youcanprint (una piattaforma per il self publishing) sono in testa alla classifica di chi pubblica più titoli (4.374 titoli contro i 1.058 di Mondadori, che è al secondo posto).
Sappiamo anche, e forse è la cosa più importante da sapere, che chi fa parte di una comunità o di un fandom acquista quei libri, perché apprezza chi li scrive e attende il prossimo romanzo. Non ho dati, e mi piacerebbe averli, su chi sceglie il self publishing in solitaria, per così dire, senza far parte di una comunità viva e attiva.
Fino a non molto fa, e in parte ancora oggi, pensavo che il problema del self publishing fosse la mancanza del filtro che il lettore professionale o comunque forte aziona nel caso dell’editoria tradizionale: dove conta, indubbiamente, la casa editrice, conta il titolo, conta l’autore, se già è conosciuto.
Ma con il self publishing? Come fa un lettore e prima ancora un mediatore culturale ad avvicinarsi a un testo autopubblicato? Semplice, si dirà: attraverso il passaparola. E credo che funzioni soprattutto fra chi sa usare bene Tiktok o Instagram. Ma sempre se agisci all’interno di quella comunità di cui parlava Sebaste dieci anni fa.
Quello che voglio dire è che spira aria di crisi nel sistema editoriale che conosciamo, e questo lo sappiamo. E dunque anche fra i mediatori culturali, perché molti di noi non hanno gli strumenti per capire davvero come orientarsi nel mondo del self publishing, e ci sta, si cambia, ne verranno altre e altri.
Ma quella domanda sul filtro (come fa un libro a essere visto fra tanti libri?) che valeva per le autopubblicazioni, oggi vale anche per l’editoria tradizionale, a parte un numero ristretto di casi.
Mi sfilano sotto gli occhi, e per quanto posso li leggo, romanzi belli e importanti che però svaniscono in un soffio fra altri romanzi ugualmente belli e importanti. E, no, non credo all’idea che pubblicare meno significhi soffocare l’editoria. Perché se un editore pubblica, che so, dieci romanzi in un mese ma riesce a spingerne uno solo, sono gli altri nove a soffocare.
Non ho risposte, solo domande, e ne verranno altre.