L'EDUCAZIONE FALLIMENTARE

Sabato, sull’inserto culturale di Repubblica, c’era un bell’articolo di Giorgio Falco. Nell’ambito di un tema condiviso –  in sintesi, la ricerca ossessiva di visibilità – Falco proponeva un corso di fallimento:
“Se dovessi programmare un corso di qualsiasi cosa, metterei nel programma la sezione intitolata: Sistematizzare la naturale propensione al fallimento. Se per esempio vuoi iscriverti a un corso di scrittura, partecipa a un corso base di francese per principianti, uno di quei corsi comunali serali, frequentati soprattutto da donne e uomini tra i quaranta e i cinquant’anni, che sono lì alla ricerca di un risarcimento esistenziale per i torti subiti: un matrimonio finito, un padre leggendario appena morto, il senso di imbarazzo provato l’estate precedente, durante una settimana a Parigi. Queste cose accadono anche in un corso di scrittura, ma se vuoi proprio scrivere, ad esempio, mi pare sempre perfetto l’insegnamento di un grande autore a proposito della formazione di uno scrittore: prima perdi tempo, fai altro”.
Fai altro, non concentrarti su te stesso. Giustissimo.  Sempre sabato, nella mia rubrica, ho segnalato un’iniziativa interessante: il Gioco dell’Oca. L’invito parte dallo scrittore Francesco Dimitri, che ha ideato un gioco di narrazione online sul sito Perfiducia 2.0 (un progetto di Banca Intesa già sperimentato in ambito cinematografico con i cortometraggi di Olmi, Salvatores e Sorrentino e di tre giovani registi).
In questo caso si gioca con i testi: ogni iscritto crea un personaggio (l’Eroe), a cui assegna tre caratteristiche. A giorni alterni, Mamma Oca scopre una carta che suggerisce spunti narrativi (un contrattempo, un attacco, un amico) e il “cantastorie” risponde in 420 battute che vanno a costituire uno dei capitoli della storia. Alla fine del gioco, le tre storie giudicate meritevoli diventeranno un cortometraggio.
Qual è il punto? E’ che, come avvenuto in altri concorsi letterari su web, esiste un gruppo che scatena tutte le proprie conoscenze per farsi votare a prescindere. Il che significa almeno due cose: non avere fiducia nella propria storia ed essere convinti che soltanto con i trucchetti si possa arrivare a guadagnare il posticino al sole. Dal blog dell’Oca estrapolo questo commento, di Tyler Durden:
“Molti di voi danno per scontato che quelli che usano la “tattica” di aggiungere più persone possibili siano degli autori scarsi. Ne siete proprio sicuri? Magari lo fanno perchè sono stanchi di non essere presi in considerazione e vogliono far leggere la propria storia a più persone possibili. Non credete? E’ un modo di “urlare” la propria storia per farsi sentire il più lontano possibile! Se tutti i grandi autori della storia si fossero rintanati in casa loro tenendo le proprie opere nel cassetto a far polvere sarebbero arrivati dove sono arrivati? Se tutti i grandi registi della storia non avessero sbattuto la testa contro mille produttori che non volevano produrli, prima di trovare quello giusto, sarebbero arrivati dove sono arrivati?”
E’ indicativo, mi pare: nessun dubbio sulla propria grandezza, la pretesa di esserci a tutti i costi. E’ stato sempre così? Forse, ma non in questi termini: l’idea che ognuno esiga il successo purchè sia è comunque la conseguenza di una “gelatina” mediatica di cui, fin qui, non ci siamo resi conto, o non abbastanza. Nei fatti, non mi sembra di incontrare frequentemente persone, in ogni settore, in grado di accettare anche una piccola o piccolissima sconfitta.
Ps. A dispetto di tutto questo, il Gioco dell’Oca è un’iniziativa che trovo di grande interesse, e auguro in bocca al lupo a Mother Goose.

10 pensieri su “L'EDUCAZIONE FALLIMENTARE

  1. Quello dell’accettazione della sconfitta lo riconosco in considerazioni che mi vado facendo da un po’ di tempo. Diciamo che abbiamo assimilato vittorie e sconfitte a un modello secondo il quale se le cose vanno male un po’è colpa tua che non ti sei sbattuto abbastanza. abbiamo proprio buttato a mare il concetto di provvidenza, ecco, la provvidenza ce la facciamo da soli. e allora vale pure barare e se non lo fai sei al meglio uno sprovveduto.
    Comunque vado subito a vedere cosa succede sul gioco dell’Oca.

  2. Magnifico post! Tutto questo mi fa venire in mente il televoto di San Remo…
    E un altro gioco di Narrazione, il Barone di Munchhausen, Francesco lo conosce di sicuro, e che risolve in modo raffinato il problema del “votatemi”… ma in quel caso, si gioca in un circolo chiuso e non in una logica aperta di web 2.0.

  3. Post molto interessante! Che poi le idee di sconfitta e fallimento in realtà, invece di suonare come sentenze di morte, potrebbero aprire le porte della riflessione, del confronto, e addirittura creare nuove possibilità… Insomma, ‘lavorarci sopra’ per capire.
    Pure l’ingiustizia è un brutto affare – se la visibilità a tutti i costi è il traguardo, è un po’ come se per avere i soldi che noi riteniamo giusto ci spettino, ci mettessimo tutti a rapinare banche – senz’altro un metodo efficace! L’ingiustizia, là dove c’è, non dovrebbe generare una sana lotta per contrastarla, chessò, nuove proposte, nuovi modelli?
    Penso che la frustrazione generale stia contribuendo ad una paralisi totale di tutto ciò che è ‘altro’, non si riesce a fare altro, non si riesce a pensare ad altro, se non ai modelli imposti, ma meno male che se ne parla :-))

  4. Eppure, secondo me, la scuola, ogni scuola, pure quelle che forniscono pacchetti di tecniche per sfornare un prodotto di successo, dovrebbero fornire pure quella capacità di riflessione sugli insuccessi che inevitabilmente fanno parte di tutti i processi formativi e della vita stessa. Quell’attitudine a ‘lavorarci sopra’ di cui parla Paola.
    Solo che la parola insuccesso e sconfitta è diventata una brutta parola, e l’invito a rifletterci sopra è qualcosa che viene vista parecchio male.
    Perché si critica un libro di successo? Per invidia, ovviamente. Perché alcuni intellettuali si sono soffermati sui mali della società? Perché portano sfiga, chiaro. Perché un urbanista si permette di ficcare il naso nel piano case di Bertolaso? Perché vuole fare della sterile accademia, evidente. Perché si muovono obiezioni alla ricostruzione in Abruzzo? Per delegittimare il governo, straevidente.
    Insomma, il successo va perseguito e basta. La qualità è materia di riflessione per gli sfigati.

  5. Per esempio, su cose come ‘il fine giustifica i mezzi’ ( o i mezzucci) qualcuno ci ha già lavorato (Wu Ming in Altai…) e si scopre che in realtà i mezzi possono anche cambiare il fine…
    E’ vero, quoto Valeria, ogni scuola dovrebbe anche fornire la ‘capacità di riflessione sugli insuccessi che inevitabilmente fanno parte di tutti i processi formativi e della vita stessa’.

  6. Si ma c’è anche un pernicioso cortocircuito, l’alibi fornito dai funzionamenti dell’industria culturale – ma volendo dell’industria tutta, della famosa “azienda Italia.” La convinzione che a tutti i livelli dar sette e mezzo a scuola fino all’assunzione per un posto di bidello, avanti fino alla pubblicazione di qualcosa e via così per gli appalti per i concorsi per le commissioni – il merito non ci entra mai. E cavolo in tanti campi – questo è vero! I meccanismi di cooptazione prescindono dalle competenze e funzionano in termini di conservazione del potere. Allora succede che quando viene trobato uno che è una sega – eh beh, quello mica se ne accorge: le dinamiche contestuali gli impediscono di prendersi sul serio, di farsi due quiz. Questo stesso humous mentale – una specie di retrovia del pensiero costantemente presente in tutte le azioni quotidiane – fa si che anche in un giocarello innoquo anzichè stare a pensare a fare le cose bene, si cerchino le strategie secondarie, che con il fare bene niente hanno a che fare.

  7. Io mi beccai un rimprovero grosso così quando la mia professoressa di italiano alle superiori citò il “volli, fortissimamente volli” e non potei fare a meno di sussurrare “… e purtroppo ci riuscì”
    A distanza di tanti anni… ora che ci ripenso, avevo ragione io. 😉

  8. Sì, giusto anche questo Zaub, ma quando si parla di menti in formazione, di iniziative che vorrebbero incoraggiare e valorizzare, si può ben far leva su una alternativa ai modelli del funzionamento deprimente dell’azienda italia. Non si tratta di dire che una cosa è sbagliata punto e basta, si devono cercare e spiegare le ragioni del perchè fare le cose bene, le vie di fuga dal concetto stesso di fallimento (ma esiste il fallimento?), insomma, mettere in dubbio il fine ottenuto con quelle che dici le strategie secondarie. O non si può più?

  9. “Qual è il punto? E’ che, come avvenuto in altri concorsi letterari su web, esiste un gruppo che scatena tutte le proprie conoscenze per farsi votare a prescindere. Il che significa almeno due cose: non avere fiducia nella propria storia ed essere convinti che soltanto con i trucchetti si possa arrivare a guadagnare il posticino al sole.”
    Eppure, come di regola per il ‘popolo del web’ italiano si fa finta di credere (o peggio, si crede veramente) che tutto questo sia ‘tipicamente italiano’, un Italia da cui, chiaramente, ci si autoesclude.
    Il diritto al successo e l’incapacità di accettare il fallimento o anche solo l’anonimato non sono tipicamente italiani, sono universali e così pure i mezzucci per emergere.
    Quello che non si vuole riconoscere è la nuova dimensione che Internet da a problemi antichi e non lo si vuole riconoscere perchè non si vogliono abbandonare la bella favola della Rete liberatoria. Si immagina che gli editori non siano un tramite ma un ostacolo: la Rete ci permette di aggirare questo ostacolo e di comunicare direttamente con sei miliardi o almeno sessanta milioni di persone. La parola magica: DISINTERMEDIAZIONE.
    Poi si scopre che siamo troppi e che la selezione è ancor più impietosa: semplicemente non c’è abbastanza attenzione per tutti. E allora, invece di ammettere che il piano era difettoso e le speranze malriposte, si ricorre ai mezzucci, come concorrenti di un reality show che mobilitano parenti e amici per ‘vincere’ e alla fine si ritrovano a fare gli opinionisti con Barbara d’Urso…
    Del resto, in una cultura di massa per la quale le gerarchie culturali vengono artificialmente tenute in vita perchè sia possibile scavalcarle in nome del ‘genio’ e della volontà del pubblico (che si immaginano coincidenti) è più che normale autodefinirsi genii e studiarle tutte per far giungere il nostro messaggio a quanta più gente possibile, un messaggio, fra l’altro, da ‘urlare’…

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