Nelle prime pagine de “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood , Difred sbircia nello specchio del corridoio, si vede riflessa:
“Se giro la testa, così che le bianche alette che m’incorniciano il volto dirigano il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l’occhio di un pesce, e con dentro me, un’ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata nel sangue”.
Un momento di noncuranza identica al pericolo. Frase perfetta. E’ esattamente quello che stiamo attraversando, con la differenza che davanti allo specchio noi ci fermiamo, ne siamo anzi ipnotizzati, e a forza di concentrarci sulla nostra immagine non riusciamo a vedere altro.
Non riusciamo a parlare. 
Non di Alfredo Cospito, non delle ragazze iraniane avvelenate, non di tutte le emergenze di cui vorremmo parlare.E’ che ci si sente circondati dal dolore e infine ci si arrende e ci si rannicchia nell’impotenza. E forse è quel momento di noncuranza identica al pericolo, quello in cui ci siamo soffermati a sbirciare lo specchio, che ci ha incatenato, da molti anni, che ci ha immobilizzato sulle scale, fermi a osservare la nostra immagine, e adesso ricominciare il cammino è più difficile.
(Non impossibile, però)