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E’ un lunedì diverso dal solito, perché arriva dopo giornate a loro volta molto diverse dal solito. Da cui, qui, traggo una considerazione che è nei fatti una domanda: come reagisce il mondo della cultura e soprattutto della letteratura a quanto sta avvenendo? 
Intendiamoci, le adesioni individuali a quello che è un inizio di (movimento? ecologia?), ci sono eccome. Ci sono da parte di scrittrici e scrittori, e anche di librerie. Ma come altro si interviene? Con i libri? Con i discorsi pubblici? Con quali azioni?
Lascio nell’aria le domande e vi invito a leggere l’articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto. Articolo importante, uscito lo scorso 2 ottobre,  dal titolo “Librerie e centri di militanza quotidiana”, che mostra come sia possibile percorrere altre strade.
Carbone riporta stralci di un’intervista rilasciata da una libraia, Mathilde Charrier, nella sua veste di coordinatrice dell’Association pour l’écologie du livre.
Vi consiglio di leggerla tutta: perché rende giustizia a tutte e tutti coloro che sostengono da anni che la sovrapproduzione di titoli è dannosa per ogni frammento del sistema editoriale, che, come dice Charrier, è “basato fin dagli anni ’80 su una crescita irragionevole della produzione”:
“Oggi, in Francia, durante l’anno, vengono pubblicati in media trecento nuovi libri al giorno, in tutti i settori editoriali. Dal punto di vista ecologico, questa produzione non ha senso, poiché tutti i libri invenduti finiranno, nella migliore delle ipotesi, in magazzino, ma più spesso al macero L’attenzione rivolta alle uscite letterarie di settembre e gennaio corrisponde, a nostro avviso, a un tentativo di svendere una produzione eccessivamente ampia”.
Quest’anno è stata lanciata una tregua sulle nuove uscite, e ha funzionato.
Quel che possiamo dedurre è che un altro mondo editoriale è possibile, che fare rete non è un’utopia e che non dobbiamo in alcun modo ritenere che il predominio dei filoni, delle ripetizioni e dell’imperativo dei grandi numeri sia inamovibile. Ovviamente, con tutto il rispetto e anche il piacere nel leggere libri più lievi: ma senza uccidere in culla tutto il resto, che si chiama bibliodiversità.
Pensiamoci su.

A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del  rapporto intitolato Structurally F*cked . Vi si legge fra l’altro che la proporzione di lavoratori culturali che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà.
Mi torna in mente la lectio sul giornalismo culturale che Nicola Lagioia tenne quasi un anno dopo la morte di Alessandro Leogrande: “Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto?”
Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.

DA LEGGERE, SE VOLETE

Molto difficile dire qualcosa di sensato in queste circostanze. Mi limito a fornire qualche link. Vittorio Zambardino, sulla reazione della rete. Leggere anche il post di Gianluca Neri di ieri. Nonchè l’invito delle Sorelle d’Italia. Nonchè la rabbia di Alessandra…

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