LAVORATORI CULTURALI: IL FESTIVAL DI LETTERATURA WORKING CLASS E IL RAPPORTO INGLESE

A proposito di lavoro culturale. C’è un aspetto che si associa immediatamente a queste due parole ed è quello della sopravvivenza dei lavoratori della cultura. Dal momento che si avvicina il primo Festival italiano di letteratura working class (che si deve ad Alberto Prunetti e ad Alegre), e
sollecitata da un articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto, vado a leggere un articolo sul Guardian di Ben Quinn, che a sua volta riporta i dati del  rapporto intitolato Structurally F*cked .

Vi si dice fra l’altro che per un lavoro culturale la retribuzione media per un’ora di lavoro è di 2,60 sterline l’ora, contro le 9.50 di salario minimo del Regno Unito. Vi si dice anche che un numero gigantesco di artisti, specie se provenienti da contesti meno privilegiati, devono moltiplicare gli impegni per far fronte alla scarsità di finanziamenti che vengono dal settore pubblico. Alcuni hanno raccontato di aver deciso di abbandonare completamente il mondo culturale per tutelare la propria salute mentale oltre che la sicurezza economica.
La scrittrice femminista Lola Olufemi scrive che il mondo delle arti (tutte) mantiene la propria aura di prestigio “attraverso l’esclusione permanente dei poveri” e l’idea che scrivere o realizzare un quadro o una scultura o altro sia puro amore, e l’amore non chiede compensi, e se per caso lo rivendichi sei  borghese (ancora!). Di fatto, secondo l’Office for National Statistics la proporzione di attori, musicisti e scrittori che provengono da un contesto operaio si è ridotta della metà: dal 16,4% dei lavoratori culturali nati tra il 1953 e il 1962 ad appena il 7,9% di quelli nati quattro decenni dopo.
Mi ritorna in mente la lectio che Nicola Lagioia fece sul giornalismo culturale. Era l’autunno del 2018. Alessandro Leogrande era morto da neanche un anno. Disse, Lagioia:

“Tutti a lodarlo, ora che è morto. Lui e il suo metodo. Ne ha scritto chiunque, dopo la morte. In Albania gli hanno addirittura intitolato una strada. Tutti a dire che aveva scritto l’agenda politica di oggi con anni di anticipo: i migranti, il mondo lavoro, la crisi delle democrazie liberali, una certa politica, l’auscultazione della pancia del paese… Alessandro Leogrande aveva intercettato tutto con anticipo e in maniera encomiabile. Eppure… non ha mai trovato un quotidiano nazionale che lo ospitasse.

Se era così bravo, così competente, così coraggioso, così in gamba come tutti quanti non smettono di dire, perché i grandi giornali non hanno fatto a cazzotti per accaparrarselo, salvo parlarne in termini di superlativo assoluto e lodarlo solo dopo che era morto? Secondo me non è per stupidità o per cecità o per nonnismo (anche, magari) del giornalismo culturale, ma per debolezza autopercepita. Poiché io giornale tradizionale mi credo talmente debole da non poter imporre una firma che mi sembra meritevole, allora ripiego su chi ha già un nome (vecchi saggi, venerabili maestri, chiamiamoli così), o su chi ha un grande successo commerciale indipendentemente dalla bravura, o su chi è già molto noto per i fatti suoi… e se chi ha un grande successo commerciale si chiama Ciccio Formaggio e non Alessandro Leogrande, io privilegio Ciccio Formaggio.”

Ai mille lavori di Leogrande penso spesso, e penso anche a chi ha oggi la sua età e fa appunto quei mille lavori per tirar fuori uno stipendio, e penso ai dati del Guardian e al fatto che alle parole “ascensore sociale” parecchi farebbero spallucce, qualcuno ti guarderebbe storto e altri non saprebbero neanche cosa è.  Ma c’è la rete, risponderebbe qualcuno. Benissimo: salvo eccezioni,  la rete non paga o paga pochissimo.
E poi c’è un ultimo punto, sollevato proprio da Maria Teresa Carbone. Questo:

“Sarebbe interessante compiere una ricerca simile anche in Italia, estendendola anche ad altri campi, e non limitandosi al settore pubblico. Prendiamo il caso dell’editoria, e circoscriviamo l’osservazione a quel gigantesco marchingegno che sono i festival letterari: anche lasciando da parte il fenomeno del volontariato che, come dice il nome, è volontario (e su cui comunque pesa non poco lavoro), quanto guadagnano le persone coinvolte, e in particolare gli stessi scrittori che in fin dei conti di queste manifestazioni sono o dovrebbero essere il motore? Piccole e grandi soddisfazioni personali, certo, ma – tranne rare eccezioni – cifre minime, tenendo conto del tempo e della fatica, e in molti casi neppure quelle”.

Specie se sei giovane, e se cominci, e non puoi contrattare, la situazione è proprio questa. Non è facile, non è nuova, ma spero che al Festival di Prunetti alcuni di questi punti verranno fuori (ne sono certa, in effetti).

Un pensiero su “LAVORATORI CULTURALI: IL FESTIVAL DI LETTERATURA WORKING CLASS E IL RAPPORTO INGLESE

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto