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Matteo Nucci è uno dei pochi giornalisti e autori che in questi mesi ha scritto di Gaza (ha scritto giusto ieri sul Manifesto un articolo bellissimo, che è qui). Ma non solo: ogni volta, i suoi reportage dalla Grecia negli anni della crisi mi hanno fatto riflettere e imparare.
Bene, arriva a Nucci un provvedimento di censura da parte del consiglio di disciplina dell’ordine dei giornalisti del Lazio. E’ un richiamo formale per non aver seguito i corsi di aggiornamento.
Dal momento che sono una persona curiosa, e non più iscritta all’ordine da una decina d’anni, sono andata a guardarmi i temi dei corsi di formazione del Lazio, che danno diritto ai relativi crediti.
Italo Calvino “talento giornalistico inespresso”; “Roma artista. Come i mass media raccontano la capitale della cultura e i talenti artistici al femminile” (nel XVI secolo); Roma, dai Colonna alla grande bellezza”, Relatore di eccezione leggo, “Enrico Vanzina, regista e scrittore iscritto al nostro ordine. Vanzina ha dato vita a un viaggio attraverso ricordi personali, storie, aneddoti e fatti di cronaca che hanno descritto la Capitale e i romani tra vizi e virtù. A fare da cornice le vicende legate allo storico Palazzo Colonna, narrate dal principe Prospero Colonna, gentilissimo padrone di casa di un palazzo che ha segnato la storia di Roma”.
Credo che chiunque possa imparare molto di più dagli articoli di Nucci che da uno solo di questi corsi obbligatori.
Certo, l’automatismo della sanzione è impeccabile e non contestabile. Ma è contestabile tutto il resto.  Sennò, come avrebbe detto l’amato e indimenticato Attilio Giordano, che lo si fa a fare questo lavoro? 

Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi  vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”.
In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni.
Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.

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