Tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta scrivevo per Il Secolo XIX di Genova: mi occupavo di televisione, seguivo le conferenze stampa, i dietro le quinte, facevo interviste. Era un passo verso il giornalismo, che allora ritenevo fosse quel che mi interessava. Al tempo, dunque, Simonetta Robiony si occupava di televisione per la Stampa, e mi disse una cosa che ancora oggi ricordo: i giornali stanno perdendo le parole. Ne usiamo molte di meno, usiamo sempre le stesse.
Trent’anni dopo, la faccenda peggiora. Faccio un esempio. Ieri ho postato qui, e sui social, l’intervista a Donna Haraway. In una domanda, si parlava di scrittura semasiografica.
C’è un motivo, visto che il riferimento era al film, e al racconto di Ted Chiang, Arrival.
La cosa che mi ha colpito è che un utente di Instagram si è sentito profondamente offeso dalla parola semasiografica. Ha scritto:

“Ma cosa è la scrittura “semasiografica”?! Possibile che non si riesca a mettersi nei panni di chi legge? Mica tutti hanno studiato linguistica, semiologia, glottologia, narratologia etc etc? Ma cosa costa mettere tra parentesi il significato? Cose così mi fanno passare la voglia di leggere: so di essere ignorante ma mi disturba sentirmelo rinfacciare così”.

Ecco, questo è quel che mi colpisce profondamente. L’offesa. Non cogliere l’occasione per fare una velocissima ricerca e imparare una parola nuova, ma rinfacciare la volontà di umiliare a chi la usa. Questa è la gigantesca differenza fra ieri e oggi: non solo l’uso delle parole, ma la mancanza assoluta di curiosità, e anzi il rancore. E’ un’eredità pesantissima, quella che riceviamo dagli ultimi quindici anni almeno: ma bisogna combatterla.