133. STORIE DAI BORGHI. TOMMASO, GRISCIANO E L'ARCHITETTO POLCI.

Wikipedia. “Grisciano è l’ultimo paese dell’alta Sabina, sul confine con le Marche. È sul Tronto a destra, quando questi, lasciando la Sabina, incontra gli opposti sproni improvvisi dei monti Sibillini e volta decisamente al mare. È uno dei 17 paesi del Comune di Accumuli”.
#genzianaproject: “Tommaso prende la vita con il sorriso. Come solo i ragazzi della sua età sanno fare. Vive in quella fantastica fase della crescita dove tutto è possibile. E c’è un desiderio, più degli altri, che gli tiene occupato il cuore. Tommaso ha 10 anni e vuole tornare a Grisciano. Nell’attesa si chiede che fine farà il «suo paesino piccolo». Quello «pieno di cose belle, dove si divertiva con gli amici e poteva andare da solo ovunque o in compagnia di tanti vecchietti simpatici». Tommaso è curioso. E sa che le cose belle non sono un regalo ma vanno conquistate. Per questo ha faticato ore, sotto il sole della Salaria, con il suo cartellone. Tommaso ha solo 10 anni ma ha capito che gli affetti vanno difesi. Che quando soffrono hanno bisogno del tuo aiuto. Che non puoi voltarti dall’altra parte.
Tommaso a Grisciano tornava sempre. Ogni estate. Lì ha i suoi due amici del cuore: Francesco e Davide. Per Tommaso, Grisciano non è solo un paese: è il profumo della libertà, è l’andare da solo ovunque, è la bici e il pallone. Tommaso ha Grisciano nel sangue. Come ce l’ha la sua mamma che lì è nata, cresciuta e vissuta. Tommaso era a Grisciano la notte del 24 agosto. Era lì con il nonno. Le case attorno crollate, polvere ovunque, sassi. Quando è uscito in strada Tommaso ha pensato di essere in un brutto film. Che tutti fossero morti. A lungo ha faticato a ricordare quanto successo. Poi, però, la scintilla è tornata a bruciare. Non c’è voluto molto. «Mamma io non ho paura del terremoto, a Grisciano ci torno anche se devo dormire in una stalla o dentro il fiume, mi manca troppo». Grisciano manca a Tommaso e ai suoi compagni di giochi. Un giorno, mentre fissavano le macerie con il pallone in mano per andare a giocare al “campetto”, si sono guardati fra loro. E come fanno i ragazzini di fronte alle avversità hanno fatto spallucce. «Vabbè – si sono detti – il torrente Chiarino sta sempre qua e il bagno ce lo possiamo fare, il cielo è sempre quello e pure il campetto. Non c’è più casa ma qualche modo si fa».
Tommaso e i suoi compagni di partitella potremmo essere tutti noi. Ed è per i bambini e i ragazzi come Tommaso che non bisogna abbassare la guardia. Che bisogna continuare a protestare, a pretendere risposte concrete, verità, chiarezza. Ad esigere la ricostruzione. Perché se perdiamo i paesi dell’Appennino, vittima della strategia dell’abbandono, perdiamo prima di tutto noi stessi. Perché oggi saranno Illica, Grisciano, Ussita, Muccia e gli altri. Domani potrebbe toccare a ogni piccolo paese d’Italia che è antieconomico sostenere nei suoi servizi. Senza che occorra nemmeno la spinta del terremoto. Poi a noi grandi non resterà che raccontare belle storie. Se non a Tommaso a quelli che un domani saranno i suoi figli. Potremmo raccontargli di quanto era bello giocare a pallone al campetto, andare in bici o tifare per gli anziani che giocavano a carte al “Bar di Peppe”. Questo ci resterà da fare. Lasciarli immaginare quello che abbiamo perso. E poi rimpiangere. Rimpiangere di aver lasciato da soli i popoli dell’Appennino terremotato. Di non esserci schierati con più forza al loro fianco. Di averne ignorato allarmi e appelli. E soprattutto di aver deluso Tommaso. Che avrebbe il diritto di desiderare tutto per la sua vita ma adesso chiede solo di poter tornare a Grisciano”.
Io ho avuto un’infanzia come quella di Tommaso. Mi ha formata ed educata. Ditelo all’architetto Sandro Polci. Quello che sostiene che è inutile ragionare su “macerie rimosse in frazioni centesimali, alloggi temporanei presenti per frazioni centesimali, speranza e forza dei residenti rimaste in frazioni centesimali”. “Tra dieci anni secondo l’aspettativa di vita nei comuni del cratere (oltre 584 mila abitanti) avremo il 15% di morti di vecchiaia e circa il 37% di over 65. Si prospetteranno cioè esigenze funzionali e di servizio diverse, mentre la popolazione giovane avrà maturato abitudini nuove in altri luoghi, che forse difficilmente abbandonerà”.

11 pensieri su “133. STORIE DAI BORGHI. TOMMASO, GRISCIANO E L'ARCHITETTO POLCI.

  1. Gentile Loredana Lipperini,
    le scrivo perchè il virgolettato da lei citato a mio riguardo non mi sembra dare merito del mio reale pensiero. Anche io lamento i tempi inaccettabili – da cui gli “interventi centesimali” – ma, parallelamente, si pone la necessità di un dibattito ampio sulla direzione da intraprendere per uscire dal post-sisma con una visione condivisa e di speranza. Questo è il mio intendimento e, sapendo della sua professionalità e dell’amore per i comuni luoghi, sono certo il suo. Le allego il pensiero completo per una valutazione completa. E’ un estratto dal volume: “I Borghi avvenire, visioni possibili per nuove economie” di Sandro Polci, Il lavoro editoriale, giugno 2017.
    Grazie dell’attenzione e buon cammino
    s.p.
    Quarto work in progress: Quale ricettività per il turismo nelle aree del sisma?
    …ai tanti di buona volontà che vogliono animare le terre della propria storia e autenticità.
    Il turismo dell’ospitalità cordiale e a misura d’uomo dell’Italia centrale in pochi minuti ha visto vacillare e crollare una certezza maturata con impegno e fiducia. Così il recente sisma ha aggravato di almeno 20 anni le patologie analizzate nelle pagine precedenti, che già attanagliavano i piccoli borghi: spopolamento, denatalità, invecchiamento, depauperamento. Ma in tale tendenza, parlando di turismo e di abitazioni destinate alle seconde case, è necessario guardare, con distacco e lucidità, quale policy, ergonomica e di medio periodo, ci vogliamo dare per la ricostruzione, oltre l’ingannevole “dov’era e com’era”. Lo faccio anche riprendendo una riflessione, scritta tempestivamente per “Nuova Ecologia”, che in parte cito perché, per meglio comprendere ho ascoltato una persona degna, Enzo Bianchi, già fondatore e priore della Comunità monastica di Bose: “lo sradicamento dei tanti cittadini coinvolti – lui pensa –, almeno in parte, ormai c’è. È già avvenuto. Ricostruire come prima è difficile”. “È già il momento delle scelte per una vera ricostruzione. Bisogna ricominciare dai legami sociali e dagli affetti. E investire tutto su elementi credibili di futuro che resistano al terremoto e non è possibile una ricostruzione, pietra su pietra, di tutto. Il problema è il tessuto. E cosa fare per chi resta che avrà macerie attorno per 10-15 anni comunque? Parte degli abitanti hanno una certa età” – afferma Bianchi – “e aspettare la ricostruzione può essere molto faticoso”. E ancora: “I nostri governanti devono ascoltare in concerto architetti, sociologi, storici, psicologi che hanno conoscenza e sanno dire la verità e non chiedono ricostruzioni secondo interessi o lobby di parte. Nel frattempo pensiamo alla sofferenza di queste persone sradicate: per chi è sessantenne, fino a 15 anni di ricostruzione è un orizzonte lontano e riprendere un tessuto sociale è molto difficile”. Infine, sempre secondo il priore di Bose, “impariamo due cose dal terremoto: a sentire la responsabilità che abbiamo e a non essere faciloni nel costruire e, per i credenti, che sia una grande lezione. Serve una fede adulta nella quale il terremoto fa parte di questo mondo: un mondo fragile. E noi portiamo la responsabilità di non fare abbastanza per tutelarlo”. Anche da queste parole sagge nasce un sofferto pentalogo che sottopongo umilmente. 1. Non ricostruire tutto “com’era e dov’era” perché è molto difficile a causa di danni irreversibili, quali: – l’intero borgo distrutto; – l’elevato rischio sismico, che può sconsigliare la riedificazione nelle stesse aree rispetto ad altre aree o paesi contigui a minor rischio sismico; – i costi elevati, almeno rispetto al trasferimento in borghi prossimi o la parziale ricostruzione in aree limitrofe non minacciate dal terremoto. 2. “10 o 15 anni per la ricostruzione sono troppi”. È dimostrato che l’orizzonte temporale per ricostruire è almeno di dieci anni (si veda dal Friuli a L’Aquila). Ma tra dieci anni, secondo l’aspettativa di vita nei comuni del cratere, avremo il 15% di morti di vecchiaia e circa il 37% di ultrasessantacinquenni. Saranno cioè molto diverse le esigenze funzionali e di servizio, mentre la popolazione giovane avrà maturato nuove abitudini in altri luoghi che forse difficilmente abbandoneranno, per tornare dopo troppo tempo negli antichi luoghi (comunque diversi). 3. Dobbiamo investire tutto, generosamente e convintamente, su elementi credibili di futuro come i nuclei familiari che restano realmente nel territorio o vogliono venire a insediarsi (per periodi vincolanti), i nuclei o le imprese con piani di sviluppo credibili (agricoli, turistici, manifatturieri, start up) e i centri di eccellenza, a iniziare dai poli universitari, che creano gli enzimi della crescita. 4. Dobbiamo finanziare la ricostruzione dei nostri simboli culturali, sociali e religiosi e ben riflettere sulle seconde case, perché chi oggi le frequenta, lo fa, in molti casi, per legame con anziani e luoghi di infanzia: condizioni queste difficilmente in essere tra 10/15 anni. L’ipotesi è dunque di non investire per restaurare abitazioni dove si va sempre meno, sempre in meno persone e a fare le stesse cose. Non si generano così quelle economie turistiche virtuose ed evolute che daranno futuro ai luoghi amati. Perseguiamo principalmente la rinascita di edifici, beni culturali e parti di borgo significativi con costi ragionevoli. 5. Infine, una precondizione e tre scenari. La ricostruzione di ciò che ha alto significato culturale, sociale e religioso deve essere filologica fin dove possibile o, altrimenti, in “anastilosi”, dov’era e con gli stessi materiali originali. I materiali e le tecniche più naturali e ragionevoli, per il resto, saranno il legno e il contenimento massimo dei consumi energetici in ambiente off grid, secondo le logiche dell’economia circolare. Con tale presupposto avremo tre scenari principali di comportamento responsabile: • l’abbandono del centro se rovinosamente distrutto e il restauro limitato ad alcuni suoi “monumenti/documenti” di alto significato; • il restauro di parti ragionevolmente ampie del borgo, anche con l’eventuale trasferimento di residenti sfollati nella parte restaurata o in nuove aree attigue o anche eventualmente in borghi prossimi non colpiti dal sisma; • il restauro dell’intero borgo, se non troppo compromesso, con le tecnologie e gli accorgimenti ecosostenibili già indicati. Credo che dobbiamo elaborare il trauma rafforzando innanzitutto i legami sociali e gli affetti, non delegando il significato finale della nostra vita al ripristino di quella pietra e quel trave, perché sarebbe inutile restaurare un antico libro che nessuno sa o vuole più leggere. Dobbiamo invece cogliere dalla disgrazia la forza appenninica di ben spendere la risorsa per limitare il declino in atto dei nostri monti e delle nostre colline. A distanza di mesi trovo queste riflessioni di scenario forse ancora utili, considerando l’attuale stato dell’arte: poche analisi stretegiche di nuove policy per i territori immensi coinvolti, macerie rimosse per frazioni centesimali, alloggi temporanei presenti per frazioni centesimali, speranza e forza dei residenti rimaste in frazioni centesimali. Proviamo allora ad approfondire l’aspetto turistico, in questa sede affrontato e una più approfondita riflessione sulle “seconde case”, braccio considerato dai più decisivo per il turismo appenninico. Secondo una stima attenta abbiamo quantificato le abitazioni coinvolte nel «cratere» in 326.768. Le «Seconde case» sono stimate in 82.284 mentre quelle a fini turistici sono circa 41 mila unità. Le seconde case («sempre lì; sempre per meno tempo, soprattutto quando i figli crescono, quando si invecchia e i nonni residenti muoiono…») non sono automaticamente il modo più efficiente di pensare il turismo. Naturalmente andranno consolidate quelle che vivono in simbiosi statica con le abitazioni dei residenti, ma ora soffermiamoci sulle altre. Poniamo che in media abbiano 3 stanze e 5 letti ognuna e vengano gestite come strutture ricettive turistiche con una ricettività, nella media dei comuni italiani con meno di 5 mila abitanti. Significherebbero almeno 10 milioni di notti/anno: un bel capitale di potenziale sviluppo turistico d’impresa – partecipata e condivisa. E dunque nuove imprese, acculturate e giovani, capaci di futuro. Già futuro, la parola che il nostro “presentismo” sembra aver rimosso dal vocabolario quotidiano!
    Come si scriveva poco sopra, inoltre, per una ponderata decisione si valuti che tra 10 anni, tempo medio per la ricostruzione e l’“attecchimento sociale”, nei 140 comuni del cratere – dove sono stimati 584.727 abitanti – avremo: il 15% di morti della popolazione attuale e il 37% della popolazione restante con oltre 65 anni. Popolazione, va ricordato, che nel 2227 sarà il -23% dell’attuale se non intervengono fatti nuovi). Una cornice davvero critica per un turismo familiare delle seconde case! Senza voler imporre insegnamenti, il richiamo è umile ma forte e chiaro: oltre il sisma, dopo il dramma, serve una nuova vision per l’offerta turistica: qualificata, flessibile, condivisa. Oggi «Albergo diffuso», domani «Albergo soffuso» (residenza turistica diffusa, tourist cohousing, nuove modalità airbnb, ecc.). Leghiamo cioè la funzione ricettiva alla rete qualitativa dell’offerta culturale, sociale, agroalimentare con lavori che hanno bisogno di giovani qualificati per «condividere cittadinanza». L’alternativa è lo spreco, almeno parziale di restauri per abitazioni, destinate a restare vuote, presto aggredite da erbacce e umidità perché poco utilizzate e mantenute con eccessiva parsimonia: tali da non essere di eccellenza per turisti sempre più esigenti. Continuo, personalmente, a conservare come monito, le parole indelebili di Mario Rigoni Stern: “Oggi è amara la montagna. Pochi gli alpeggi per le vacche, pochi i pascoli per ovini; pochi i boschi curati, pochi i luoghi di “cura e soggiorno” come si diceva un tempo, dove esiste una villeggiatura che possa dar vita e possibilità di sviluppo. La gente va via dalle montagne e da dove va difficilmente ritorna. È amara la montagna, più di sempre. Silenziosa e triste. Contrade senza bambini, vecchie case vuote e villini chiusi; prati inselvatichiti che non vengono più falciati. (…) La montagna regola la pianura, dice un vecchio proverbio, ma se viene abbandonata a soffrirne saranno tutti”.

  2. prima regola: le risorse sono limitate e se sono investite in una direzione non aiutano l’altra.
    andando verso montelago non le sfuggiranno le case – seconde, terze o mai abitate – con fili d’erba tra le mattonelle, mai tolti perchè mai abitate, mentre non si trovano risorse per atti essenziali come il silver cohousing, la condivisione o le imprese per new agricolture. volentieri ne parlo con lei ma valuti la mia idea: è inutile restaurare un antico testo che nessuno saprà più leggere (salvo il monumento/documento – voce enciclopedia einaudi – che testimonia un’epoca a me, peraltro, assai assai cara.
    grazie,s.p.

  3. Egregio arch. Polci, ho letto con attenzione il brano del suo saggio postato poco sopra e, pur concordando con le necessità di uno sviluppo economico, magari basato anche sul turismo, dissento totalmente dalla restante analisi riguardante i “borghi centesimali”, a parte i freddi e incontestabili dati statistici, perchè esisteranno certamente case “con fili d’erba tra i mattoni”, ma esistono altrettante (se non in numero superiore) realtà in cui le “seconde case” vengono vissute e non abbandonate, in cui ci si ritrova in diverse occasioni durante l’anno e si hanno rapporti ultraventennali sia con gli altri abitanti delle “seconde case”, sia con i pochi residenti. Quelle “seconde case” parlano di affetti, di tradizioni, di rapporti, di comunità e di stili di vita cui tornare con attesa e amore, perchè diversi da quelli cittadini e fondanti per educazione e morale (anche per le generazioni future dei nostri figli e nipoti), con caratteristiche che non possono andare perdute con i mattoni delle case che, nella sua ipotesi, non dovrebbero essere ricostruite. Io mi chiederei perchè finora i paesi sono stati abbandonati dai possibili residenti e credo che non si tratti di motivi che troverebbero soluzione soltanto con un una vision locale, molto orientata al turismo, ma con politiche nazionali volte a valorizzare ciò che questi luoghi possono offrire riguardo ad allevamento, agricoltura, prodotti e valori locali, ecc…. Esattamente ciò che non si è fatto neppure dopo il terremoto, non proteggendo gli animali degli allevamenti e non mettendo i produttori, i negozianti e gli operatori economici in condizioni di riprendere a lavorare se non, nella maggior parte dei casi, grazie alle loro stesse iniziative, laddove le risorse economiche personali o aziendali lo consentissero. Nel suo testo non ho trovato alcun accenno a nuovi metodi costruttivi per “adattarsi” al terremoto: il Giappone non è stato delocalizzato in toto, mi sembra. Non entro nel merito di quanto comporterebbe in ambito sociale e psicologico la mancata ricostruzione di interi borghi centesimali (o buona parte di essi) per non dilungarmi troppo, ma, ribadisco, che non si tratta di voler conservare un trave o un soffitto, ma ben altro: le proprie radici, i propri affetti, ciò che attiene all’interiorità e che, capisco, non si può quantificare con parametri economico-finanziari, così come non lo si può fare per un “libro che nessuno sa o vuole più leggere” senza capire il valore intrinseco di un libro (anche se non è un libro-monumento) anche perchè nessuno può conoscere il futuro e i cambiamenti (anche tecnologici) che esso ci riserva. Valgano come monito ed esempio, riguardo ai “borghi centesimali” da non ricostruire, con buona pace delle comunità che li abitano/frequentano, due fatti. Una signora di 94 anni che da maggio è tornata a vivere, da sola, nel nostro borgo quasi completamente distrutto, accettando i disagi di un container di sua proprietà (acquistato dopo il terremoto del ’97) posto all’inizio del paese davanti alla sua casa inagibile, pur di riannodare rapporti con quei pochi rimasti e vivere nei suoi luoghi. Una comunità, di abitanti di seconde case, dello stesso paese, che non avendo più le case, si riunirà lo stesso il 15 agosto, per il pranzo comunitario che tradizionalmente veniva sempre organizzato, e che, non potendo farlo neppure presso i giardini, pranzerà nelle vicinanze, ma lì, proprio lì, perchè a quel posto e non ad altri è legata, organizzerà almemo l’aperitivo. Questo non risponderà ai criteri (suoi e di altri) di economicità della ricostruzione, ma racconta tanto altro ed ha un valore inestimabile quanto, forse, poco comprensibile ai più.

  4. Gentile architetto, salendo verso Montelago, passando sulla vecchia 77, sicuramente dopo il bivio Muccia/Camerino, sulla sinistra non le sfuggiranno quelle decine di roulotte e camper bianchi, in queste settimane molto surriscaldati, in cui da oltre 10 mesi resistono quelli che hanno rifiutato di essere deportati al mare. Non ci sono facinorosi ed estremisti antagonisti, stia tranquillo, ci sono famiglie normali; c’è anche una ultranovantenne che sta in sedia a rotelle, e che da quasi un anno sta allogggiata nelle baracche/container dismesse dagli operai della Quadrilatero, con bagni in Comune. Facciamo una cosa, architetto, andiamo insieme a parlare con queste persone, lì nella roulottopoli, e provi a convincerle della bontà della pista ciclabile, la “Quadriciclo”, finanziata per una buona tratta con gli sms solidali (a cui lei “ha dato il suo contributo al progetto” e dalla conseguente realizzazione immagino che anche lei riceverà un giusto e legittimo contributo). Poi gli spieghi anche la visione che ha di Appennino che c’è nel suo libro. Se li convince, le offro volentieri un caffè al bar/container lì al campo (di più non posso permettermi).

  5. …stavo rispondendo a Laura ma, dopo le parole di Saverio è meglio iniziare da lui.
    “Quadrciclo” è una mia idea ben antecedente al sisma, per denunciare l’eclissi di tante nostre aree interne con l’apertura della 4 corsie. E’ necessario inventare un futuro nuovo e vorrei contribuire perchè, probabilmente come lei, in quelle aree sono nato e provo a dare quel che so (fare).
    Quella mia provocazione di scala territoriale visse la breve attenzione di un momento. Per sua informazione, PER QUELLA MIA PROPOSTA NULLA CHIESI E NULLA HO RICEVUTO, NE’ ALLORA NE’ MAI in forma di incarichi, risorse o altro. Semplicemente, ero affascinato da un disegno di sistema che, dati ed esperienze alla mano, reputo convincente e valido per ripartire in maniera sensata dopo l’eclissi prodotta dalla Quadrilatero: da qui la provocazione del nome “Quadriciclo” che avrei poi pensato di trasformare in amore culturale (“quadro” quale pittura) e “ciclo” per una fruizione ecosostenibile (cioè, dato che sono un pellegrino, anche pedonale). OGGI HO LETTO UN TITOLO SULLA STAMPA NAZIONALE DI FINANZIAMENTI E DI PROGETTI. NON NE SO NULLA E NON MI RIGUARDANO. E PER CHIAREZZA, SONO PERALTRO D’ACCORDO CON LEI CHE LE RISORSE SMS NON E’ OPPORTUNO VADANO SPESE PER LA CICLABILE. E il suo caffè lo gradirei, visto che passo spesso…
    Ed ora la cortese Laura. Per dirle la mia adesione alla tragedia, le preciso che abbiamo dovuto trasferire mio zio di 86 anni per casa inagibile e sono crollati gli annessi agricoli; l’altra zia non vuole stare sola la notta e quella che sembrava una rocca inespugnabile è oggi pura fragilità. Ciononostante, come ogni anno sarò al festival di Smerillo con una cosa breve, sarò a Montelago Celtic Festival per il “Manifesto del Cammino” e il 4 agosto, appuntamento immancabile – sarà il “Compleanno di contrada” a Penna San Giovanni, con una decina di persone dagli 11 ai 93 anni, festeggiando anche il 50° anno di Sacerdozio del Parroco e infine metteremo la restaurata statua di gesso di Sant’Antonio di Padova nella cappellina, dove sempre era stata fin dal viaggio di nozze a Padova dei miei nonni. E’ un oggetto senza fattura artistica ma è il nostro riferimento, soprattutto oggi. Le dico ciò, non per compiacerla ma per mostrarle che probabilmente parliamo la stessa lingua…
    Riguardo al nuovo disegno dei territori post sisma, sono pronto a ricredermi su tutto ma non fraintenda: quando parlo di “borghi centesimali” intendo quelle frazioni abitate prima del terremoto da 1 o 2 famiglie che già si lamentavano (giustamente) per solitudine e mancanza di servizi. Valutare, soprattutto per motivi di sicurezza statica, l’ipotesi di una condivisione abitativa (piena autonomia residenziale ma assistita, intendo – silver cohousing per i più maturi) significa mantenere gli stessi paesaggi naturali e umani, combattere una solitudine esacerbante e rendere possibile un disegno di nuova crescita. L’alternativa è l’autosufficienza totale o l’ospedalizzazione/ricovero al primo cenno di problema: ma questo si che è un trauma! Naturalmente non dispenso certezze, però propongo, in piena coscienza, le mie considerazioni frutto di studi, progetti e realizzazioni in tante realtà (anche di terremoto, dal Friuli all’Irpinia ai “nostri”). Con l’augurio di un incontro aperto per poter studiare insieme la fondatezza del mio breviario, la saluto con una frase a me cara: “il nostro meglio basterà”.
    sandro p.

    1. Architetto Polci, ma lei si rende conto, spero, quanto questo discorso, in un momento in cui si vuole spopolare, in un momento in cui le persone sono ancora deportate sulle coste e invitate ad andarsene, sia fraintendibile?

  6. Architetto, non metto in dubbio, anzi, l’utilità del silver cohousing. Quello che ho contestato nella gran parte del mio precedente post è l’ipotesi della delocalizzazione e della mancata ricostruzione dei borghi centesimali che, purtroppo, vanno nella direzione dello spopolamento voluto (visti i provvedimenti presi o mancati nei decenni scorsi e visti i vergognosi ritardi attuali) dalle autorità costituite a favore, evidentemente, di un altro modelllo di sviluppo, forse destinato ai soli fruitori degli eliporti. Chissà perchè in questi giorni mi torna in mente Santo Stefano di Sessanio …..

    1. Non so lei. In questa sede se ne parla da fine ottobre. E, ecco, si dà spazio alle voci di chi in quei borghi centesimali o millesimali che dir si voglia, ci vive e vuole viverci.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto