3. CRONACHE DA LAMPEDUSA: PANE E ROSE, SCARPE E AMORINI

Agenda Snam del 1980. Libretto di assegni. Schedine totocalcio. Libri (romanzi di Carlo Cassola e Alberto Bevilacqua, la biografia di Enzo Ferrari scritta da Enzo Biagi, un manuale di saldatura). Crema da barba Palmolive. Deodorante Breeze. Sapone neutro Roberts. Crema Nivea. Biancheria Primizia. Una sveglia da viaggio. Spray per l’alito e per il naso. Un sandalo da donna, deformato. Cottonfioc. Portacipria.
Gli oggetti dei passeggeri del Dc9 abbattuto a Ustica sono conservati in nove casse nere al Museo per la Memoria.
Gli oggetti parlano. Gli oggetti, dicono le donne e gli uomini di Askavusa “trattengono e rilasciano energia”.  Porto M non è un museo della memoria. Non ci sono casse nere. Tu entri, nei locali che danno sul mare, percorrendo vicoli e scendendo scalini, e inizialmente sbagli, perché sei pur sempre una straniera, e pur sempre ti porti dietro la schizofrenica mentalità della viaggiatrice, che in parte osserva e in parte mantiene e alimenta la postura della turista, quella che si siede ai tavolini e chiede una granita di gelsi e mandorla, perché no? E dunque entri, alzi gli occhi alla parete e dici: oh, guarda, vendono vestiti.
Poi vedi che il primo vestito sulla sinistra, quello azzurro con dolci venature di bianco ha uno, due, molti buchi e strappi, e che quei buchi e strappi non sono la malintesa estetica di uno stilista, ma sono, forse – perché non puoi saperlo – l’effetto di un impiglio, nel senso di un impaccio davvero, di un tragico impaccio. Dove? Sullo scafo? Nel trasbordo? Su uno scoglio? Sono, l’abito azzurro e quello a fiori e quello nero, e la maglietta e i jeans, gli abiti dei migranti. Quelle appese all’ingresso, sopra le nostre teste, sono le loro scarpe: da ginnastica, sandali, basse da donna. Sugli scaffali ci sono i loro oggetti: bottiglie, boccette, barattoli che sembrano di conserva. Ci sono le bottiglie di plastica. I giubbotti di salvataggio. I libri. La Bibbia, il Corano, altro. Sono gonfi d’acqua.
Questo non è un museo.
Racconta qui Giacomo Sferlazzo che nel 2005, anno di nascita del collettivo Askavusa, trovò per la prima volta alcuni oggetti. Altri ne avrebbero poi trovati nelle discariche e sulle spiagge. Il post è lungo, duro, va letto integralmente.
Tu, straniera che sei, non puoi che entrare e guardare e provare a ridire. Non è un museo, non può esserlo, e non è esattamente memoria, perché Ustica, per esempio, è accaduta, anche se ancora tutto quanto resta irrisolto pulsa come un cuore nero e irradia oscurità nella nostra storia presente. Qui tutto sta ancora accadendo, e visitare Porto M, e parlare con le donne e gli uomini di Askavusa semina dubbi, aumenta i dubbi, ti pone davanti a quello specchio che hai già nominato e ti fa chiedere: cosa faccio qui, e perché, e come potrò dirlo e quale verità dirò?
Una delle molte possibili, per forza, o dovresti smettere di parlare e scrivere.
Ti diranno, a Porto M, quello che senti ripetere ogni giorno: non c’è nessun eroe a Lampedusa, non siamo diversi. Abbiamo solo visto di più. Ti dicono che nell’hotspot se non accetti di rilasciare le impronte digitali ti fanno stare isolato, non ti fanno giocare a pallone, ti lanciano i piatti con il cibo.Ti dicono che nell’isola le scuole non hanno l’agibilità. Che il motto è io fingo di non vedere e tu non vedi me. Ti dicono che non c’è volontà di cambiare le cose perché esiste e si afferma e cresce un’economia dell’emergenza perpetua, e dunque come vivi se i poliziotti non affittano le case o le stanze degli alberghi e non c’è l’artista o l’attore in visita? Come scegli tra lavoro ed etica, in un’isola che prima viveva di pesca e turismo e adesso vive anche e forse soprattutto di questo?
E da fuori, ti dicono, voi venite prendete e portate via, e invece dovreste capire le dinamiche, non fermarvi a una vetrina che non rispecchia la realtà, alla prima immagine, alla prima emozione. Dovreste, dicono ancora, capire che l’accoglienza così com’è è un affare di stato, che le cose non sono come vengono raccontate, che dopo 72 ore i migranti dovrebbero lasciare l’hotspot e così non è ed è per quello che (forse, certo) li incontri per la strada, io non vedo te e tu non vedi me.
Così, tu esci frastornata, e non solo per lo scirocco che soffia continuamente. E subito dopo vai a visitare il Museo della Fiducia e del Dialogo, e sai bene che Askavusa è contrarissima, lo scrivono apertamente.  Ma tu, quando lo visiti, e ti fermi davanti all’Amorino di Caravaggio, e davanti ai video sui naufragi, e davanti agli altari portatili di ogni fede, e ci piangi pure un po’ sopra, come hai pianto nascondendoti dietro gli occhiali davanti alle scarpe sventrate, ti dici anche “ma serve anche questo”, e che nel groviglio sei portata a dare ragione a tutti, a chi dice che occorre radere al suolo un sistema di oppressione totale e a chi tenta di rischiarare quell’oppressione con almeno un soffio di bellezza.
Cosa bisogna fare, infine, ti chiedi. E ripensi al pane e le rose: “Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere – il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose”. E’ ancora valida, quella richiesta? Chi deve dare il pane, chi le rose?
E di quale verità, adesso, sono portatrice?

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