4.CRONACHE DA LAMPEDUSA: IL NOME DEI MORTI

Un nome c’è, nell’angolo del cimitero di Lampedusa che incontri per primo. E’ quello di un velista francese, Alan Roulex, che è morto qui nel 1998, pare per un incidente. Più sotto, sulla stessa lapide, c’è quello di sua moglie, che lo ha raggiunto molti anni dopo, e ha voluto essere sepolta qui, insieme a lui.
Questa è una storia d’amore, e anche quel che c’è nel rettangolo di terra dove riposano i due sposi è una storia d’amore, e anche quel che c’è nel rettangolo gemello.
Passo indietro.
I due rettangoli contengono croci, e le croci sono fatte con il legno delle barche. Dunque sono blu, e i bracci più corti sono rossi, o gialli. Sono distanziate le une dalle altre. Ci sono piante grasse, o fiori che resistono al caldo e al vento. I nomi no, i nomi non ci sono.
Molti anni fa, quando il disgraziato velista francese è morto, o poco dopo, non si parlava ancora di emergenza, non arrivava Richard Gere, i migranti che traversavano non venivano “detti”. Ma arrivavano lo stesso, e arrivavano morti, e spesso da molti giorni, e arrivavano e non si sapeva chi fossero, e chi dovesse seppellirli, e poi come, e chi avrebbe avuto il coraggio. Così Vincenzo Lombardo, che gestiva un’edicola e si occupava del cimitero, prendeva qualche foglia di menta, la infilava sotto una mascherina per resistere all’odore,  e raccoglieva quei corpi straziati, e li seppelliva qui, in questi due angoli. Avendo cura di tenere separato l’unico corpo femminile, con una croce più bella, e sotto una piantina, perché non venisse violato il pudore.
Le croci, ci metteva, e cosa altro? A chi glielo chiedeva, Lombardo rispondeva che il suo Dio era quello, e che poi “lassù” si sarebbero messi d’accordo.
Ma i nomi non ci sono, ci sono le descrizioni, l’età apparente quando si può, l’appartenenza quando si può, non ci sono i particolari che riguardano le condizioni del corpo che in una sepoltura si omettono, e magari si registrano all’anagrafe, insieme alla data di ritrovamento. 1998. 2003.
La data, già. Quella che i salvati ricordano bene. Non il mese, ma il giorno. Sono arrivato il 9, o il 12. Il 12 di che? Non sanno, ma il giorno sì, è il giorno della rinascita. Qualcuno ha raccontato che uno dei salvati del 2013 dice di avere tre anni, mentre ne ha venti, o qualcosa di simile. Conta la nascita vera, quella che ti ha strappato alla morte.
Nel cimitero nuovo, quello dove ci sono i due rettangoli con i sommersi, c’è una targa con le parole di Cesare Pavese: “Quale mondo giaccia al di là questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e ci arriverò”.
Ti stringe il cuore, sì. Però, dal momento che anche questa non è una sola verità, quando arrivi al cimitero vecchio e incontri Paola, lei te lo dice subito: quel che vedete raccontato qui è quanto siamo bravi noi, noi bianchi e italiani. Paola è Paola La Rosa, una volontaria, un’attivista, una donna di roccia, a volte spietata con se stessa: pure io, dice, che cerco il nome dei morti per restituire loro un’umanità, lo faccio per egoismo, alla fine.
Come tutti, del resto.
Paola cerca dunque il nome ai morti, che qui nel cimitero vecchio stanno affastellati, i migranti indicati solo da un numero, in loculi sgranati dagli anni, e le famiglie di Lampedusa, sotto lapidi così antiche che non riesci più a leggere l’età, e in certi casi nemmeno, appunto,  il nome.
Ma un nome almeno c’era, e altrove ci sono solo numeri.  3, o 5, le prime ondate, e poi le seconde e le terze di chi arrivava oltre quel mare senza conoscere – forse, perché questo non lo sai – le parole di Pavese.  Su una lapide a terra resta una scritta incisa nel cemento: “comunitaria”, e dalle ricerche che fai dopo in rete, google immagini, basta poco, la vedi per intero, e la scritta diceva Extracomunitaria, e sopra c’è la data: 7 giugno 2008.
Il senso del discorso di Paola lo capisci trovando a terra una lapide che per fortuna è stata rimossa, e che è sì raccapricciante in quel “quanto siamo bravi” che trasuda da ogni parola: Salma n.16, c’è scritto su uno sfondo di mare azzurro, che forse è l’ultima cosa che quello che era un uomo – con un nome –  voleva portarsi nella morte. E poi: Riposa in pace. E poi: “Immigrato non identificato di sesso maschile etnia africana colore nero”. E poi: “Rinvenuto da Comando 7° Squadriglia Guardia Costiera di Lampedusa”, e giù una serie di iniziali puntate con gli svolazzi, in un corsivo da invito al cocktail. E poi: “all’interno del gavone prodiero dell’imbarcazione con la quale aveva affrontato il viaggio della speranza in data 1/8/2011 alle ore 3,30, operazione di sbarco presso il Molo Favaloro dalle ore 4,30 alle 6,30, con l’ausilio Capo dei vigili del fuoco di Lampedusa”. C’è pure la firma di quello che allora era il primo cittadino: “Il sindaco Bernardino De Rubeis”. Con gli svolazzi, certo.
Poi, però, ci sono quelli che le proprie tombe, quelle di famiglia magari, le donano, o quelli che le comprano per dare una sepoltura ai senza nome, celando il proprio. E c’è Paola che appunto cerca i nomi, con le altre e gli altri che la aiutano, e così, per dire, sono riusciti a dare un nome a Welela, una ragazza eritrea giovanissima che ha anche una foto, adesso, sulla tomba, e fiori. Welela viaggiava su un barcone, già morta. Forse per le ustioni, perché una cosa che si impara a Lampedusa è che moltissimi migranti arrivano qui ustionati, perché sul fondo dei barconi si forma una miscela di acqua salata e nafta, ma in quel caso particolare si aggiungevano le ustioni provocate dall’esplosione di una bombola di gas nella tana in Libia dove aspettavano di imbarcarsi, e li hanno imbarcati lo stesso, bruciati com’erano, alcuni già agonizzanti. Il nome di Welela si deve a una telefonata del fratello, nei paesi del Nord, che sapeva che la ragazza era su un barcone, e che quel barcone era affondato, e dalle testimonianze faticosamente raccolte dai suoi compagni di viaggio. Il fratello ha deciso che era giusto così, che riposasse nell’isola. Un giorno, quando potrà, verrà a salutarla.
Ecco, dare i nomi, dice Paola, non è un gesto di pietà. E’ restituire a chi è morto umanità. De-umanizzare significa cancellare, non attribuire una storia, una verità. Confondere tutto nello spettacolo delle vittime, dove noi, noi gli accoglienti, recitiamo la parte migliore. Bisognerebbe, dicono in molti, salvarle prima, queste persone, tirare fuori la nostra parte migliore in un contesto più forte, impedire gli accordi internazionali, le connivenze con le dittature, la vendita di armi, le strette di mano da parte di chi, poi, viene qui con la faccia triste, e riparte.
In altre parole, significa che la responsabilità è di tutti, e che non basta venire qui, sull’isola, a fare la faccia triste o a essere realmente tristi, e tornarsene a casa. O fuori dai cancelli del cimitero, dopo aver passeggiato fra le tombe antiche che il tempo rivuole indietro, e non sai più chi era quel bambino di pochi anni che apparteneva al cielo, così dice la lapide. O quella diciassettenne del secolo scorso, che è ritratta già da morta sulla tomba, in quello che si chiama “memento mori”, ed erano le fotografie dei corpi dei propri cari cadaveri, un ultimo e disperato gesto d’amore che oggi chiamiamo macabro, ma ai tempi, fine Ottocento-inizio Novecento, era l’unica fotografia che ci si poteva permettere, e c’erano i fotografi specializzati in “memento mori”, che riuscivano a truccare i morti come se fossero vivi, persino in piedi, perché la fotografia era un’illusione di eternità, e invece la salsedine se la mangia di nuovo.
E non puoi non pensarlo, che il tempo che ti è dato dovresti saperlo usare, invece di uscire, respirare, e sapere che fra non molto, per forza di cose, parlerai di altro.
Trionfi e inganni, tesori e
falsi. È la realtà della vita: dobbiamo morire. Ma siate allegri: dal
passato vivente ci giungono le grida degli artisti morti, tutte le
nostre canzoni verranno messe a tacere, ma cosa importa? Continuiamo a
cantare. Forse il nome di un uomo non è poi così importante.
(F for Fake, Orson Welles)

4 pensieri su “4.CRONACHE DA LAMPEDUSA: IL NOME DEI MORTI

  1. Bellissimo questo post. Serio, struggente ma misurato, ineludibile la lettura.
    Vorrei leggerne di più di post così, sui giornali “di tutti i giorni”, come articoli.
    Ce ne sono di articoli sull’argomento, naturalmente, ma allora perchè mi sembra che trasmettano solo fredde cifre di un “problema” e non di un “orrore”?
    Grazie per queste righe, questo articolo, l’ho letto due volte, mi piacerebbe rileggerlo sulla prima pagina di un quotidiano nazionale…

  2. questa poesia ( del 1996) di un mio caro amico mi pare calzante…scusa loredana se approfitto del tuo spazio. ciao
    Gettato là sul marciapiede come
    un fagotto di poveri stracci.
    Buttato là sull’asfalto come
    una misera cosa.
    Calpestato là sul piazzale come
    una carogna avvizzita.
    Nessuno ha vegliato
    il gelido silenzio.
    Nessuno ha custodito
    l’abissale agonia.
    Nessuno ha raccolto
    l’ultima goccia
    di vita.
    Eppure, questa morte deserta,
    è stata spiata;
    è stata violata;
    è stata venduta;
    per pochi denari, così,
    al miglior offerente che
    riprende, registra, che
    manda poi sul teleschermo
    ed è perciò che ti ho visto
    ma non so neppure il tuo
    nome.
    Vincenzo Giorgetti (1946-2014) “Le rughe del tempo” 1996

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