Tornando, ho così tante cose da raccontare che non so da dove cominciare. Intanto, i luoghi. Sabato sono stata a Macerata, ho incontrato, ascoltato, riflettuto. Qualche dato: non è partito nulla. Ieri sera, guardando un telegiornale che dava enfaticamente conto di come nel Lazio stiano iniziando le opere di “urbanizzazione” (sic) nelle zone terremotate, ho contato sulla punta delle dita. Sei. O meglio quasi sei mesi dal terremoto di agosto, e “stanno partendo” le opere. Oggi. Nelle Marche, siamo ancora alle gare di appalto. Per quanto riguarda le attività produttive, vi invito a leggere qui.
Per quel che riguarda i discorsi sul terremoto, pubblico quanto scrive Leonardo Animali:
L’apertura della 67° edizione del Festival di Sanremo, coincide per me con la casuale lettura di un commento di un post su facebook di una signora (che poi mi accorgo essere una compaesana), in cui l’autrice, rispettabilmente, sosteneva che del terremoto bisogna parlarne il meno possibile, perché risulterebbe essere deleterio per il turismo, causando ciò ripercussioni alla capacità di attrazione di questa parte del territorio appenninico. Sono convinto al contrario che mettere quello che è accaduto e sta accadendo sotto il tappeto, anche questo rientra nella #strategiadellabbandono, nel caso specifico quella “de noantri”. Come se eludere il fatto che ci siano stati anche qui sfollati e persone assistite in hotel (vabbè, però alcuni sono albanesi…), prime e seconde case inagibili, una strada indispensabile alla quotidianità, ancor prima che al turismo, chiusa per più di tre mesi, la tentazione per diversi, anche i più giovani, di andarsene, attività economiche che risentiranno pesantemente della situazione, possa salvaguardare a prescindere la quotidianità e le potenzialità economiche di questa zona, a spiccata vocazione turistica. Si fa così anche uno sgarbo agli amministratori locali che con sensibilità si sono prodigati, per quello che hanno potuto, per l’assistenza e per un ripristino della normalità in tempi ragionevoli, considerato che l’hanno fatto con mezzi propri, visto che questo Comune non fa parte del cratere (e qui, diciamocelo, diversi hanno fatto un tifo operoso perché Genga non rientrasse nel cratere); e farne parte, avrebbe significato per chi qui vive e lavora, per chi ha una attività economica, oltre che per il patrimonio immobiliare, una serie di sostegni che avrebbero compensato le comprensibili difficoltà di mesi che verranno. E lo sostengo, forte del fatto che l’essere nel cratere, per me non avrebbe comportato alcuna differenza (ho casa per fortuna sana, non ho qui la residenza, non ho attività economiche in loco, non dipendo da aziende locali). E invece, da un mio acquisito compaesano, che poi il 30 ottobre mattina magari è pure venuto in macchina “a vedere che era successo qui a Falcioni”, e c’ha visto sbiancati in volto e impauriti, mi sarebbe piaciuto leggere un commento di questo tipo: “si, il terremoto qui c’è stato, eccome se c’è stato, parliamone tutti assieme, facciamo una grande assemblea pubblica, dentro quella palestra che il sindaco per la notte del 30 ottobre ha fatto aprire e riscaldare per quanti avevano paura a dormire a casa; ragioniamo assieme su come desiderano vivere qui poco più di 1700 persone sparse in 37 frazioni, su come far nascere e crescere i propri figli, lavorare, prenderci cura degli anziani, valorizzare le straordinarie peculiarità di questo paesaggio in maniera rispettosa, e senza essere più ossequianti, tra l’altro di serie B, del padrone quasi secolare, che c’avrà anche riempito il piatto, ma svuotato da ogni passione civile. Facciamo sfogare quelli che hanno avuto e hanno paura, quelli che c’hanno avuto danni, quelli che sono incazzati col mondo; ascoltiamo quelli che vogliono vivere qui e quelli che vogliono realizzare qualcosa di diverso da quello che s’è sempre fatto, chiamiamo i nipoti e i pronipoti che hanno le seconde case ereditate da nonni e prozii e che ci vengono alle feste comandate, e chiediamogli di impegnarsi davvero perché i loro patrimoni non diventino in poco tempo rovine abbandonate”. Questo era il commento che serviva in quel post. Proviamo a costruire, insomma, un’inedita e inusuale pratica di democrazia e di politica, una nuova idea di comunità, senza casacche, senza livori di paese, senza pensare che “prima i fatti miei, poi…”, ma che invece “se penso per primo all’interesse generale, alla fine mi riescono meglio anche i fatti miei”. Sull’Appennino ferito dal terremoto si può e si deve ricostruire non solo case, scuole, chiese, ma anche una migliore idea di democrazia e di comunità. Se non si accetta questa sfida, che certo è impervia, il fallimento è certo. Rimarranno le rovine, materiali e immateriali, prevarrà lo spopolamento, la fossilizzazione macilenta dei borghi, l’inselvatichimento del paesaggio, la trasformazione delle peculiarità naturalistiche ed architettoniche in uno sterililizzato e insapore parco divertimenti, attraversato in maniera indolore e senza alcun contrasto dal realizzando mega oleodotto Snam, che attraverserà continuativamente a soli 5 m di profondità il territorio appenninico di Abruzzo e Marche, proprio lungo dove si sono risvegliate le faglie. Al contrario, più che il silenzio e l’omissione sul terremoto, il potenziale turistico lo salvaguarda e lo rilancia un territorio vissuto, abitato, in cui la più incisiva operazione di marketing la fanno quelli che vivono qui, le persone, i bambini, i vecchi, gli adulti; non sostituibili da nessun infopoint o agenzia di accoglienza, o socialtour. Chi vuole venire qui non consulta la carta sismica o il decreto del governo con la lista dei Comuni del cratere. Chi è interessato a venire qui, turista o viaggiatore, lo sa che questa è zona sismica e che c’è stato il terremoto, e che ci potrebbe ancora essere, mica è un deficiente… Ma è interessato a sapere se ci sono borghi vissuti e non abbandonati, strutture di accoglienza sicure e di qualità, abitanti con una quotidianità con cui interagire e bere un bicchiere di vino, anziché hostess dal sorriso impersonale che potrebbero accoglierlo in qualsiasi altro posto del pianeta. Il fattore antropico, e la qualità della vita che arriva solo dalla cura del territorio, questa è la storia e la forza dell’Appennino. Le chiese, i musei, le grotte stanno sparse per tutto il mondo, perfino alle Bermuda. Con “Lontano dagli occhi” Sergio Endrigo arrivò secondo nel 1969 in quel Sanremo, edizione burrascosa in pieno clima sessantottino (vinsero per soli 9 voti Bobby Solo e Iva Zanicchi con Zingara). Endrigo, in quella splendida melodia, canta “Che cos’è? C’è nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è Che cos’è? Questa sera per strada i bambini non giocano più.” Che cos’è, cari compaesani? Ecco, parliamo del terremoto, parliamone tra noi e parliamo di noi, perché qui, a Falcioni di Genga, da cinque mesi i bambini che ci vivono, per strada non giocano più (alcuni hanno dormito impauriti per un mese e mezzo dentro un camper). E questo è un grosso guaio.