56. STORIE DAI BORGHI: ENZO, CHE NON VUOLE ANDARSENE E FINISCE SOTTO PROCESSO

La storia, secca, è raccontata così:
“I carabinieri hanno arrestato uno sfollato di Pescara del Tronto, Enzo Rendina, con l’accusa di interruzione di pubblico servizio per non aver ottemperato all’ordine del sindaco di Arquata del Tronto di evacuare il territorio comunale a seguito del terremoto del 30 ottobre scorso”.
Ciò è stato diramato dall’Ansa, tramite una nota.
“Il 28 dicembre il sindaco Aleandro Petrucci gli aveva fatto notificare una diffida ad andarsene – si legge nel comunicato dell’agenzia di stampa – ma Rendina era rimasto lì, prima sotto una tenda della protezione civile e poi in una dei Vigili del Fuoco. Stamane è comparso davanti al giudice del tribunale di Ascoli Marco Bartoli per il processo per direttissima. Interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale le accuse di cui deve rispondere. – prosegue la nota – Al termine dell’udienza il giudice ha convalidato l’arresto e rinviato al prossimo 20 marzo”.

Il 58enne è stato quindi rimesso in libertà: “È un arresto assurdo, di un uomo che ha la sola colpa di essere innamorato della propria terra e che lì vuole vivere” il commento del suo legale, l’avvocato Francesco Ciabattoni, all’Ansa”.
Ma ogni storia è complessa, ogni storia merita di essere narrata. Riprendo dal blog di Leonardo Animali la storia di Enzo, raccontata in due puntate di settembre e ottobre 2016.

Domenica 25 settembre
La macchina rossa era di Enzo; sopra la macchina c’è, crollata, la casa di Enzo. Avevo letto di Enzo i giorni scorsi, la sua scelta di rimanere l’unico abitante dentro il paese disintegrato dal terremoto di Pescara del Tronto mi aveva colpito. Poi una serie di concomitanze hanno fatto si che con Enzo ci siamo incontrati e conosciuti; forse, per certi imperscrutabili aspetti, riconosciuti. “Lui fuori dalla zona rossa non ci viene – mi hanno detto – bisogna che vieni giù tu”. “Ma a me – avevo ribattuto – dentro la zona rossa non mi ci fanno entrare”. Poi il compromesso, ci incontriamo in una sorta di striscia interterritoriale, subito oltre il confine della zona rossa. Ci conosciamo lì, proprio davanti la sua macchina rossa sfondata dalle macerie. Mi sento ridicolo con il caschetto giallo modello pupazzetto Toys, non tanto per ragioni estetiche; mi interrogo da cosa dovrebbe rendermi incolume quel pezzo di plastica se ci fosse un pericolo vero e serio. Enzo mi racconta un po’ di sé, che vive lì da più di vent’anni, che il padre era di Pescara, ma che lui è nato e vissuto a Roma, per poi scegliere di venire a vivere in quella casa delle radici familiari. Enzo non se ne andrà da Pescara, non lo ha fatto dalla notte della catastrofe sismica, non lo farà in seguito. I primi giorni ha dormito sopra una tettoia all’aperto, poi i ragazzi del GUS gli hanno portato una tenda, e gli continuano a portare i pasti, perché lui da lì non esce, come se uscendo dalla zona rossa temesse che trovano il modo di fregarlo e non farlo rientrare più. Gli hanno offerto in dono una roulotte per l’arrivo della stagione fredda, ma è stato detto ai benefattori che non è possibile procedere al dono, perché si creerebbe un precedente. Enzo mi racconta che ha dato una mano fondamentale nelle ore immediate alla tragedia, consentendo di tirare fuori in poche ore sia i vivi che i morti; si, perché lui sapeva quali erano, tra tutte, le case abitate quella notte, e chi c’era in ogni casa. Poi mi dice anche che lui sta lì non per protesta, ma perché ha da fare delle proposte. E che ha un sacco di cose da raccontare. Gli dico che mi interessa ascoltarlo e che torno; mi lascia il suo numero di telefono. Chi è Enzo? Il suonato del paese, come è semplicistico pensare, o la testimonianza di qualcos’altro di più profondo, significativo, che ci mette di fronte a verità rimosse o sconosciute? Ogni terremoto, con il suo carico di tragedia e di dolore, per molti, purtroppo, è l’occasione per prendere atto di un fatto, o di fare una scoperta: che su per quelle montagne non ci sono solo i turisti, gli escursionisti, i villeggianti estivi a cui è rimasta la casa della nonna o dello zio; no, pensate, che su per quelle montagne, c’è gente che ci vive sempre, che ci lavora, ci sono bambini che nascono, che vanno a scuola e che diventano grandi. C’è gente che lì ha scelto di vivere e che, incredibilmente, è felice di viverci per tutta la vita; e che neanche adesso che il terremoto gli ha portato via tutto, se ne vuole andare. Strana la gente… Nelle città si sta meglio, più sicuri, ci sono tutte le comodità; perché ricostruirgli il paese spianato dal sisma, sarebbe tanto meglio per loro che lo Stato gli ricostruisse una nuova e migliore vita in città… Però dal lavoro e dall’economia di quelle montagne, ci piace riempirci borse della spesa e imbandirci tavole per la nostra convivialità, anche per la nostra sempre più mirata ricerca di una maggior sana alimentazione. Ma quella roba si fa lassù, in cima all’appennino, è lassù che il lavoro di chi vive consente di ottenere beni non riproducibili e delocalizzabili. E allora se facciamo l’amatriciana solidale, è un po’ una presa per il culo farla con i prodotti comprati all’ipermercato; forse è più solidale se troviamo il modo di comprare gli arrosticini che anche in questi giorni con la casa crollata, ma con la macelleria più o meno stabile, continua a preparare e a vendere l’allevatore-macellaio del paesello. Perché se gli arrosticini e gli altri prodotti di un duro lavoro su quei monti, non glieli compra più nessuno, perché il paese non c’è più e fra un po’, passata l’emergenza e sgomberate le tende, non ci faranno spesa più neanche i vigili del fuoco, lui con l’amatriciana solidale non ci fa un cazzo; tra qualche settimana, arrivato l’inverno, chiude bottega. Enzo mi deve raccontare un sacco di cose; “devo parlarti – mi dice salutandomi – della cava qui dietro il paese, del cemento che c’era qui, della fonte dell’acqua, e ti devo dire delle proposte”. “Ok – gli dico – mi organizzo e tra qualche giorno ritorno. E tu lo sai che ritorno. Vedi di farti trovare qui dentro, a Pescara del Tronto”
Domenica 9 ottobre
Piove a Pescara del Tronto. E’ freddo, il primo vero freddo. “Cominciamo da quelle leggere – dice Enzo mentre rovista nello zainetto che ha salvato dal crollo di casa la notte del 24 agosto – poi passiamo alle altre. “ Leggere e pesanti sono le cose che vuole raccontarmi. Alla fine passano più di due ore, accartocciati dentro il camper del GUS. Enzo partendo da sé, dalla sua vita a Pescara, è un fiume in piena. Racconti, idee, proteste e proposte, che come l’acqua del fiume che passa, si mescolano, accavallano, confondono. Mi colpisce però un’espressione ricorrente che attraversa le storie di Enzo, quasi un’intercalare, con cui identifica ciò che in quel territorio è stato fatto da molti anni. “E’ successo – dice – per opera della “mano nera”. Non specifica cosa sia o chi sia, ma dopo un po’ lo capisco. Chi, o coloro, singoli e aggregati, che pur essendo figli di quella terra, ad un certo punto, per ambizione ed avidità personali, hanno sfruttato quel territorio, provocato danni e ferite non rimarginabili, in nome di un presunto benessere della popolazione, a cui peraltro si appartiene. La “mano nera” non ha una fisiognomica precisa, un’anagrafica codificabile, può essere la politica, l’imprenditoria, la chiesa, o commistioni opache di tutto questo. Quello o quelli che le strade, il cemento, le fabbriche, portano lavoro, sviluppo e crescita economica. Ma che sotto, appena oltre il cotico del suolo, lasciano inquinamento, depauperamento delle risorse naturali, lesioni all’assetto geomorfologico originario, malattie. Enzo poi è costretto a smettere di raccontare, perché io devo ripartire, ma ne avrebbe ancora per molto; “non preoccuparti che tanto torno per riprendere il discorso – gli dico salutandolo – mica abbiamo finito…”. Lui ritorna verso la sua tenda-casa, a presidiare il suo paese e le sue storie, quasi a vigilare da qualche altra “mano nera” che potrebbe riaffacciarsi da dietro quei cumoli di rovine e macerie, e riproporre nuove lusinghe su come riportare sviluppo e benessere dopo la tragedia ed il lutto del terremoto. Tornando e ripensando alle storie di Enzo, in fondo se si guarda, anziché semplicemente vedere, ogni paese, ogni città, ha la sua “mano nera”. La “mano nera” è figlia di un territorio, c’è nata e cresciuta e, in molte realtà, continua a viverci. Vuole bene alla propria realtà nativa, desidera sviluppo, lavoro, progresso per tutti i conterranei. Però, c’è un però. Per la “mano nera” la priorità resta comunque la propria saccoccia, i cazzi propri. E allora per la “mano nera” è normale che gli scarti industriali tossici della propria fabbrica li si sotterri sotto superfici su cui poi la gente è andata ad abitare o li si riversi nel fiume. Che volete? Grazie alla produzione industriale è stato dato lavoro a tutti, dai nonni ai nipoti. Per la “mano nera” le montagne non sono luoghi da tutelare e da promuovere per le attività naturalistiche e turistiche, ma oggetti da far saltare con le mine e da segare a fette, perché quella pietra lì è un gran business nell’industria chimica e farmaceutica, e poi ci si sbianca anche lo zucchero da barbabietola; perché indignarsi poi: quattro spicci di diritto di escavazione vanno al Comune, alla Provincia e alla Regione; e poi, ogni volta che c’è la campagna elettorale, s’è sempre data una mano (e una bustarella) a tutti, senza distinzioni ideologiche. Per la “mano nera” ci sta che ogni territorio vasto abbia il suo inceneritore, e va fatto proprio lì sopra, dove tanto il terreno è già stato inquinato da decenni da quell’impianto industriale chiuso, che così almeno all’impianto di termovalorizzazione (espressione elegante per definire l’inceneritore) si riassume pure qualche decina di licenziati senza alcuna speranza. “La mano nera” è quella che poi chiama direttamente il ministro di turno per far spostare la direttrice di un nuovo asse stradale. E’ più funzionale, meno costoso e meno impattante si dirà; ma no, è più costoso, si allunga il percorso, si inquina di più, però se passa dall’altra parte, là ci stanno i terreni di tizio e di caio (e qualcosina pure di sempronio). Le discariche, come sanno gli addetti ai lavori, hanno un tempo di vita predefinito; dopo un po’ vanno ad esaurimento e deve essere chiuso e risanato il sito. Ma la “mano nera” pensa che sia una cazzata: ci si fanno talmente tanti soldi, si da lavoro, si danno soldi ai Comuni che ci fanno nuovi giardinetti e piste ciclabili; sai che facciamo? Ne chiediamo la proroga temporale per la durata e pure l’ampliamento per metterci più rifiuti speciali, perché sono quelli che fanno l’affare, mica i quattro sacchetti di indifferenziato delle famigliole del posto… Ecco, e si potrebbe continuare a lungo, così come Enzo racconterebbe all’infinito le storie del suo paese che in una notte d’estate è scoppiato. Poi a valle incontro un gruppo di ragazzi che hanno deciso di scrivere su Facebook quello che succede ai loro paesi dopo il 24 agosto, ma anche quello che era la vita delle loro piccole comunità prima di quella notte. Anche loro non se ne vogliono andare e vogliono diventare adulti e vecchi lì. Hanno tutti meno di vent’anni e gli occhi luminosi anche in questi giorni di lutto, di separazione, sbandamento, di pioggia e freddo. La pagina Facebook si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Sono loro il miglior antidoto nei confronti della “mano nera”; e come loro i tanti adolescenti sparsi nei paeselli che credono che lì, ancor più che in grandi città, si possa costruire felicità. Anche questi giovani sono quelli che Paolo Pileri, nel bel libro “Che cosa c’è sotto”, chiama “i partigiani del suolo”.
Vi sembra un folle, Enzo il processato? O non è più folle chi a processo lo manda?
N.B. Comunicazione di servizio. Il blog non sarà aggiornato fino a mercoledì 8 febbraio. Domani, venerdì, inizio il mio corso di scrittura fantastica a BottegaFinzioni, a Bologna. Sabato sarò di nuovo a Macerata per il secondo e ultimo appuntamento de I giorni della merla, con Melania Mazzucco, Gabriele Barucca e naturalmente Lucia Tancredi. Lunedì, infine, un piccolo intervento agli occhi per una cataratta secondaria: ogni tanto chi legge parecchio e scrive parecchio ha bisogno di una revisione, no? Naturalmente aspetto altre storie dai borghi, quante ne volete. Un abbraccio, commentarium.

2 pensieri su “56. STORIE DAI BORGHI: ENZO, CHE NON VUOLE ANDARSENE E FINISCE SOTTO PROCESSO

  1. Questa storia mi fa pensare a “Zeitoun” di Dave Eggers: il racconto delle peripezie di un abitante di New Orleans rimasto in città durante e dopo Katrina perché non voleva abbandonare la sua casa…. la “catastrofe” come occasione per mettere in piedi uno stato di emergenza a dir poco poliziesco e per calpestare diritti umani e costituzionali.
    Grazie Loredana di informarci dal basso sulla realtà dell’Appennino colpito dal terremoto.

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