LA GRANDE USCITA DELLE DONNE USA DAL LAVORO E LA NONCURANZA IDENTICA AL PERICOLO

 C’è sempre, nelle fiabe, qualcuno che rimane indietro per narrare. Non solo il bambino zoppo del Pifferaio di Hamelin, ma il giovane Werferth che viene lasciato nella foresta mentre gli altri amici e sodali vanno incontro alla morte nella battaglia di Maldon così come la immaginò Borges: “Werferth li vide perdersi nella penombra del giorno e del fogliame, ma le sue labbra stavano già modulando un verso”.

Perché bisogna starci dentro per raccontare, e raccontare non significa disperdere le parole nelle tifoserie. Significa guardare e capire e ascoltare. Sperando che serva, se serve, e credo che infine serva. Di certo, è il momento di farlo.

Per esempio. Leggevo ieri sera sulla newsletter del Corriere della Sera che molte donne statunitensi stanno lasciando il lavoro. Scrive la sempre brava Elena Tebano:
“Almeno 455 mila hanno smesso di lavorare fuori casa solo tra gennaio e agosto di quest’anno, secondo i dati dell’Ufficio di statistica del lavoro americano (che attualmente non vengono più aggiornati, a causa della chiusura del governo americano). Il dato è ancora più alto nel confronto con l’anno scorso: 600 mila donne in meno che lavorano. La Cnn la chiama «She-cession», un gioco di parole tra recessione e «lei» («She», in inglese). Un rapporto della società di consulenza Kpmg parla di «Grande Uscita». Si tratta di una svolta significativa, che inverte una tendenza quasi secolare”.
Per chi, come me,  in occasione della morte di Diane Keaton, ha riguardato Baby boom, si tratta di un fenomeno inimmaginabile ai tempi (era il 1987). E c’è un motivo: da due anni, sono le donne con figli piccoli a lasciare, mentre, nello stesso periodo, gli uomini con figli piccoli lavorano di più. Perché? Perché “l’assistenza all’infanzia in America è diventata molto più cara” e lo smart working si è ridotto. Inoltre: sono finiti i fondi per l’assistenza all’infanzia dopo la pandemia; le politiche di Trump contro l’immigrazione hanno creato mancanza di personale (un quinto degli operatori sono immigrati); l’aumento dell’inflazione fa salire i costi  e pannolini e alimenti per bambini sono soggetti a dazi. Nei fatti: i prezzi degli asili nido e scuole materne sono aumentati “a un ritmo doppio rispetto all’inflazione complessiva”. Quindi, il genitore che guadagna meno resta a casa. E sono le madri a guadagnare meno.
Inoltre ancora, ricorda Tebano:”La tendenza a lasciare a casa la madre è acuita ancora di più dall’ideologia dell’amministrazione Trump. Come ha scritto Jessica Grose sul New York Times, quando il governo Trump parla di lavoro, parla praticamente solo di lavoratori uomini. Non solo, l’amministrazione Trump ha tagliato i fondi del Women’s Bureau, l’agenzia del Dipartimento del Lavoro che sostiene il lavoro delle donne, definendola «un ufficio politico inefficace che è un relitto del passato» (…) La giornalista dell’American Conservative Helen Andrews, in un discorso alla National Conservatism conference diventato virale, ha persino sostenuto che l’ingresso delle donne nel lavoro in settori tradizionalmente maschili sia la vera minaccia alla civiltà occidentale e la radice di quella che la destra Maga americana ritiene l’origine di tutti i mali, la «wokeness». «La “wokeness” non è una nuova ideologia, una conseguenza del marxismo o il risultato della disillusione post-Obama. Si tratta semplicemente di modelli di comportamento femminili applicati a istituzioni in cui fino a poco tempo fa le donne erano poche» scrive Andrews”.

Riguarda gli Stati Uniti e basta? Macché. In questi giorni mi inviano video di tizi italianissimi che dicono la stessa cosa: le donne tornassero a fare le donne, il femminismo è tossico (seguono varie declinazioni, alcune a opera di garbati, si fa per dire, comici televisivi che si fingono giornalisti), in soldoni è ora di dire basta.
Ce ne stiamo rendendo conto, spero, e spero anche nella consapevolezza che la faccenda sarà lunga, e che magari invece di legnarsi a vicenda bisognerebbe lavorare su questo.
Tanto per rinfrescarci la memoria. Nelle prime pagine de “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood , Difred sbircia nello specchio del corridoio, si vede riflessa:
“Se giro la testa, così che le bianche alette che m’incorniciano il volto dirigano il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l’occhio di un pesce, e con dentro me, un’ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata nel sangue”.
Un momento di noncuranza identica al pericolo. Frase perfetta. E’ esattamente quello che stiamo attraversando, con la differenza che davanti allo specchio noi ci fermiamo, ne siamo anzi ipnotizzati, e a forza di concentrarci sulla nostra immagine non riusciamo a vedere altro.
E forse è quel momento di noncuranza identica al pericolo, quello in cui ci siamo soffermati a sbirciare lo specchio, che ci ha incatenato, da molti anni, che ci ha immobilizzato sulle scale, fermi a osservare la nostra immagine, e adesso ricominciare il cammino è più difficile.
(Non impossibile, però)

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