Permettetemi il secondo post letterario in due giorni. Ieri sera ho visto la prima puntata di It-Welcome to Derry. Mi sono lasciata prendere fino alla fine. C’era qualcosa che mi disturbava, però, pur nella curiosità e nell’interesse di antica kinghiana. E me ne sono resa conto stamattina, dopo averci dormito su.
Accade quasi ogni volta (quasi) con le trasposizioni cinematografiche o televisive da Stephen King, ed è accaduto anche stavolta. Non bastano i colpi di scena, i mostri, il saltino sulla sedia. Perché dentro la scrittura di King c’è qualcosa che è molto difficile da restituire, tranne in alcuni casi (per quanto mi riguarda, soprattutto Le ali della libertà, Stand by me, Il miglio verde, Misery, L’ultima eclissi, che non casualmente non sono horror e, Miglio verde a parte, neanche sovrannaturali).
Allora, passo indietro fino a It. Che è un romanzo sulla memoria, sull’infanzia e sul rimpianto dell’infanzia. E sul male, certo. It è forse il più grande romanzo di Stephen King e, quasi sicuramente, uno dei maggiori romanzi del secondo Novecento. It è come la biblioteca di Derry, che affascina uno dei protagonisti, Ben, col suo corridoio di vetro da cui si può vedere fuori, ed è come It, la creatura aliena che viene da fuori come tutti gli dei e i mostri e che muta forma, apparendo preferibilmente in veste di Clown. It, il romanzo, è imprendibile.
Ho già raccontato il mio primo impatto con il romanzo e con King. Era il 1988 e pensavo davvero che i libri potessero salvare la vita: ma non sempre, e non tutti. All’epoca, avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Lo specchio, anche. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Così, in vacanza in una casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”.
Tutte quelle virgole, e una parola così forte come “terrore”, subito all’inizio, e poi un’insignificante barchetta di carta che, scoprii nelle righe successive, beccheggia, si inclina, si raddrizza e affronta “con coraggio” i gorghi infidi e prosegue la sua corsa in quello che è un pomeriggio d’autunno del 1957, in una città che si chiama Derry e che non esiste – ma questo lo avrei scoperto poi – e che si annuncia come malvagia fin dall’inizio, con quelle tre lampade del semaforo che sono irragionevolmente spente, anche se piove a dirotto, e piove da una settimana, e il vento soffia infilandosi nei vicoli, e tutti i quartieri sono rimasti senza corrente, e questo già è strano, e siamo ancora all’inizio.
E’ che in niente, quella scrittura, somigliava alle altre. Come scrisse una volta Nicola Lagioia:
“Non sembra uscita da un raffinato salotto parigino ma da una nuvola di polvere, scintille e segatura per come potrebbero vorticare in un ferramenta del Maine dove si ascoltano solo gli AC/DC. La drammaturgia è a propria volta l’equivalente di una grande costruzione in muratura piuttosto rozza, all’interno della quale l’assoluta ordinarietà di muri portanti, disegno delle stanze e arredamento si infrange nel sospetto di soluzioni architettoniche più imprevedibili. E infatti… se sovrapponete la mappa ai vostri passi vi renderete conto di trovarvi ogni tanto proprio dove – planimetria alla mano – non dovreste essere. Sempre qualche passo indietro o avanti. Tornando verso l’ingresso, noterete magari una stanza che prima non c’era, ma che ora, stranamente, trovate giusto si trovi lì. Forse però vi state sbagliando. Forse l’avevate vista anche prima e ve ne siete dimenticati… Cosa sta accadendo? Attenzione. Il problema è che quella è proprio la stanza in cui scatta la sospensione di incredulità davanti a ragazzine dotate di poteri telecinetici, animali domestici risorti e, come nel caso di It, intere città possedute da orrende forze demoniache”.
Una città inventata, come altre. Una città sbagliata che si chiama Derry. Anche questo lo avrei capito dopo aver letto tutti i romanzi che King vi ambienta: Mucchio d’ossa, dove la giovane e amatissima moglie di Mike Noonan muore mentre esce da una farmacia, per un ictus (forse) e l’asfalto bollente le segna le guance e il marito dovrà rivederla così all’obitorio, con quei frammenti di Derry sul viso, per l’eternità. E Insomnia, dove la città ha due anime, o due modi di essere vista, e un sacco mortuario nero come fumo la avvolge, fino a 22.11.63, dove la prima tappa del viaggio nel passato del protagonista è proprio Derry, la Derry di It, ed è sbagliata come allora e forse ancora di più.
Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa i piede da quelle parti. Bambini. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti. Derry è indifferente. E’ indifferente al male che si può vedere e che viene considerato quotidiano. I bulli che incidono con un coltello la pancia di Ben, uno dei perdenti. Che inseguono Beverly. Che terrorizzano la scuola. Quelli che dileggiano una coppia di giovani omosessuali. Ma Derry distoglie sempre lo sguardo. Fino a dare chi sa guardarla
“quella sensazione che Derry fosse fredda, che Derry fosse insensibile, che a Derry non importasse un fico secco se qualcuno di loro avesse a morire e soprattutto non avrebbe minimamente gioito se avessero trionfato su Pennywise il clown. La gente di Derry aveva vissuto da sempre con Pennywise in tutte le sue molteplici manifestazioni… e forse, in qualche modo scervellato, era persino arrivata a comprenderlo. Ad averlo in simpatia, ad aver bisogno di lui. Ad amarlo? Può darsi. Sì, persino quello può darsi”.
Esistono città inventate, case inventate, luoghi che esistono solo nella mente di chi scrive e che però riescono a rappresentare il mondo intero. Come gli altopiani di Lovecraft. Come la Hill House di Shirley Jackson. Come le città di King, Derry o Castle Rock, luoghi dove sopra la televisione ci sono i quadri con Gesù e il gregge di pecore, e a volte, come in Tommyknocker, Gesù farà l’occhiolino alla padrona di casa e le spiegherà come uccidere il marito. Ci sono molte lattine di birra e fiere di paese e molti fallimenti. C’è povertà. Ci sono le case mobili dove le ragazze che si sono sposate giovanissime perché incinte mangiano scatole intere di cioccolatini e picchiano i figli, come in Salem’s Lot. E silenzio. Nessuno parla a Derry, nessuno vede, anche se ragazzi e bambini scompaiono. La città prospera su quel silenzio e con quel silenzio nutre il male che cresce nel sottosuolo. Non funziona così, sempre? Non si prospera forse grazie al silenzio e all’indifferenza? Salvo poi venir distrutti, in un sol colpo, in quel 1985 che vede esplodere Derry mentre, nel mondo cosiddetto reale, Ronald Reagan iniziava il suo secondo mandato.
Solo i vecchi che si svegliano all’alba quando It morirà sanno quanti bambini sono stati immolati a Derry. Perché, certo, nelle prime righe del romanzo c’è un bambino dietro la barchetta. Ha sei anni, un impermeabile giallo e stivaletti rossi. Si chiama George Denbrough e morirà nel giro di quindici pagine con un braccio strappato di netto come un’ala di mosca. Moriranno molti bambini, nel romanzo, e anche non pochi adulti. Perché, ma questo è quasi banale dirlo, It è una storia sul male: o meglio ancora, su come la questione del male possa essere declinata in questo e altri mondi. Il male cosmico che si cela nelle galassie vomitate dalla benefica Tartaruga e nelle geometrie sghembe da cui proviene It. Il male quotidiano, perché se It si nutre di bambini, quegli stessi bambini vengono picchiati da genitori alcolisti, o vessati da madri ansiose, o semplicemente ignorati, come avviene al fratello di George, Bill, dopo che la morte ha raggelato la sua famiglia, e cosa può mai fare un ragazzino quando le mani della madre volano alle tempie come uccellini e il padre piange abbracciato agli scatoloni di giocattoli che nessuno userà più?
Chi è It? Verrà anche da fuori, dagli universi roteanti immaginati da Lovecraft. Ma è soprattutto la forma del tuo terrore. Hai paura delle mummie, dei vampiri, dei licantropi, dell’Occhio gigante? It sarà così. Tuo padre ti picchia e medita di violentarti? It sarà tuo padre. Tua madre ti ha convinto di essere un bambino malato che non sarà mai come gli altri? It sarà tua madre. Perché i bambini? E’ Mike Hanlon, il bibliotecario, a capirlo:
“che cosa mangia in realtà It? So che alcuni bambini sono stati parzialmente divorati; è certo in ogni caso che si sono riscontrati segni di morsicature. Ma forse siamo noi a spingere It a farlo. A noi tutti è stato insegnato fin dalla prima infanzia che quel che fa il mostro se ti acchiappa nel folto del bosco è appunto mangiarti. È forse la cosa più terribile che riusciamo a immaginare. Ma in verità i mostri vivono di fede, no? Mi sento trascinato irresistibilmente verso questa conclusione. Il cibo può essere la vita, ma la fonte del potere è la fede, non il cibo. E chi più di un bambino è capace di un atto di fede assoluta? Ma c’è un problema: i bambini crescono. In chiesa il potere viene perpetuato e rinnovato con atti rituali periodici. Sembra che a Derry il potere venga perpetuato e rinnovato nella stessa maniera, cioè con atti rituali periodici. È possibile che It trovi protezione nel semplice fatto che trasformandosi in adulti i bambini diventano incapaci di fede o comunque le loro intuizioni vengono impoverite da una sorta di artrite spirituale? E ora, ora che non crediamo più in Babbo Natale, nella fatina dei dentini, in Hansel e Gretel, o nel troll sotto il ponte, It è pronto a sfidarci. Tornate, ci dice. Tornate, finiamo quel che abbiamo lasciato in sospeso a Derry. Portate le vostre figurine e le vostre biglie e i vostri yo-yo! Giochiamo! Tornate e vediamo se ricordate la più semplice delle cose: com’è essere bambini, pronti a credere e perciò timorosi del buio”.
Per questo It possiede gli adulti di Derry. Per questo It è Derry, la Derry degli adulti che al potere delle storie non credono, che hanno dimenticato la magia. Per questo Derry morirà quando morirà It.
Ecco. In questa prima puntata della serie non ho visto questo. Non ho visto quel che è più importante in It e derivati: non ho visto che i cartelloni che danno il benvenuto a Derry ma non basta, ma è didascalico, e non ci fa capire quanto gli adulti siano indifferenti nei confronti del terrore. Mi rendo conto che è difficile. Aspetto la seconda puntata, ma intanto, come si immagina, rileggo.