A questa guerra non ci sto, né dovrebbe prendervi parte chiunque abbia a cuore la sorte dei libri, scritti e letti.
Perché questa non è una guerra, non nei termini in cui vi è stata presentata: da una parte gli strafighissimi e vendutissimi autori di best-seller, Preston, Turow, King, Tartt, e dall’altra i conti di Montecristo dei rifiutati, i paladini dei deboli e degli oppressi, Konrath, Howey, Peralta.
Questa non è una guerra che oppone, da una parte, gli scrittori pubblicati in modo tradizionale, dagli editori tradizionali, e dall’altra gli autopubblicati incompresi e salvati da Amazon.
Questa, se guerra è, non riguarda il sacrosanto diritto all’autopubblicazione, bensì l’ancor più sacrosanto diritto a non volere un monopolio planetario.
Cosa è accaduto? Leggete, per favore, i testi originali.
Qui trovate quello di Douglas Preston, che si rivolge ai lettori, quegli stessi lettori cui, certo, si rivolgono i self published, ché senza lettori gli scrittori non esistono (ma vale il viceversa, e non dimentichiamolo), e che ricorda il comportamento di Amazon nei confronti di chi è stato pubblicato da Hachette e dagli altri editori con i quali è in corso una contrattazione: libri indisponibili o sconsigliati, tempi di consegna biblici. Bullismo, è stato detto dai giornali americani. E hanno pienamente ragione: il che NON significa che il comportamento delle major editoriali sia limpido e commendevole, tutt’altro.
Ma è altrettanto falso che, come si legge nella petizione degli autori self published, “Amazon, in contrast, trusts you to decide what to read, and they strive to keep the price you pay low”. Non è vero che sono i lettori a decidere, proprio no: perché i lettori di Amazon sono quanto meno condizionati dai “suggerimenti” di Amazon, e i suggerimenti, come ormai dovrebbe essere noto, sono decisi dagli algoritmi di Amazon, e come dovrebbe ugualmente essere noto, Amazon guadagna dagli autori autopubblicati: poco da moltissimi, com’è ormai la prassi.
Hachette non è il bene e Amazon non è il bene, che sia chiaro. Ma non è presentando la faccenda come una guerra fra Casta degli scrittori e Cittadini autopubblicati, e quindi soffiando ancora una volta sul fuoco dei populismi, che si esce da una crisi editoriale senza precedenti e da una possibile, e in parte già vera, spaventosa concentrazione di potere. Non stiamo giocando a Ciccio Formaggio contro Donna Tartt (e anche se così fosse, un paio di motivi per preferire Tartt sarebbero anche legittimi, così come è assolutamente legittimo cercare una nuova Donna Tartt fra i molti Ciccio Formaggio, se i dannati algoritmi di Amazon facilitassero la ricerca, per dire).
In altri termini, chi gioca a questo gioco lo fa per ingenuità (mi autopubblico, quindi mi schiero con Amazon) o per malafede (nessuno ha mai risposto sugli Amazon Camp cui prenderebbero parte alcuni degli scrittori che di Amazon sono testimonial).
Personalmente, credo l’autopubblicazione sia una delle strade obbligate che verranno prese: occorre semmai liberarla dagli appetiti giganteschi di un monopolista, e dai tanti caciottari che cercano di vendere all’autore “servizi”, spesso carissimi e spesso pessimi. E non ho dubbi sul fatto che, prima o poi, e già probabilmente ora, saranno gli stessi autori autopubblicati a riunirsi e trovare la strada giusta. Ma questo non significa che Amazon possa fare il bello e il cattivo tempo, così come non possono più farlo Hachette e compagnia.
Io a questa guerra, in questi termini, non ci sto. Specie quando viene raccontata malissimo.
Amazon è un mondo, più che un operatore di mercato, e già questo basterebbe per dire che qualcosa non va. Le pratiche monopolistiche sono (dovrebbero) essere avversate, tanto che esistono autortità antitrust (ormai molto depotenziate, rispetto a quella che negli anni ’80 fu capace di smembrare il colosso dei telefoni AT&T in una manciata di baby bells). Nel caso specifico, pare che le armi dell’antitrust siano spuntate perché Amazon non opera in regime di monopolio, bensì di monopsonio, che non è sanzionato. Il termine tecnico orrendo sta a significare che Amazon non è venditore unico, ma acquirente unico: Amazon non produce niente, non è editore, ma compra libri dagli editori per rivenderli sulla sua piattaforma. Il problema è che ha praticamente spazzato via gli altri rivenditori, arrivando a decretare la vita e la morte di autori e case editrici. Chiaro che, se si volesse, la normativa potrebbe essere adeguata e utilzzata per disciplinare anche un soggetto del genere; ma per ora così non è, e con questo monopsonista dobbiamo fare i conti. Niente di troppo nuovo, a pensarci bene: Amazon fa su scala planetaria quello che i nostri distributori (e quelli di molti altri paesi, immagino) fanno da anni su scala ridotta. Anche da noi i distributori sono pochi e prepotenti e decidono chi va in libreria e chi no, e quanto ci deve stare.
Insomma, problemi antichi mai affrontati con la necessaria lucidità e la giusta determinazione hanno creato un mostro. Che poi spande le sue spire in mille ambiti: ce lo ritroviamo, in compagnia di Google e FB, tra i soggetti che eludono le tasse grazie a una normativa europea folle, che consente ai paesi di farsi concorrenza fiscale tra loro e alle compagnie del web di pagare le tasse dove più gli aggrada, e cioè dove sono più basse. E, ancora, ritroviamo Amazon tra i protagonisti di episodi di sfruttamento del lavoro tra i più beceri.
Una contrapposizione frontale con un soggetto così rischia di essere velleitaria, dati i suoi mezzi e la sua capacità di fare lobby. Penso che il sistema mondo Amazon andrebbe studiato nei dettagli e poi si dovrebbe esercitare pressione sui nostri organi legislativi perché varino norme volte non a uccidere il mostro (non è con spirito di rivalsa che si possono vincere certe battaglie), ma a neutralizzarne la capacità offensiva e valorizzarne le potenzialità di utilità collettiva. Perché ci sono, queste potenzialità, questo non va dimenticato. Amazon è anche una piattaforma che mette in contatto i lettori con un gran numero di librai che possono in questo modo vendere libri di nicchia che altrimenti non venderebbero mai (io stesso ho trovato in questo modo testi che disperavo di poter mai leggere); e la stessa autopubblicazione, se non utilizzata come oggetto contundente, sarebbe una via interessantissima per autori sia nuovi che affermati. Complementare, non alternativa, rispetto all’editoria tradizionale.
Però per esigere e ottenere questo occorrerebbe una collettività di cittadini, prima ancora che di lavoratori o di scrittori o di editori, coesa e forte; una collettività non ottenebrata da invidie sociali e professionali. Insomma, una comunità consapevole di se stessa. Cosa molto rara oggi, e non solo nel nostro paese.
Per una versione dei fatti leggermente più realistica rispetto a quella riportata (distorta? copiata male?) da Repubblica:
http://terribleminds.com/ramble/2014/07/03/the-petition-to-paint-amazon-as-underdog/