ADAGIO E RONDO' PER CARMELO SAMONA'

Echi, reti in cui rimane impigliato un ricordo. Domenica mattina, presentando “La non mamma” di Susanna Tartaro, Susanna fa un nome di scrittore amato, che fin qui non le avevo mai sentito pronunciare. E’ quello di Carmelo Samonà. In particolare, cita “Fratelli”. E’ un romanzo bellissimo, che uscì per la prima volta nel 1978 e venne ripubblicato da Sellerio nel 2008, diciotto anni dopo la morte dell’autore. Ne esiste ancora qualche copia, quindi leggetelo.
Ma non è il Samonà che mi incantò quando ero una giovane donna che si occupava di musica classica. Intendiamoci, amavo il romanziere, ma ancor di più amavo lo studioso che era in grado di raccontare Mozart come non avevo mai sentito fare fino a quel momento. Avevo letto un suo testo teatrale su Sipario, e determinante in quella storia era l’Adagio e Rondò per Glassarmonica che Mozart compose per una musicista cieca, che dall’armonica a bicchieri sapeva trarre suoni celestiali. Non lo dimenticai.  Più avanti, nel 1987, scrisse un lungo articolo dove paventava il clamore su Mozart, specie dopo il film “Amadeus”. In particolare, scriveva questo:
“Noi, da giovani, conoscemmo un Mozart ambiguo: ne scoprimmo il gioco, la sensualità, la consolazione, l’ oscurità, la coscienza della disfatta. Erano approcci diversi e talora opposti; ma una cosa li accomunava: in ciascuno di essi potenti sollecitazioni animavano l’ ascolto. Forse è ciò che manca all’ esperienza di oggi. Si parla molto di Mozart, ma si ascolta la sua voce distrattamente. Il contatto è magari quotidiano, confortato da tecniche raffinate e da repertori esaustivi; ma è povero di eccitazione, di fantasia: non ha motivazioni profonde. Io credo che bisogna ritrovare il senso del legame con Mozart anche a costo di imporsi, intorno alla sua immagine, un temporaneo silenzio. Sogno anni di concentrazione severa sulla difficoltà, sulla densità, sulla trama sottile della parola di Mozart; e che sia un’ epoca iconoclasta, che eserciti, sull’immagine, una rigorosa censura, e vieti che si diffondano storielle, e figurine, sul personaggio. Forse il silenzio su Mozart sarebbe il modo migliore di prepararsi alle celebrazioni del ‘ 91, che sono ormai alle porte”.
Il silenzio non ci fu. Anzi, contribuii in prima persona a spezzarlo perché mi interessavano proprio le storielle e le figurine, e infatti stavo radunando carte e materiali per quello che sarebbe diventato “Mozart in rock”, che Samonà non vide mai. Ma ero affascinata dalle parole dello scrittore e non del musicologo, dello scrittore che si proclamava dilettante e capiva benissimo, invece, l’ambiguità mozartiana. Così, telefonai al centralino di Repubblica e gli chiesi un appuntamento. Che mi diede subito. Ci andai infagottata in un cappotto punk troppo caldo per la primavera di quello che, credo, era il 1988. Gli feci domande probabilmente sciocche, mi diede risposte profondissime. Non chiedetemi dove sono gli appunti, perché dopo due traslochi sono volati via nel paradiso delle parole perdute. Però ricordo bene che mi accompagnò fino in strada, dopo la chiacchierata, e che andando via, sudando nel cappottone punk a quadri, mi dissi che aveva del miracoloso ottenere attenzione e ricevere bellezza da un maestro, io,  una donna poco più che trentenne che sbarcava il lunario scrivendo di televisione per Il Secolo XIX di Genova e facendo uffici stampa di teatro e strappando lavori a morsi e interrogandosi sul futuro. Così dovrebbe essere, mi sono detta allora, e questo è rimasto impresso nella mia memoria. Perché a volte basta un incontro di un’ora per dare speranza. E per ricordare e ringraziare, molti e molti anni dopo.

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