(Hisham Matar, Il ritorno)
Passato lo sconcerto, e poi anche l’arrabbiatura, e poi la malinconia (sono i giorni del Salone, e potrei ripetere a memoria tutto quello che si fa nelle ore della giornata: la mattina si studia, si arriva al Lingotto, si saluta, si sbocconcella, si guarda, si va in onda o si fanno presentazioni eccetera), adesso rifletto.
E rifletto proprio sulla cura. Quanto l’abbiamo usata, questa parola? Giusto cinque anni fa, nei giorni sgomenti della pandemia. E proprio stamattina, al primo sole, guardavo le ortensie, le rose, i cespugli di lavanda e rosmarino, e insomma godevo del giardino come sempre faccio appena sveglia e pensavo che no, non va. Non è che non vado solo io, quello è irrilevante. Non va il fatto che in cinque anni non siamo riusciti a parlare dei nostri traumi collettivi e ci spostiamo o sulla notizia del giorno o sul trauma in corso, dimenticando quello che abbiamo alle spalle.
Mi chiedo come sia possibile che si parli così poco della pandemia e di quei terribili mesi di chiusura nelle nostre case. Altri libri, in altre lingue, cominciano a narrare quei momenti. Per noi sembra essere più faticoso: per meglio dire, parliamo dei libri che abbiamo scritto durante la pandemia e il lockdown, ma non della pandemia e del lockdown. Siamo stati toccati, tutti, dal dolore, in modi diversi, e abbiamo giocherellato con quel nastro di seta che è la perdita, e puoi aggrovigliarlo o lisciarlo quel nastro, ma sempre nelle tue mani resta, qualunque sia la gioia che proverai di nuovo. Siamo ancora storditi da un trauma e da quel trauma, sia che l’abbiamo negato sia che l’abbiamo accolto, è ancora qui, e non abbiamo fatto in tempo o voluto ragionarci sopra.
Nel suo bellissimo “Il ritorno”, Hisham Matar racconta dei sentimenti contrastanti che prova tornando in Libia dopo decenni:
“Sono viaggi senza dubbio temerari, e quello cui mi accingevo avrebbe potuto privarmi di una capacità che avevo coltivato con enorme fatica: la capacità di vivere lontano dai luoghi e dalle persone che amo. Joseph Brodsky era nel giusto. E anche Nabokov e Conrad. Artisti che decisero di non tornare. Avevano tentato, ognuno a suo modo, di guarire dal proprio paese. Ciò che ti sei lasciato alle spalle è dissolto. Torna e dovrai affrontare l’assenza o il disfacimento di ciò che piú amavi. Ma anche Dmitrij Šostakovič, Boris Pasternak e Nagib Mahfuz erano nel giusto: mai lasciare il proprio paese. Parti e ogni legame con l’origine sarà reciso. Sarai come un tronco morto, duro e cavo. Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?”
Come non ricacciare nel pozzo nero il dolore provato cinque anni fa?
Non troverò le risposte, ma la cura è anche questo: porsi domande.
Grazie per aver scritto del fatto che non abbiamo cura per analizzare il portato della pandemia (nella letteratura e nella vita).
Noto in me la traccia che ha lasciato, dal punto di vista psicologico e nei comportamenti. Credo davvero che abbia segnato un cambio di passo per ciascuno e per tutti ma tendiamo a rimuoverlo. Non a caso, siamo tornati ad agire come se non fosse successo, come all’epoca dicevamo non avremmo (più) dovuto fare.