AVERE CURA E NON CURARE: PORSI DOMANDE

Finché Ulisse è perduto, Telemaco non può andarsene di casa. Finché Ulisse non è a casa, rimane sconosciuto ovunque.
(Hisham Matar, Il ritorno)
E così sono di nuovo autoconfinata a casa. Analizzo quello che è accaduto in questo mese abbondante: l’euforia per la forma fisica non solo ritrovata, ma accresciuta, il primo intoppo nella stanza d’albergo di Torino, a metà aprile, con uno strano dolore che non passava, e poi passava a forza di massaggi e antinfiammatori, e poi ogni volta che partivo tornava più forte, fino alla definitiva resa di Rimini (carino, no? Sembra il titolo di un podcast di Barbero) quando, percorrendo in lacrime i trecento metri dalla stazione all’albergo, ho capito che dovevo fermarmi. Sono ferma, appunto, con la prospettiva di un mese di fisioterapia con e senza macchinari e con una tendinopatia dell’ileopsoas, che sarà pure il muscolo dell’anima ma ha il nome di un colonnello greco dei tempi andati e pure l’atteggiamento.
Passato lo sconcerto, e poi anche l’arrabbiatura, e poi la malinconia (sono i giorni del Salone, e potrei ripetere a memoria tutto quello che si fa nelle ore della giornata: la mattina si studia, si arriva al Lingotto, si saluta, si sbocconcella, si guarda, si va in onda o si fanno presentazioni eccetera), adesso rifletto.
E rifletto proprio sulla cura. Quanto l’abbiamo usata, questa parola? Giusto cinque anni fa, nei giorni sgomenti della pandemia. E proprio stamattina, al primo sole, guardavo le ortensie, le rose, i cespugli di lavanda e rosmarino, e insomma godevo del giardino come sempre faccio appena sveglia e pensavo che no, non va. Non è che non vado solo io, quello è irrilevante. Non va il fatto che in cinque anni non siamo riusciti a parlare dei nostri traumi collettivi e ci spostiamo o sulla notizia del giorno o sul trauma in corso, dimenticando quello che abbiamo alle spalle.
Mi chiedo come sia possibile che si parli così poco della pandemia e di quei terribili  mesi di chiusura nelle nostre case. Altri libri, in altre lingue, cominciano a narrare quei momenti. Per noi sembra essere più faticoso: per meglio dire, parliamo dei libri che abbiamo scritto durante la pandemia e il lockdown, ma non della pandemia e del lockdown. Siamo stati toccati, tutti, dal dolore, in modi diversi, e abbiamo giocherellato con quel nastro di seta che è la perdita, e puoi aggrovigliarlo o lisciarlo quel nastro, ma sempre nelle tue mani resta, qualunque sia la gioia che proverai di nuovo. Siamo ancora storditi da un trauma e da quel trauma, sia che l’abbiamo negato sia che l’abbiamo accolto, è ancora qui,  e non abbiamo fatto in tempo o voluto ragionarci sopra.

E’ un sistema che mostra le crepe, questo in cui viviamo, e scava fossati e solitudini, e lascia povertà e angoscia, e sarebbe bello se riuscissimo, se non a ribaltarlo, a immaginare almeno strade diverse per il dopo.
Penso anche al significato che abbiamo dato alla parola cura. Diversi anni fa  ho discusso con un amico su come la cura delle radici potesse essere considerata un’inversione di marcia, persino un’involuzione conservatrice, dal momento che essere cittadini del mondo è l’obiettivo comune. Sì, ho risposto io, teoricamente hai ragione. Purché l’obiettivo, che è e resta comune, non cancelli il passato, con furia. Purché di quelle radici si conservi memoria, e appunto si prosegua la cura. Tornare in provincia, che  per quanto mi riguarda è la marca maceratese, e constatare che il desiderio neanche troppo taciuto di chi dovrebbe averne appunto cura è spopolarlo, mi fa insistere sul desiderio di diffondere quell’attitudine di cura.
Nel suo bellissimo “Il ritorno”, Hisham Matar racconta dei sentimenti contrastanti che prova tornando in Libia dopo decenni:

“Sono viaggi senza dubbio temerari, e quello cui mi accingevo avrebbe potuto privarmi di una capacità che avevo coltivato con enorme fatica: la capacità di vivere lontano dai luoghi e dalle persone che amo. Joseph Brodsky era nel giusto. E anche Nabokov e Conrad. Artisti che decisero di non tornare. Avevano tentato, ognuno a suo modo, di guarire dal proprio paese. Ciò che ti sei lasciato alle spalle è dissolto. Torna e dovrai affrontare l’assenza o il disfacimento di ciò che piú amavi. Ma anche Dmitrij Šostakovič, Boris Pasternak e Nagib Mahfuz erano nel giusto: mai lasciare il proprio paese. Parti e ogni legame con l’origine sarà reciso. Sarai come un tronco morto, duro e cavo. Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?”

Come trovare questo equilibrio? Come non regalare alle destre la parola origine? Come avere cura delle radici e dell’essere nel mondo, insieme, contemporaneamente?
Come non ricacciare nel pozzo nero il dolore provato cinque anni fa?
Non troverò le risposte, ma la cura è anche questo: porsi domande.

Un pensiero su “AVERE CURA E NON CURARE: PORSI DOMANDE

  1. Grazie per aver scritto del fatto che non abbiamo cura per analizzare il portato della pandemia (nella letteratura e nella vita).
    Noto in me la traccia che ha lasciato, dal punto di vista psicologico e nei comportamenti. Credo davvero che abbia segnato un cambio di passo per ciascuno e per tutti ma tendiamo a rimuoverlo. Non a caso, siamo tornati ad agire come se non fosse successo, come all’epoca dicevamo non avremmo (più) dovuto fare.

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