AVERE VENT'ANNI (DIREBBE MTV)

Cosa si trova sull’ultimo numero di Stilos, da oggi in edicola? Per esempio, un forum curato da Paolo di Paolo sugli scrittori ventenni di casa nostra.
Voilà la prima domanda, con relative risposte.
(la vostra eccetera, invece, si trova, per l’imperscrutabilità del Fato, questo pomeriggio da Mel, per presentare questo insieme a lui e lui).

Da quanto tempo coltivi la passione per la scrittura? Quando hai cominciato a pensare alla pubblicazione?

IVANO BARIANI: Sarebbe divertente se un giorno scoprissimo che l’imprinting si gioca tutto nell’arco dei dieci secondi di quando uno ha appena imparato a scrivere. Di solito cominci col tuo nome, io almeno credo quello. Il bamboccio che sei guarda il foglio e se nei paraggi c’è un adulto e ti arriva una carezza, bam, comincia a incurvarsi quel circolo vizioso per cui impari a cercare gratificazioni nella scrittura; altrimenti ciccia, uno impara a farsi bello con le addizioni, con la bicicletta senza mani, con la masturbazione, con un mix delle precedenti. Poi, con gli anni si peggiora. Sempre. La pubblicazione invece è il contrario della rivoluzione, bisogna parlarne un sacco ma non pensarci mai.

MARTINA BERRETTINI: Non posso dire con precisione da quanto scrivo. Fin da quando ero piccola, «componevo» poesie, certo, innegabilmente infantili e banali a rileggerle adesso. Quello che ho sempre amato era inventare storie, intrecci complicati e spesso inverosimili, surreali, che poi narravo a mia sorella. E a volte, partendo da queste ispirazioni, buttavo giù qualcosa su carta. Non c’è stato un momento in cui ho deciso di scrivere seriamente: è sempre stato qualcosa di molto spontaneo. Così, parlare di «coltivare questa passione» è strano: la sento come qualcosa che ho sempre amato, e che, soprattutto ora, mi concede una libertà di esprimermi molto più ampia di quella che avrei altrimenti. Essendo arte, intesa come espressione di sensazioni e fantasie, di passioni, mi fa sentire libera.

GIULIA CARCASI: È una passione che c’è da sempre, da quando avevo sei anni, pensavo che la scrittura fosse un gioco della fantasia, poi ho capito che non è un gioco e che richiede sensibilità. Verso i dodici anni ho cominciato a scrivere di me, era un modo per fare ordine, la carta asciuga le emozioni, le riduce all’osso, ti fa vedere l’essenza di quello che vivi. Alla pubblicazione non pensavo: scrivevo per leggermi, non per far leggere. E neanche ora, che ho un libro stampato alle spalle, m’importa di una nuova pubblicazione: mi sono promessa che non entrerò nel meccanismo per cui se non pubblichi un libro all’anno scompari dagli scaffali, non ballerò la tarantella dell’editoria, i libri non si sfornano come il pane, hanno tempi d’impasto più lunghi. Quello che m’importava e mi importa ancora oggi è capirmi attraverso quello che scrivo, lavorare sullo stile, riuscire a dire cose complicate nel linguaggio più spicciolo possibile, dire molto in poco spazio.

CLAUDIA CATALLI: Da sempre: ancora prima di imparare a scrivere a mano, battevo sui tasti della vecchia Olivetti dei miei. A sei anni circa scrissi il mio primo racconto: "La lucertolina dalla coda blu", o qualcosa di simile! Quanto mi piacerebbe ritrovarlo… Concretamente, ho cominciato a pensare alla pubblicazione qualche mese prima della Maturità. Sentivo l’esigenza di confrontarmi con un pubblico più ampio rispetto alla tenera cerchia di lettori fatta di amici-compagni-professori liceali. Una sensazione strana, accompagnata dal classico timore di non essere all’altezza e dallo scetticismo verso i prodotti editoriali così detti «giovanili» che stavano avendo successo in quei mesi.

MARGHERITA FERRARI : Cominciai a scrivere per caso, all’età di quattordici anni. Fu grazie al mio blog. Inizialmente lo utilizzavo come valvola di sfogo, sapendo che nessuno l’avrebbe letto. Il mio stile prese corpo dopo mesi di interventi ed attirò una certa affluenza di lettori. Non ho mai pensato seriamente alla pubblicazione.

PEPPE FIORE: Di preciso non me lo ricordo. Anzi sì, mi ricordo che a otto o nove anni avevo cominciato un romanzo che imitava penosamente il mio videogioco preferito dell’epoca (si parla dell’Amiga 500): era la storia di un tizio che andava indietro nel tempo e   si ritrovava nell’antico Egitto. Là si innamorava di una schiava e poi si scopriva che lui era in realtà un faraone o qualcosa del genere. Ci ho riempito tre o quattro taccuini (grandi) e poi ho smesso. Lettori: uno. Mia zia Anna (la moglie del fratello di papà),maestra elementare sovrappeso con la passione della pittura a olio. Apprezzò molto. Per arrivare a pensare alla pubblicazione, da lì sono passati più o meno quindici anni.

SIMONE MARCUZZI: Scrivo narrativa da circa sei anni. Il pensiero della pubblicazione è giunto recentemente,credo in maniera molto naturale. Ho per così dire notato che scrivere mi divertiva e mi faceva stare bene da ormai molto tempo, e allora mi sono detto: perché non provare a incanalare questa passione, questa «forza», in qualcosa di strutturato?

FLAVIA PICCINNI: Scrivo da quando sono piccola, piccolissima. Era l’unica cosa che non mi costava fatica, che mi veniva naturale. Alla pubblicazione, sinceramente, non ci ho mai pensato. Sono stati i premi che ho vinto l’anno scorso, in particolare il Campiello Giovani, a convincermi.

JACOPO REALI: Ho iniziato a scrivere prosa, senza però abbandonare il mio primo amore (la poesia), con Solo per caso, a quindici anni, in seguito ad un periodo non proprio felice della mia vita, cui si fa riferimento nel libro. Inizialmente pensavo di distribuirlo solo agli amici intimi, poi, mia madre e mio nonno, per farmi una sorpresa, lo fecero pubblicare in mille copie a loro spese, solamente a Livorno dove vivo. Le copie, incredibilmente, finirono presto, e quelle poche che rimasero vennero inviate a varie case editrici, fino alla risposta affermativa della e/o di Sandro Ferri.

ANDREA SANTOJANNI: Iniziai a scrivere da piccolo, piccoli romanzi che ben pochi hanno letto. Ma non credo che ci sia qualche speranza di riesumarli, anche se spesso rimpiango quella spensieratezza e quella fortissima ironia adolescenziale, che rendeva quella scrittura molto casta. Alla pubblicazione iniziai a pensare grazie alla mia insegnante di letteratura dell’istituto professionale, a cui dissi che avevo scritto qualcosa. Quando lesse il romanzo mi spinse a consegnarlo nelle mani di qualcuno, perché era un romanzo molto sensibile. Sfruttai il suo consiglio, e in un certo senso la sua guida.

MATTIA SIGNORINI: Ho sempre scritto. Ma credo anche sia una cosa comune un po’ a tutti. Soprattutto quando esci da quella specie di limbo che sono le medie e ti capita di entrare nel gran calderone delle superiori. Il mondo ti arriva in faccia, tutto in un colpo, e ti accorgi che la maggior parte delle cose non vanno per il tuo verso. Erano anche gli anni in cui si suonava in un gruppo e si cercava di vedere più film possibile. E in cui volevamo diventare un po’ tutti rockstar o registi o, certo, scrittori. Credo di averci pensato in maniera seria dopo che sono finiti quegli anni e sono cominciati gli altri, quelli più densi ed elettrici dell’università. C’erano troppi stimoli e la necessità, in qualche modo, di capirci qualcosa.

25 pensieri su “AVERE VENT'ANNI (DIREBBE MTV)

  1. “Sin da piccino… quando vedevo una penna … agitavo le braccine… “. Ecco, tutti così, a ribadire il concetto che scrittori prima si nasce, poi si diventa. Io, almeno, di me ho scritto:
    “Pare che la sua vocazione di scrittore (particolarmente precoce e ossessiva) sia da collegarsi a un oscuro incidente occorsogli all’età di due anni (precipitò per tre metri a testa in giù da una tettoia). (Mio blog, “Libri & canzoni di protesta”, 9 maggio 2006)

  2. E mai nessuno che parli di se stesso e della propria bravura (Bariani, per esempio, è bravo veramente). Io, per esempio, scrivo perché – realmente – non so fare altro altrettanto bene (e ci ho messa anche l’allitterazione). Attaccherei piastrelle nei bagni, se mi venisse così istintivamente.
    [Ste]

  3. vent’anni, certo.
    Di lavori forzati, a tutti loro.
    Scherzo, eh.
    Dieci anni dovrebbero bastare.
    (per dire: la risposta di bariani mi fa paura. A ventanni. Non uno che abbia rovesciato il tavolo in testa al porgitore di domande vecchie di vent’anni)

  4. Io non “scrivo istintivamente”. Mi “viene da scrivere istintivamente”. Al limite “scrivo bene” oppure “scrivo malissimo”. Oppure “scrivo cose necessarie”. Oppure “scrivo cose non necessarie”. Ma non “scrivo istintivamente”. “Scrivessi istintivamente” non azzeccherei una consecutio temporum. Così come non sarebbe granché un bagno “piastrellato istintivamente”. Diverso è se ogni volta che vedo un bagno mi viene voglia di piastrellarlo “istintivamente”.
    “Istintivamente” rifuggo da chi postilla a caso, per esempio.
    [Ste]

  5. scrivevo senza sapere che può esser arte, scrivevo a scuola per adempiere ad un dovere, poi è nata l’esigenza di trovare ancòre della memoria nel presente, di riportare fedelmente in un diario emozioni, scoperte, sentimanti a cui mi affacciavo, lasciarli lì decantare nero su bianco,con dentro tutto il sapore di me…da “grande” ho continuato a friggere pensieri nella testa come nei sogni a mantecarli nella carta sapientemente con il colore dell’inchiostro, per me la passione per cui palpito.

  6. Adesso vi svelo perché scrivo. Quando ero piccino piccino ricevevo, ogni mese, un pacco di libri da una mia zia che dirigeva una scuola magistrale. Mi zia era una suora, la madre superiora del convento e anche le insegnanti lo erano. Mia zia viveva a Massa-Carrara e io in Sicilia, in provincia di Trapani. Dunque, riceveno questo pacco e dovevo leggere tutti i libri e poi stilare una recensione per ognuno di essi. Raccoglievo le recensioni e le inviavo a Massa. Restavo in ansa per circa quindici giorni, poi arrivava puntualmente la risposta di mia zia nella quale confutava, apprezzava, puntualizzava le mie “analisi”. I libri, spesso erano delle edizioni Paoline. Quando mia zia tornava in Sicilia per le vacanze estive mi interrogava spietatamente su tutti i libri che mi aveva inviato. Insomma, questa cosa è andata avanti per anni. Ma invece di causarmi un’allergia verso i libri mi ha causato un forte attaccamento alla scrittura: sì, come esito di una specie di coazione a ripetere, va bene, ma oggi se non riesco a fare a meno dei libri è merito (colpa?) di mia zia.

  7. Scrivo per esistere, per lasciare qualcosa di me agli altri, pur non essendo niente, pur non avendo altro. Ritengo che ognuno di noi possa scegliere tra lo status di evento unico e quello di presenza nella memoria. Cosa rimane, altrimenti, se non una pagina bianca ?
    Ogni volta che riusciremo a meritare l’attenzione di un lettore avremo colmato la distanza che separa la penna dal foglio e, al tempo, saremo sopravvissuti a noi stessi.
    La mia eredità, se mai qualcuno vorrà riceverla, sarà fatta solo di parole.

  8. “Scrivere, per poco che sia, mi ha aiutato a passare da un anno all’altro, dato che le ossessioni espresse sono affievolite e, per metà, superate. Produrre è uno straordinario sollievo. E pubblicare non meno. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che ti diventa esteriore, che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti o logorarti. L’espressione ti diminuisce e impoverisce, ti solleva dal peso di te stesso, l’espressione è perdita di sostanza e liberazione. Essa ti svuota, dunque ti salva, ti priva di un sovraccarico ingombrante.” (E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione)
    insomma è un po’ come fare la cacca

  9. Scrivere è viscere, se c’è non ne puoi fare a meno. Ecco l’istintività…Tra i giovani scrittori più o meno ventenni che ho letto ne mancano all’appello almeno due o tre di sicuramente talentuosi…

  10. Scrivere per me è fare a meno del mio IO ingombrante che pesa come un macigno e batte come un basso molesto. Devo fare a meno di me stesso, per scrivere. Non ho mai tenuto un diario o parlato di me nelle mie pagine.

  11. a scuola, io, ero un disastro. non riuscivo a stare ferma, mi buttavano sempre fuori. a casa i compiti, gli esami, insomma, non riuscivo a fare niente che non mi piacesse. e voi direte che scoperta questa, che non riusciva a fare niente che non le piaceva, dove sta lo spirito di sacrificio nei giovani? non lo so, dove sta; almeno in me. scoprire la scrittura, l’unica cosa che mi tiene attaccata ad un tavolo, davanti ad uno schermo per più di dieci minuti, mi ha permesso, oltre che riuscire a bilanciare le insufficienze, di calmarmi; piano piano. Ed è per questo che dico che è l’unica cosa che non mi costa fatica, perchè è l’unica cosa per cui non mi alzerei mai. neanche per fumare. sarà romantico e ridicolo, lo è. ma tant’è.

  12. a scuola, io, ero un disastro. non riuscivo a stare ferma, mi buttavano sempre fuori. a casa i compiti, gli esami, insomma, non riuscivo a fare niente che non mi piacesse. e voi direte che scoperta questa, che non riusciva a fare niente che non le piacesse, dove sta lo spirito di sacrificio nei giovani? non lo so, dove sta; almeno in me. scoprire la scrittura, l’unica cosa che mi tiene attaccata ad un tavolo, davanti ad uno schermo per più di dieci minuti, mi ha permesso, oltre che riuscire a bilanciare le insufficienze, di calmarmi; piano piano. Ed è per questo che dico che è l’unica cosa che non mi costa fatica, perchè è l’unica cosa per cui non mi alzerei mai. neanche per fumare. sarà romantico e ridicolo, lo è. ma tant’è.

  13. per effe, o herzog, o come ti chiami te: solo una domanda: perché avresti preferito un ribaltamento di tavolo? sospetto che sia perché ho 25 anni. quindi: questo è il mio odio.
    ti odio, effe, o herzog, o come ti chiami te. fai bene ad aver paura di me.

  14. ma grazie, cara LL, di avere segnalato quest’articolo, che mi sembra divertente (ed è stato divertente, e istruttivo, metterlo su). A presto, Paolo Di Paolo

  15. Dico questa cosa, e la dico di passaggio, non so neanche a quando risalga questo post in cui mi sono imbattuto googleggiando altro. Però io non credo che nessuno dovrebbe “sentirsi bene mentre scrive” o “provare piacere a scrivere”. Credo invece che gli scrittori dovrebbero sentire appieno “il malessere della scrittura”, “il tormento delle parole”, in caso contrario non avrebbe senso fare quello che fanno. Ci sono forse solo due modi di scrivere: andare verso il linguaggio o andargli contro. Immersi nelle corrente delle parole, possiamo fare due cose: o farci trascinare o risalire alla sorgente.

  16. Scrivere per me è fisiologico come mangiare e pisciare…
    Naturalmente non è solo questo nel momento in cui decidi di rendere pubblico quel che scrivi: in questo caso diventa comunicazione…
    Giulio

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