BIBLIOGRAFIA DISARMATA: ANNA BRAVO

Anna Bravo (1938-2019). Perché io Anna l’ho conosciuta, stimata, amata moltissimo per il suo pensiero. Ci scrivevamo, ogni tanto. Nella sua ultima mail  mi diceva questo:

“Ragionare in termini di identità equivale a classificare gli individui, che invece sono molte cose diverse nello stesso tempo, e possono cambiare. Classificare i comportamenti, nella loro contraddittorietà e imprevedibilità, mi sembra più giusto, perché è un giudizio circoscritto e in qualche modo “provvisorio”, e anche perché non pretende di spiegare tutto, che sarebbe da matti. Ti faccio un esempio che mi sta a cuore. Nell’Italia di questi anni, anziché dire che qualcuno ha vinto o perso, si dice spesso che quel qualcuno è un perdente (o un vincente). E’ uno slittamento orribile dal giudizio sul comportamento al giudizio sull’identità. Nel primo caso infatti si evoca un singolo episodio in un percorso di vita che può trasformarsi; nel secondo si tira in ballo un “tipo umano” immodificabile, direi predestinato – e si riduce il mondo alla contrapposizione bellicista tra forti e deboli, furbi e sprovveduti, capibranco e gregari, che secondo me è razzista ( e, questa sì, davvero berlusconiana). Non so se in altre lingue esista una simile involuzione linguistica e culturale”.

Ecco, Anna è stata una storica, una studiosa, una femminista che un anno prima di morire ha ricevuto il Premio Nazionale Nonviolenza. Ma aveva militato, prima, in Lotta continua. E ha spesso raccontato, nei suoi bellissimi libri, il suo punto di vista (specie in La conta dei salvati).

C’è un bell’intervento su Gli Asini che lo esplicita, e ne traggo alcuni passi:

“Il tema della forza, della violenza, è riemerso con prepotenza negli anni in cui “militavo” in Lotta continua. Anche in quel caso, fino ad un certo periodo non ho avuto la capacità, per timidezza o “spirito di corpo”, di prendere una posizione pubblica. Poi però, il coraggio l’ho trovato. Perché ormai una cosa appariva indiscutibile: non si può andare avanti, anche quando si sia “dalla parte giusta”, con l’inconsapevolezza delle conseguenze della violenza sulle persone; non solo su quelle che colpisci ma anche su te stesso e su chi è intorno. La violenza diventa in quel caso un fattore deformante di tutta una collettività.

Mi colpì moltissimo la lettura dei ricordi della guerra di Spagna di Simone Weil, che, avendola conosciuta da vicino, la definiva più o meno in questi termini: “fra gli uomini armati e la popolazione disarmata c’era un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Gli armati erano arroganti e avevano l’aria di quelli che comandano; la gente senza armi era intimidita, sottomessa, a disagio”. Lei stessa, arruolatasi per una causa che rimaneva giusta, verificava come le armi segnavano una frattura nella democrazia interna al Fronte Popolare.

Anche i servizi d’ordine, all’interno dei gruppi e dei movimenti politici di cui ho fatto parte, avevano effetti simili: espropriavano la parte non “militarizzata”. A quel punto, mi è venuto abbastanza naturale iniziare una ricerca, non solo accademica, sulla violenza.

Non è stato semplice. L’accusa di “revisionismo” me l’hanno fatta, e non solo per In guerra senz’armi. E ovviamente non faceva piacere. Per non parlare del metodo, che era ancora da costruire, e lo è anche adesso

Tra gli storici c’è un’implicita accettazione dell’idea che siano la violenza e la guerra che fanno la storia. In realtà, come diceva Gandhi, se fosse stata egemone la guerra noi non saremmo vivi. Quindi, la domanda vera, anche da una prospettiva storiografica, è chi abbia risparmiato il sangue nelle grandi vicende storiche e come abbia fatto”.

E ancora:

“La nonviolenza ha una marcatura teorica forte che viene da Tolstoj, Thoreau, Gandhi, per citare i pensatori nonviolenti più famosi, e ha nel tema della “trasformazione interiore” il suo tratto distintivo più importante. La nonviolenza è una politica fattiva che però implica la presenza, se non di una ideologia, di una teoria e di una metodologia.

La resistenza civile è una cosa diversa. È stata tematizzata alla fine del secolo scorso, ma non ha un vero e proprio nocciolo “teorico”. Per questo Jacques Sémelin, lo storico francese che ha messo a fuoco il concetto, ne dà una definizione molto generale. La resistenza civile ha preso forma perché la gente non possedeva le armi, o non ne aveva l’accesso. In molti dei casi che ho raccontato, se avessero avuto le armi, forse le avrebbero usate. Prendiamo il caso dell’Italia del ’43: le donne non avevano accesso a fucili e granate. Magari non le avrebbero volute o sapute usare, ma non è certo. In altri casi le persone decidono consapevolmente di limitare la violenza. Questo anche tra i resistenti. In Emilia Romagna alcuni “vecchi compagni” – quelli con una formazione socialista-umanitaria alla Prampolini – non volevano uccidere. «Non mancavano certamente di coraggio!» racconta un commissario politico, ma non volevano “sparare all’uomo”. L’idea di sparare addosso a un essere vivente come loro… non ce la facevano. Luciano Casali, uno storico di Bologna, mi ha fatto conoscere la documentazione. Anche per questo, nei Gap, hanno cercato di mandare avanti i giovani, una scelta che ebbe una portata molto grande, e insieme il grande rischio dell’assuefazione alla violenza, di cui parla un opuscolo diffuso sulle Funzioni del commissario politico, che sempre Casali mi ha fatto conoscere.

In questo senso la resistenza civile è una cosa in cui non sempre c’è una esplicita presa di posizione nonviolenta. Spesso non c’è. Qualcuno può essere, magari per ragioni religiose, alieno dalla violenza, ma non c’è una teorizzazione della nonviolenza come mezzo per ottenere un obiettivo politico o impedirne altri.

Durante la risalita della penisola, i nazisti volevano avere davanti territori il più possibile vuoti, quindi costringevano le popolazioni ad abbandonare le città. A Carrara le donne – tra cui le donne dell’Udi – si sono opposte e sono riuscite a impedire che si sfollasse totalmente la città. Non so se si possano definire nonviolente. Semplicemente hanno usato ciò che avevano a disposizione: cioè la forza d’urto di tanti corpi femminili tutti insieme. A cui si è aggiunto il valore simbolico di una massa di donne in protesta: anche se la politica era quella del terrore, era difficile mitragliare delle donne inermi su una pubblica piazza. Che poi alcune di quelle donne fossero o no, nonviolente è difficile capirlo. Sicuramente erano “pacifiche”.

Questo concetto del sangue risparmiato, infine, l’ho usato per sviluppare di più il tema dell’agire in modo consapevolmente “protettivo della vita” anche in situazioni di guerra guerreggiata e anche senza possedere una teoria di riferimento. Alcune delle persone che “salvano” non hanno minimamente idea della tradizione della nonviolenza. Ho scelto questa definizione per dare conto di una cura e una difesa che riguarda i corpi, le vite concrete, non dei simboli o dei valori o degli obiettivi generali. Anzi, non c’è altro obiettivo che salvare. Mentre le pratiche di resistenza civile sono finalizzate a un risultato, qui l’obiettivo coincide con l’azione.

A volte si è trattato di accadimenti così rapidi, che non c’era tempo di elaborare un’etica dell’azione. Alcune “spiegazioni” delle donne che nel ’43 hanno agito per risparmiare sangue sono molto interessanti, sono per lo più legate alla relazione e non ai principi. Non dicono: “L’ho nascosto perché era giusto nasconderlo”. Ma piuttosto: “Se non lo nascondevo io, cosa faceva?”. Si riferiscono più al bisogno dell’altro che a un imperativo categorico. E i loro comportamenti sono “eversivi” al di là delle motivazioni, perché trasgredivano alle leggi in vigore, che erano quelle fasciste di Salò: siamo di fronte a una divaricazione tra “legittimità” – che è legata a un concetto di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto – e “la legalità”. Non dimentichiamoci che in quegli anni l’azione morale di aiuto ai perseguitati era illegale, l’azione criminale di perseguitarli era la legge. Solo l’illegalità, per certi versi, era morale. Loro prendono la decisione morale. Ma non in modo politico, o ideologico – alcune sì, ma la maggioranza no. Loro prendono queste decisioni perché non credono ai criteri di innocenza e colpa sanciti dal potere e si trovano di fronte persone che non sanno cosa fare o dove andare. Per molte conta la fede religiosa, ma non tutte le donne religiose scelgono di proteggere chi è in pericolo, quindi bisogna accettare che non si può spiegare tutto. Mi ha sempre colpito Hannah Arendt, che collega i comportamenti morali all’attaccamento verso se stessi, al bisogno di potersi guardare allo specchio senza doversi vergognarsi delle proprie azioni.

Non si tratta esclusivamente di comportamenti femminili. Un contadino di cui ho letto nel libro di un inglese Eric Newby aveva speso quasi tutti i suoi soldi per mantenere dei prigionieri. E quando alla fine della guerra gli chiedevano perché, lui rispondeva: “Avevano bisogno. Cos’altro potevo fare?” E un altro dice: “era impossibile mandare via qualcuno se aveva fame”.

Si tratta di tre categorie – nonviolenza, resistenza civile e “sangue risparmiato” – che si costeggiano, a volte si sovrappongono. La nonviolenza è come un fiume con diversi affluenti. Fra questi, resistenza civile e “sangue risparmiato” hanno un rapporto di contiguità. La resistenza civile però è spesso usata per indicare azioni di massa, di gruppi, azioni organizzate, insomma: mentre il sangue risparmiato può valorizzare un popolo ma anche la singola persona, che ha nascosto quel prigioniero, quel soldato, quell’ebreo. È più centrato sull’individualità, sulla materialità dei corpi, e su motivazioni anche molto semplici. Tante parole sprecano i complici e i carnefici per giustificare quello che hanno fatto, tanto poche ne usano questi attori del “sangue risparmiato”. Forse perché non avevano avuto bisogno di meditare a lungo, era bastata loro la consapevolezza che i crimini restavano crimini anche una volta legalizzati dal governo e tollerati dalla maggioranza. ”

Leggetela, ricordatela, amatela.

N.B. Comunicazione di servizio: la prossima settimana il blog non sarà aggiornato. Si torna martedì 24 maggio, dopo il Salone del Libro.

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