BREVE STORIA DI LUNGHE ETICHETTE: SUI GENERI LETTERARI

Forse, negli infiniti discorsi sulla letteratura (se debba consolare e se debba turbare e se  quella capacità di turbare basta a giustificare testi di scarso valore, e naturalmente viceversa), ne andrebbe fatto uno sul cattivo rapporto che la letteratura stessa, in Italia, ha con i generi. Sempre sospettati di essere infimi in quanto vendibili, sempre considerati minori.
Accade, a metà degli anni Zero, con i gialli: nonostante il filone del giallo d’autore,  il medesimo veniva considerato (e forse è ancora così)  “paraletteratura”.  All’epoca, Gianni Biondillo disse una cosa molto semplice quanto ancora non digerita: “per un architetto la questione del genere non esiste, e io sono un architetto. Nessun architetto si sognerebbe mai di dire che un progettista di chiese è più bravo di uno che progetta grattacieli, o fabbriche”. In realtà il giallo italiano non è mai stato di basso rango. Non ai tempi di Scerbanenco, e poi di Fruttero e Lucentini. Non nella fase di nuovo vigore legata agli autori “glocal”: i bolognesi del Gruppo 13 (Loriano Machiavelli, Pino Cacucci, Carlo Lucarelli, Danila Comastri Montanari, Marcello Fois fra gli altri) e i “duri” milanesi dell’amato Andrea G.Pinketts. Non negli iperpopolari Camilleri e Faletti. Non, infine, nell’ondata degli anni Zero che includeva personalità diversissime: Sandrone Dazieri, Raul Montanari, Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto, Girolamo De Michele, Giuseppe Genna. Quel che accadde allora è che il giallo si trovò  al centro di una discussione culturale da cui era stato a lungo escluso: c’era chi lo accusava di essere una facile scorciatoia per le parti alte delle classifiche, e dunque combatteva una dura battaglia contro la restaurazione culturale eleggendo Faletti a simbolo negativo. E c’è chi ribatteva che è semmai la letteratura “alta” che stava perdendo di vista il lettore, come ammoniva Paco Ignacio Taibo II: “Qual è stato il momento in cui il romanzo è diventato un esperimento di linguaggio e ha perduto la sua natura di arte maggiore, di arte del narrare?”.
Poco tempo ancora, e iniziarono a piovere  Templari. E con essi il Santo Graal, la Sacra Sindone e altre apprezzabili varianti sul tema della Reliquia. Ma anche scoperte scientifiche antiche di secoli e nei secoli celate, nonché opere d’arte o papiri o versi immortali o feuilleton di apparenza innocente: qualunque cosa, insomma, nascondesse un enigma, e dietro a esso un complotto che, se svelato, poteva cambiare, se non le sorti, la percezione del mondo reale. Fu l’ondata seguita al successo  di Dan Brown e de Il codice da Vinci con la conseguente bulimia editoriale che avrebbe poi toccato per una brevissima stagione il fantastico in versione romance (dopo Twilight) e che oggi brucia una generazione e più di autori sulla pira dell’autofiction: ma all’epoca, il mystery suscitò la stessa reazione. Astutamente pop. Piumini da cipria della classifica. Tornò l’antico disdegno critico verso l’Umberto Eco  de Il nome della rosa e poi de Il pendolo di Foucault. Nonché, sul versante spagnolo, de Il club Dumas (1993) dove Arturo Pérez-Reverte riproponeva il concetto dell’indagine applicato ad un’opera d’arte “come se fosse un delitto”. Anche allora si parlò di  doppia funzione consolatoria dell’impianto: da una parte la nobiltà del manufatto dove si cela il mistero, o comunque la presenza nella trama di illustrissimi della letteratura, o dell’arte, o della scienza (Dante, Galileo, Leonardo) lusingherebbero il lettore fornendogli un falso status culturale. D’altro canto, la possibilità di spiegare il caos del mondo con una semplice cospirazione rassicurerebbe i consumatori dell’immaginario, che questo continuerebbero a cercare sin dai tempi del vecchio best-seller firmato Pauwels e Bergier, Il mattino dei maghi, e poi nei tormenti televisivi di Fox Mulder e Dana Scully. Fu Marc Augé a fornire l’ipotesi più interessante a proposito di Dan Brown e dintorni:  “L’enigma che sta all’inizio della storia si proietta sul mondo a noi più familiare, e sembra trasformarlo; sì spiega così, per esempio, l’afflusso di turisti nella chiesa di Saint Sulpice a Parigi per ritrovare le tracce di un vecchio tempio pagano, e questa è anche la prova che non tutto nelle finzione è pura invenzione. Contrariamente agli artisti realisti che vogliono che la finzione sia investita dalla realtà, queste persone sono animate dal desiderio che la realtà sia penetrata dalla finzione”. Il desiderio, insomma, era quello di un racconto che spiegasse il reale (non così incomprensibile, come esigenza, non così nuova).
All’epoca la fantascienza era ancora nello stallo post-cyberpunk (le cose sarebbero e sono cambiate, ovviamente). Allora si guardava con attenzione al passato dopo il vacillare dell’idea di futuro. Lo spartiacque era Matrix, con la sua idea di un reale solo apparente dietro il quale esisteva (ancora!) un complotto volto a far credere che l’umanità intera veniva manovrata da minacciose entità. In Matrix non c’è futuro, ma una ripetizione ciclica e programmata del passato. E lo stallo della fantascienza classica stava proprio nel fatto che, dopo le “visioni del presente” del cyberpunk, non riusciva più a rappresentare un possibile domani. Come diceva Valerio Evangelisti, “accade sempre più raramente che un romanzo di fantascienza proponga il racconto di società alternative. Quel che è stato espulso dalla cultura occidentale è l’idea dell’utopia: di alternativa, di cambiamento radicale dei presupposti stessi della società. Nella percezione della gente c’è il giorno dopo giorno, non il futuro ”.
Cosa intendo dire? Che i discorsi di dieci o quindici anni fa oggi avrebbero molto meno senso, perché è la funzione stessa del genere a essere cambiata. Cosa scrive DeLillo se non “fantastico”? O Ishiguro? O McEwan? O Sandra Newman? O Tiffany McDaniel? Solo, nessuno di loro viene giustamente incasellato dentro un genere: che è territorio utilissimo da cui trarre un canone per poi piegarlo a un’esigenza narrativa. Chi è, allora, che continua a usare quel parametro? L’editore, certo. Ma anche il lettore: che, da ultimo, davvero chiede un po’ troppe carezze ai libri. Che certamente sono via di piacere e di intrattenimento. Ma proprio per questo non dovrebbero più entrare in uno schema, o nello scaffale dedicato. So di averlo scritto più volte, ma è difficile, difficilissimo, farlo capire.

Un pensiero su “BREVE STORIA DI LUNGHE ETICHETTE: SUI GENERI LETTERARI

  1. Ci fu una discussione sulla questione del giallo parecchi anni fa qui su Lipperatura.
    Come allora mi sento di ribadire che non c’è nulla di male nel considerare il giallo, inteso come gioco, qualcosa di diverso dal romanzo. Non è un caso che in Italia le storie di detection non abbiano mai attecchito. Non c’è una stagione giallistica nella prima parte del ‘900 pari a quella inglese o americana.
    E quindi più che un considerare il giallo un genere inferiore si dovrebbe porre l’attenzione sul fatto che si intenda il gioco un genere inferiore, come se scrivere (o architettare per rifarsi all’inizio del post) “Le tre bare” sia un “gioco da ragazzi”…

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