SCRIVERE DA IMPLICATI: DA SARTRE AL MERCATO DELL'IMPEGNO

So bene che, allo stato attuale, sembra fuori posto, fuori tempo, fuori tutto parlare di letteratura e presenza politica di chi scrive: laddove per presenza politica intendo il desiderio raccontare davvero il mondo, e non il modo in cui quel mondo si rapporta al solito Sé, non le turbe che ha provocato e provoca nell’adolescente o nella giovane persona o nella persona non giovane e tradita dalle ferite che essere nel mondo comporta. So anche che si rischia, gravemente, l’equivoco: perché nel tempo di oggi è facilissimo usare una problematica e una rivendicazione (ambiente, femminismi, diritti LGBTI, movimenti dei neri e dei latinos, vita dei marginali e dei poveri) per darsi una patina che porterà consensi e plausi e riconoscimenti e “oh, che commovente attenzione alla nostra società”.
Questo discorso è diventato difficile. Per quanto ci si possa sgolare a portare esempi (Tolkien e la battaglia delle Somme, King e gli americani impoveriti e rancorosi, Atwood e il gender backlash), per quanto si possa dire che in molti casi quello che è considerato evasione e intrattenimento in realtà affondanella vita vera e nel suo lago di tenebre, la dicotomia che ci attraversa in ogni campo sembra dividere in due quel che non è divisibile, perché la letteratura è fatta di commistioni e di sfumature. Di qua gli intrattenitori, di là gli apparentemente impegnati che però trasformano quell’impegno in non molto più di uno slogan su una maglietta.
E’ diventato difficile, ma non impossibile. Così, uso parole non mie per provare a spiegarmi. Parole fuori tempo. Parole del 1945. Parole di Jean-Paul Sartre per presentazione di “Temps Modernes”:
“Noi non vogliamo aver vergogna di scrivere, e non abbiamo voglia di parlare senza dire niente. Del resto, anche se ce lo augurassimo non ci riusciremmo: nessuno può riuscirci. Ogni scritto possiede un senso, anche se assai diverso da quello che l’autore aveva creduto di infondergli. Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso, per timore che andasse a infoltire le truppe rivoluzionarie. […] Noi non vogliamo perdere niente del nostro tempo; forse ce n’è di meglio, ma è il nostro tempo; non abbiamo che questa vita da vivere, con questa guerra, questa rivoluzione, forse. Non se ne deduca, però, che vogliamo predicare una specie di populismo: al contrario. Il populismo è un figlio di vecchi, il triste rampollo degli ultimi realisti; è ancora un tentativo di cavarsela a buon mercato. Noi siamo convinti, invece, che non si può cavarsela a buon mercato. Fossimo anche muti e quieti come sassi, la nostra passività sarebbe ugualmente un’azione. Qualcuno potrebbe consacrare la vita a scrivere romanzi sugli Ittiti; ma la sua astensione sarebbe di per sé una presa di posizione. Lo scrittore è “in situazione” nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche. […] In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella società che ci circonda. E con questo non intendiamo un mutamento di anime: lasciamo ben volentieri la direzione delle anime agli autori che hanno una clientela specializzata. Noi che, senza essere materialisti non abbiamo mai distinto l’anima dal corpo e non conosciamo che una sola, indecomponibile realtà, quella umana, noi ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso. […] Se potremo mantenere quanto ci siamo ripromessi, se potremo far condividere i nostri punti di vista a qualche lettore, non ne trarremo un orgoglio esagerato; ci feliciteremo semplicemente d’aver ritrovato una buona coscienza professionale, e del fatto che, almeno per noi, la letteratura sia tornata a essere quella che non avrebbe mai dovuto cessare d’essere: una funzione sociale”.

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