Paura. Poco fa ho ascoltato distrattamente un video che stavano guardando qui in casa, e riguardava un branco di lupi, non so dove. La giornalista incalzava: “la gente ha paura!”. Già, è la parola d’ordine dei tempi nostri. Paura dei migranti, sempre e comunque. Paura della criminalità. Paura della guerra (certo). Paura della povertà. E poi ci sono le altre costanti: paura dell’abbandono, paura del mancato riconoscimento, paura degli altri in assoluto.
Molti anni fa, Telmo Pievani scrisse un articolo importante per Le Scienze del 2012. Ricordava che le reazioni istintuali che ci hanno abituato a distinguere “noi” dagli “altri” sono sempre in agguato e condizionano le nostre preferenze implicite.
Il rimedio viene da 2666 di Roberto Bolaño. E’ l’elenco delle paure fatto dalla dottoressa Elvira Campos, e termina così: “Ma se ha paura delle sue paure la sua vita potrebbe diventare una continua osservazione della paura, e se queste paure si attivano, si crea un sistema che alimenta sé stesso, una spirale a cui le sarebbe difficile sfuggire”.
Categoria: Cose che accadono in giro
“Se l’opinione del signor Licio Gelli era un’opinione giusta, non si vede perché non si debba seguire solo perché l’ha detto lui”
(Carlo Nordio, Ministro della Giustizia).
P sta per Propaganda. La P2 è quella che si chiama Loggia deviata, o anche organizzazione eversiva. Gelli ne è ai vertici dal 1970. L’anno del Golpe Borghese, a cui prende parte, e nessuno lo saprà fino al 1991, quando verrà pubblicato il dossier integrale del Sid, che Andreotti ha censurato personalmente “per non provocare un terremoto politico”. Tutto ha, tutto sa, Licio Gelli: fascicoli dei servizi segreti sui politici, le chiavi delle stragi. Inclusa quella di Bologna. Perché quella parola, Bologna, sarà ritrovata su un foglietto da cui non vuole separarsi al momento del suo arresto a Ginevra, il 13 settembre 1982.
Un anno dopo, Francesco Pazienza, faccendiere, racconta di aver collaborato con Licio Gelli per sorvegliare Roberto Calvi, banchiere di Dio, presidente del Banco Ambrosiano, coinvolto nello scandalo della lista P2, pronto a rivendicare, prima della bancarotta, i favori fatti ai potenti. Pronto a dichiarare che 15 milioni di dollari provenienti dai servizi segreti americani erano stati utilizzati da Licio Gelli per finanziare chi ha messo la bomba alla stazione di Bologna. Calvi muore impiccato sotto il ponte dei Frati neri il 17 giugno 1982. Il suo corpo viene trovato il giorno dopo, il 18, con i mattoni nelle tasche e una corda arancione al collo.
Molto più tardi si scoprirà che la Loggia P2 aveva finanziato l’attentato all’Italicus e aveva istigato a compiere la strage. Non solo quella. Ci sarà, ancora una volta, Bologna, e il depistaggio che Gelli attuò con l’affiliato P2 Pietro Musumeci, sistemando una valigia di armi, esplosivi, biglietti aerei, documenti falsi (ancora una volta, ancora) sul treno Taranto-Milano. Ci sarà la bancarotta del Banco Ambrosiano. E i morti. E il famoso piano di Rinascita Democratica di cui Gelli parlò a Maurizio Costanzo (tessera 1819) sul Corriere della Sera diretto da Franco Di Bella (tessera 1887).
Ho ripensato stamattina alla morte di Piergiorgio Welby, a dicembre saranno diciannove anni. Ricordo bene la battaglia, ricordo bene il Vicariato di Roma che gli nega i funerali religiosi, ricordo pure le parole del cardinal Ruini (“Io spero che Dio abbia accolto Welby per sempre, ma concedere il funerale sarebbe stato come dire “il suicidio è ammesso”). E poi, leggendo qua e là, da una parte mi convinco che qualche passo avanti è stato fatto nel nostro immaginario, perché la discussione sull’addio delle sorelle Kessler è molto più rispettosa di allora, e ci mancherebbe altro.
Non so per quale strana e tortuosa associazione, stamattina ho pensato anche a William Burroughs e a una sua sceneggiatura nel 1970, Le ultime parole di Dutch Schultz, ispirata al vero monologo del boss moribondo.
Racconto tutto questo solo per ricordare che la letteratura è in grado di aprire squarci che la cronaca, almeno molto spesso, non riesce neanche a vedere. Specie quando quella cronaca si nutre delle nostre parole sui social. Ma questa è storia vecchia, credo.
Subito dopo la prima ondata di Covid e relativo lockdown, se ricordate, si è aperto un lungo dibattito, forse mai chiuso, sullo spazio pubblico e su come sarebbe dovuto cambiare. Si parlò, allora, di rivoluzione urbanistica, di città più aperte alla cura e alla condivisione se non addirittura alla Bellezza, con la maiuscola. Si parlò, ebbene sì, di verde urbano, e si parlò di collegamenti più diretti con i borghi, che erano da rivalutare e prendere a esempio.
Non solo non è andata così, ma credo che ci sia un altro fattore da considerare, ed è la percezione diffusa secondo la quale lo spazio pubblico non esiste. O meglio: ogni spazio dove ci si trova è, per definizione, “mio”. In altri paesi si discute, per esempio, dell’ormai inarrestabile abitudine di non usare gli auricolari in treno o in metropolitana, con la conseguenza di venir sommersi di musiche, moltissimi reel dei social, partite e film, telefonate in viva voce con mamma o fidanzato o collega di lavoro, giochi per bambini con fischi e filastrocche e tutto quello che chi si sposta conosce perfettamente.
Non è una questione di maleducazione, secondo me. O non solo: è la convinzione profonda che lo spazio in cui ci troviamo a muoverci per qualche ora non sia condiviso con gli altri ma appartenga unicamente a chi telefona o guarda o quel che volete. Non so se la causa sia da rintracciarsi nel nostro aggrapparsi alla comunicazione on line durante il lockdown. Ci vorrebbe un sociologo o uno psicologo delle masse e io non lo sono. La sensazione che ho, invece, è che quella barriera sia caduta: se io sono qui, le regole sono le mie.
Per fare un esempio, è come se io fossi la presidente del consiglio e invece di mantenere il mio ruolo istituzionale, zompettassi sul palco cantando “chi non salta comunista è”: ma questo, come si sa, è impossibile.
Conclusione con aneddoto torinese e un consiglio di lettura per adulti: un piccolo e prezioso libro di Leo Lionni, “E’ mio”. Ma Leo Lionni è l’autore di “Piccolo blu e piccolo giallo”, finito negli anni scorsi nella lista dei libri pro-gender (no comment), e chissà come verrebbe interpretata la proposta.
Alla fine di questa settimana, bisognerà mettere in fila gli infiniti post, commenti, riflessioni sul lavoro culturale. Sono stati tantissimi, ognuno ha un tassello da aggiungere, nessuno (per forza di cose) ha la soluzione in tasca.
Quattro punti, per ora, da discutere insieme.
Uno. Perché le riviste culturali online pagano meglio dei giornali? Si dirà, perché hanno gli abbonati. Giusto. Ma stiamo parlando di circa il doppio del compenso per un articolo. Non tutte, ovvio. Alcune fra le più importanti sì, però. Qui bisognerebbe aprire, allora, non una riflessione ma un’azione che riguarda le collaborazioni con i quotidiani.
Due: non partecipare più gratuitamente almeno ai grandi festival (sui piccoli c’è un altro discorso da fare).
Tre. Perché non si riesce a unirsi? Questa è la domanda che è venuta fuori più volte: quando parlo di unirsi, intendo non solo confrontarsi con tutte le parti della cosiddetta filiera, ma con tutti i lavoratori e le lavoratrici non del mondo culturale che in questo preciso momento affrontano la stessa crisi.
Quattro. Il lavoro culturale ha una componente di quella che viene chiamata Fomo, Fear of missing out, ovvero il timore di perdere visibilità. E’ inutile negarla, c’è, viene ritenuta parte indispensabile del lavoro culturale e in parte lo è. Però bisogna ragionarci sopra. Leggendo, come giustamente consiglia Raimo su substack, due fra i molti libri segnalati, il già citato “La conquista dell’infelicità” di Raffaele Alberto Ventura e “Le grandi dimissioni” di Francesca Coin, che contengono analisi e spunti di reazione e anzi di ribellione e anzi di una possibile rivoluzione.
Che non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta delicatezza.
A maggio 2023, Vincenzo Latronico scrisse un articolo che si intitolava “Presentare stanca”, dove raccontava quel che alcuni già sanno, ovvero che in Germania, per dire, si pagano non solo i presentatori dei libri, ma anche gli autori. La faccenda delle presentazioni è solo una parte del problema, evidentemente. E peraltro pone a chi scrive un paio di dilemmi. Parlo di me: non so se mi farei pagare per presentare un mio libro, e credo anzi di no, perché non è solo una questione di autopromozione, ma la possibilità concreta di incontrare altre e altri, che quel libro lo hanno letto o hanno intenzione di farlo, e dal momento che credo che questo sia un aspetto importantissimo dello scrivere, direi che non sono del tutto d’accordo (se n’è parlato a lungo durante la polemica sulle presentazioni, in primavera, e su Lucy sulla cultura trovate ancora la mia intervista a Wu Ming 1 in proposito).
Però per i libri degli altri è diverso. In realtà, il lavoro andrebbe fatto in primo luogo su se stessi. Se penso agli impegni che ho preso per la prossima edizione di Più Libri Più Liberi mi arrabbio con me stessa: perché se si escludono quelli dove presento un mio libro o un libro in cui sono coinvolta (come L’isola riflessa di Fabrizia Ramondino), nei fatti lavorerò tre giorni senza alcun compenso. Certo, sono abbastanza vecchia da usufruire di un reddito, non combatto (non più, come è avvenuto fino ai miei 45 anni) con il precariato: ma non è una scusa, perché se io lo faccio gratuitamente fornirò un alibi ai committenti per continuare a comportarsi così.
Questo è solo uno degli aspetti da prendere in esame: resto però convinta che occorra unire tutti i tasselli della cosiddetta filiera, librai, traduttori, scrittrici e scrittori, organizzatori di festival eccetera. Ieri ho partecipato a un incontro online organizzato da Icwa (Italian Children’s Writers Association) dove tutte le figure interessate dicevano più o meno questo, che agire separati ha poco senso. Ma c’è un punto centrale: per farlo, bisogna superare quello schermo che porta a voler parlare sempre e soltanto di sè.
Torno sul lavoro culturale, e pazienza per chi sbuffa. Sto leggendo diversi interventi di vario orientamento. E ci sono, secondo me, un paio di punti da chiarire: lavoro culturale non equivale a scrivere libri. Incredibile che occorra puntualizzarlo, ma puntualizziamo allegramente: lavoro culturale è scrivere articoli, scrivere testi per la televisione o per la radio, organizzare eventi, manifestazioni e festival, insegnare, fare ricerca e una marea di altre cose che, volendo, hanno a che fare con la narrazione. Lo scrive nella sua newsletter Giulia Blasi, che aggiunge:
“La gente della cultura piace a malapena alla gente della cultura, per tutti gli altri siamo dei fighetti che non hanno mai lavorato in vita loro, e che – a seconda di chi parla – sono dei figli di papà o dei poveri illusi, più la prima che la seconda. Nessuno pensa di avere bisogno di noi”.
C’è un secondo equivoco, più interessante. Ovvero, si pensa che Bazzi, che ha sollevato la questione, voglia vivere dei suoi libri. Sospetto che sia questo che ha inteso Emiliano Ereddia, che è peraltro un bravissimo scrittore, nel suo articolo su substack, dove racconta di come, per potersi permettere di fare letteratura, lavori per la televisione.
Temo ci sia un equivoco, visto che siamo tutti consapevoli del fatto che per scrivere bisogna sottrarre ore al sonno e alla vita sociale, perché tocca lavorare. Ma dai? E’ quello che fa il 98% delle persone che scrivono, e forse anche il 99%: la questione del lavoro culturale non sta nelle singole lamentazioni, che finiscono sempre per attribuire ogni male alla presunta casta-cricca-cerchio, che a sua volta strappa con i denti il tempo per scrivere visto che non si vive di scrittura, tranne pochissimi (che se lo sono meritato, vorrei dire) e tranne i ricchi (che però non sono così tanti, in ambito letterario). Se faccio un elenco mentale e parziale di scrittori e scrittrici che conosco, so che lavorano quasi tutto il giorno per poter scrivere: sono insegnanti di lettere o insegnanti di sostegno, librai, grafici, programmatori, autori televisivi o radiofonici. Sono anche meccanici, pizzaioli, bancari, medici, postini, impiegati. Qualcuno prova a barcamenarsi con le sole collaborazioni (e chi, nella generazione trenta-quaranta, non lo fa?), e ammucchia traduzioni, articoli pagati male, consulenze, editing. Quel che intendo, è che nessuno è così poco realista da pensare che di letteratura si viva. E nessuno dovrebbe mai puntare il dito sul lavoro principale, diciamo così, che ti permette di scrivere, di notte o all’alba o durante le feste comandate. La questione è semmai un’altra: è come veder pagato decentemente il lavoro che deriva dalla scrittura, o che ruota intorno alla scrittura, come le presentazioni dei libri altrui (è un lavoro), la partecipazione a convegni (è un lavoro), le consulenze che ti vengono richieste (è un lavoro). Questo e solo questo è il punto.
Ogni tanto riemerge, ma troppo poco spesso, la questione del lavoro culturale: continuo a usare questa definizione perché la trovo ancora corretta, e riguarda coloro che provano a guadagnarsi da vivere con le parole, le immagini, la musica e tutto quanto ruota intorno alla produzione di quella che chiamiamo cultura. Certo, continuare a usare i termini scelti a metà del Novecento da Luciano Bianciardi comporta oggi un rischio: quello di vivere la parola “culturale” come privilegio, in opposizione agli altri lavoratori.
Perché le cose sono molto diverse, oggi. Economicamente, per cominciare: non solo perché i compensi sono bassissimi, ma perché tutto il resto (affitto, spesa, trasporti e tutto quel che volete) è aumentato in modo sproporzionato ai salari. E soprattutto è diverso il contesto.
In un libro molto interessante, La conquista dell’infelicità, Raffaele Alberto Ventura spiega che la crisi del nostro tempo si deve alla contraddizione fra le promesse della modernità, che assicura la realizzazione personale e il fiorire dei talenti di ognuno, e l’impossibilità di realizzare quell’aspettativa. Nei fatti, chi ha potuto realizzarsi davvero negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, finanzia la lunghissima formazione di figlie e figli affinché possano a loro volta realizzarsi, cosa che avviene molto di rado. E quando avviene, la conquista di pochi causa l’infelicità dei molti che non ci sono riusciti.
Ma su questo sfondo, e convinta che, come diceva Jonathan Galtung (sociologo, matematico, pacifista norvegese) There are alternatives , ci sono sempre alternative, credo che si possa almeno tentare di procedere per passi. Riprendo il discorso che mi sta a cuore (comunità, territori) sapendo che resta centrale, e penso che soltanto provando a costituire una rete si possa ottenere qualcosa.
Inoltre, anche se è marginale, sarebbe bene smetterla, potendo, di raccontare di sé. Sarà una mia fissazione, ma mi risuonano sempre le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Fra i tanti libri che si scrivono sulle madri (incluso quello, bellissimo, di Arundhati Roy, Il mio rifugio e la mia tempesta) ce n’è uno che ho scoperto ieri, e non è ancora stato tradotto in Italia. E’ quello di Molly Jong-Fast su sua madre, Erica Jong, How to lose your mother, e racconta non solo la sua storia complicata, quella di una donna che fin da bambina è stata raccontata nei romanzi di Jong. Ma anche la demenza che ha colpito la madre nel 2023.
Ora, che io nutra un antico amore per Erica Jong è cosa nota. Ebbene sì, ho letto tutti i romanzi di Jong, e non solo perché Paura di volare ha significato moltissimo per la mia generazione, che ha scoperto che si poteva scrivere di sesso con libertà e ironia, ma perché Jong è stata (orribile usare questo è stata) una scrittrice che ha preso parola raccontandosi in una corsa selvaggia e gioiosa nel mondo che cambiava, restituendone luci e ombre. E raccontando i cambiamenti delle età: dalla giovinezza radiosa alla maternità alla menopausa fino alla vecchiaia e a quell’ultimo romanzo di dieci anni fa, Fear of Dying (‘Paura di morire’) che in Italia è diventato Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato, probabilmente perché la parola “morire” era impronunciabile.
Oggi, infine, Molly scrive di lei, perché lei, in effetti, ha difficoltà a riconoscerla, da quanto racconta. “Fingo di essere assolta, o almeno al sicuro nei miei giudizi pubblici su di lei, perché so che non potrà mai leggere quello che scrivo?”.
Arundhati Roy ha detto di aver scritto il romanzo su sua madre, Mary, solo dopo la sua morte. E quel romanzo è un gigantesco atto d’amore, e non solo di guerra. Come, da quanto capisco, quello di Molly Jong-Fast. Mi interrogo su quanto sia difficile, per chi scrive, andare a cacciare le mani nel rapporto madre-figlia. Mi interrogo, in assoluto, su quanto le storie che raccontano della famiglia, sia pure apertissima, provochino infine dolore.
Sono tornata, il mio computer è vivo, i file no ma li sto recuperando lo stesso dalle mail e da una solida memoria esterna ferma però a un anno fa, ma va bene lo stesso. Nel frattempo, molte cose sono accadute, e altre continuano a non accadere, e finché continuano a non accadere temo che resteremo in stallo (nonostante sporadici sprazzi di speranza come quello che viene da New York).
Però facciamo un passo indietro.
Nel 2002 Kim Stanley Robinson, scrittore americano di fantascienza, pubblica “Gli anni del riso e del sale”: dovendo proprio trovare un’etichetta, è storia alternativa, laddove, nel romanzo, la peste nera del Trecento ha fatto ancor più morti della realtà, il 99% della popolazione europea (invece del 30%) è scomparsa e a prevalere sono altre culture: islamica, cinese, indiana. Ora, Robinson è intervenuto diversi anni fa sul New Yorker a proposito del coronavirus: ci richiamava a quel che eravamo prima della pandemia, al nostro vivere nel mondo senza sentirlo, e al momento storico che attraversiamo.
E soprattutto ci dice che, anche se tutto dovesse tornare magicamente com’era, non dimenticheremo la primavera del coronavirus.
E invece l’abbiamo dimenticata. Perché continuo ad aggirarmi smarrita fra la dimenticanza, e fra divisioni ancora fortissime e dolorose.
“Solo una cosa non c’è, ed è l’oblio”, diceva Borges. Ecco, invece c’è , come se non avessimo vissuto, e vivessimo ancora, un momento davvero storico, qualcosa che doveva rimanere indelebile nella nostra memoria, nel nostro immaginario, nella nostra quotidianità. Non troviamo le parole per dirlo, perché le nostre parole sono state sgretolate: le troveremo, forse, ma quel che è spaventevole è credere di poter cancellare tutto con uno schiocco delle dita, come una delle solite polemiche sui social, che oggi le segui e domani te le scordi, qualunque sia l’argomento.
Robinson dice un’altra cosa importante, e non la dice perché è di parte: dice che la fantascienza è il realismo dei nostri tempi. Gli scrittori di fantastico non sanno tutto, non predicono il futuro: ma mettono insieme i puntini, diciamo così, e magari aiutano chi legge a orientarsi meglio nella mappa del nostro presente (non il futuro, il presente).
Per esempio sanno qualcosa che dovremmo sapere tutti, e lui la ricorda: che gli “stupidi slogan” di Thatcher (“la società non esiste”) e Reagan, che ci hanno segnato per mezzo secolo, stanno finalmente, forse, mostrando la corda: “siamo individui, come le api, ma esistiamo solo in un corpo sociale più ampio. La società non è solo reale, è fondamentale, e non possiamo vivere senza. E ora stiamo cominciando a capire che questo “noi” include molte altre creature nella nostra biosfera e persino in noi stessi”.
Questo è quello che dicono gli autori di fantascienza, che mai entreranno nella cinquina del Campiello, ma, a volte, vedono lontano. E forse, nonostante il nostro oblio, qualcosa sta accadendo davvero.