Un lungo post sulla questione delle saghe “al femminile” dove, in risposta a un intervento di Francesca Giannone, provo a spiegare perché “abbiamo un problema”.
Perché la cannibalizzazione dei filoni ha avuto almeno tre precedenti: dopo l’uscita di Gioventù cannibale, nella seconda metà degli anni Novanta, quando ogni editore cercava il suo cannibale, o pulp a seconda di come veniva chiamato, purché fosse giovane e “disturbante”, qualunque cosa voglia dire. Dopo l’uscita di Harry Potter, quando la letteratura per ragazze e ragazzi è stata invasa da protagonisti un tempo osteggiati, e dunque bambine e bambini con poteri magici e animali fantastici al seguito. Dopo Twilight, quando non c’era editore che non pubblicasse storie, in genere d’amore, con vampiri, licantropi, zombie (giuro) e tritoni.
Nei tre casi, una volta finita la sbornia, nessun editore voleva sentir parlare di questo tipo di romanzi: non vende più, era quasi sempre la risposta.
E perché questa non è una questione di genere, né letterario né di appartenenza di chi scrive: è una questione di mercato. E il mercato editoriale riguarda, o dovrebbe, tutte e tutti coloro che intorno ai libri gravitano. Perché chi scrive e chi legge forse dovrebbe sapere come funziona. E tutte e tutti dovremmo porre attenzione a quella che si chiama bibliodiversità. Certo, in primis dovrebbero farlo tutti gli editori: che, mi rendo conto, sono aziende e devono vendere, e vendere il più possibile in tempi in cui d’abitudine non si vende niente, o molto poco. Ma, come mi ha scritto un’amica geniale, tropizzare i libri è un guaio grosso: e se si spinge (a Francoforte, per esempio) solo un tipo di romanzo, sì, abbiamo un problema. A meno, certo, di non occuparsi soltanto delle proprie vendite: il che è molto legittimo e in alcun modo condannabile.
Per chi, come me e altre e altri, osserva il mondo editoriale, però, indossare le vesti di Cassandra come da un decennio a questa parte entra in quel che si chiama lavoro culturale: perché alla fine i filoni si asciugano. E prima che questo avvenga, può succedere che fra decine e decine di titoli di quel filone non si riesca più a distinguere fra l’uno e l’altro.
(Le risposte non sono facili, le domande necessarie. Le pozzanghere c’entrano, come spiego alla fine)
Categoria: Cose che accadono in giro
Allora, non è la prima volta che la premier gioca la carta del vittimismo, come ha fatto in queste ore a proposito della Global Sumud Flotilla, accusata di utilizzare “la sofferenza del popolo palestinese per attaccare il governo italiano” (ehm, è una missione internazionale), e protestando per il fatto che in molti “mi accusano di essere complice di quello che accade a Gaza, che ho le mani sporche di sangue, che sono un’assassina”. Aggiungendo di non aver mai usato un linguaggio simile quando stava all’opposizione e qui per carità cristiana rimandiamo alla rete che serba memoria.
Ricordo soltanto quello che avvenne mesi fa, quando Meloni bacchettò Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Bologna, ribadendo che è grave sostenere che le “radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”. Si potrebbe rispondere, citando una frase di Tolkien che Meloni ha deformato a proprio uso e consumo, che le radici profonde non gelano. Più semplicemente, è vero che il neofascismo degli anni Settanta e il postfascismo degli anni Venti non sono identici: ma è molto difficile negare che siano due lingue della stessa fiamma (non è una metafora).
Il problema che il vittimismo governativo funziona come ha funzionato la campagna elettorale che ha portato all’elezione di Meloni: perché chi li vota non aspetta altro che di essere rassicurato sul fatto che la colpa è sempre, sempre degli altri, e mai sua.
Fra pochi giorni si vota nelle Marche, e chissà come andrà. Oggi, in uno di quei prevedibili avvitamenti della sinistra, ma anche degli osservatori e commentatori della sinistra, si riflette non su un punto chiave, ovvero la presenza della sinistra medesima nei territori, che con qualche eccezione recente sono stati abbandonati alla destra che avoca a sé anche le sagre e le tavolate un tempo semplicemente popolari, ma su come si vestono le donne di sinistra. In questo caso la sindaca di Genova, Silvia Salis, rea di aver indossato un abito “da sirenetta” per i suoi 40 anni. Era accaduto anche con Elly Schlein ai tempi dell’affaire armocromista. Mancano soltanto, ma arriveranno, i rimpianti per Moro che passeggia sulla spiaggia in giacca e sulle borsette di Nilde Jotti.
Che poi, basterebbe leggere il bellissimo “Ersilia e le altre” di Lucia Tancredi, appena uscito per Ponte alle Grazie, per capire che anche Anna Kuliscioff amava gli scialli di cashmere, le sottovesti di seta e i vestiti di Rosa Genoni, senza che questo sottraesse niente al suo pensiero e al suo essere vicina al popolo.
Sì, si chiama populismo. Che è una cosa molto diversa dall’essere vicini al popolo: perché essere vicini “al popolo” significa andare nelle periferie e non soltanto a tagliare nastri e inaugurare luoghi arcani come avviene dalle mie parti. Essere vicini al popolo significa prendere i mezzi pubblici, andare al mercato e al supermercato, andare in un pronto soccorso fra i pazienti che aspettano per ore o chiedono un appuntamento che verrà assegnato fra mesi se non anni, parlare con le persone, ascoltare le persone, prendere posizione, rischiare, sbagliare, ricominciare, sbagliare di nuovo, provare a capire, restituire.
E sinceramente se si fa tutto questo in abito di raso o in jeans e maglietta poco mi interessa.
E, sì, l’esibizione di purezza mi ha stufata: preferisco quelli e quelle che sbagliano, anche perché in genere le patenti di purezza vengono autoattribuite da chi se ne sta a casa sua, e non fra il popolo.
Per carità, non voglio fare lezioni. E a che titolo, poi? Quindi, comincio subito con una lezione contenuta in un articolo del 2001. Lo firma Umberto Eco: “l’abilità giornalistica si è atrofizzata e i giornali spendono gran parte del loro tempo a riciclare acqua calda. La simbiosi tra stampa e potere politico deriva dallo stretto rapporto tra i proprietari dei maggiori giornali e la classe politica.”
Ora, dal paradiso dei buoni maestri, se esiste, Eco forse scuoterà bonariamente la testa dopo aver letto i giornali di oggi e visto i telegiornali di ieri sera.
Perché con pochissime eccezioni (le solite, Il Fatto e il Manifesto) i giornali aprono le cronache delle gigantesche, meravigliose piazze di ieri con la notizia degli scontri milanesi. Gli stessi che hanno dato adito alla premier e alle destre tutte di dire che chi si batte per la Palestina è violento, chi è antifascista è violento, chi scende in piazza è violento. Pare che Piantedosi abbia dichiarato che il governo non vieterà mai manifestazioni e cortei. E ci mancherebbe altro: ma è gravissimo che abbia potuto soltanto dirlo.
Date un’occhiata ai giornali, vi prego, e poi date un’occhiata ai social, alle centinaia di fotografie gioiose, sotto il sole o la pioggia, nelle città grandi e in quelle piccole, nei porti e nelle piazze, e tirate le somme.
E a chi scrive oggi su un giornale vorrei ricordare che è esattamente questo il problema: raccontare a partire dall’eccezione e non da tutto il resto.
Dare la priorità al sampietrino e al cassonetto è una responsabilità dei giornali.
Fornire alibi a chi ci governa è una responsabilità dei giornali.
Questa lezioncina, che tale è divenuta, è inutile, ma tanto dovevo. E dunque la chiudo con un’altra lezione, stavolta di Borges:
“Un libro è un oggetto fisico in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva il lettore giusto e le parole – o meglio la poesia che sta dietro le parole, perché le parole in sé sono semplici simboli – tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola”.
Fatele tornare in vita, queste parole. Per favore.
Nel 1940 uno studente di 17 anni stila “il decalogo del buon danese”, con cui si invita alla resistenza nonviolenta ai nazisti la popolazione. Funzionò, e Arendt ne fu colpita e lo raccontò.
Nel 2025 il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, blocca la partenza delle armi destinate a Gaza.
E poi c’è una piccola storia che lo riguarda e riguarda me.
Domenica scorsa, prima della prolusione dantesca al Teatro Alighieri di Ravenna, ho provato il microfono e le luci. Avevo con me una barchetta di carta con i colori di Gaza: me l’avevano data, la sera prima, alcune donne che organizzano piccole e grandi iniziative simboliche. Lanciare barchette di carta, non potendo essere fisicamente su altre barche. Ho promesso che, nel passaggio della prolusione in cui citavo Gaza, avrei sollevato la barchetta per mostrarla al pubblico.
Solo che, una volta dietro le quinte, non la trovavo più: l’avevo infilata fra le pagine del testo, nel punto esatto in cui nominavo i bambini di Gaza. Mi sono data della cretina e della distratta. Ma quando sono entrata in scena, dopo il discorso di apertura istituzionale, fra cui quello del sindaco, ho trovato la barchetta sul leggio. Mi hanno poi raccontato che è stato lo stesso sindaco ad aver visto la barchetta in terra, ad averla avvicinata con la scarpa per raccoglierla e a posizionarla nel punto giusto.
Certo che è una cosa piccolissima. Anzi no. E’ un simbolo. E’ un segnale di attenzione. E ne abbiamo bisogno.
Grazie, sindaco, per tutto.
Leggo le dichiarazioni del ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, che parla di Gaza come di una “miniera d’oro immobiliare” che si “ripaga da sola. Abbiamo pagato un sacco di soldi per questa guerra. Dobbiamo capire come dividere il terreno in percentuale”. E aggiunge: “La prima fase del rinnovamento della città, la demolizione, l’abbiamo già fatta. Ora dobbiamo costruire”.
Leggo, ascolto, l’atroce frase “Definisca bambino” del presidente della Federazione Amici di Israele, Eyal Mizrahi (a un comico televisivo, Enzo Iacchetti, che qualunque cosa si pensi di lui ha avuto il coraggio di tenergli testa).
Leggo le dichiarazioni della presidente del Consiglio sulla sinistra che odia, e non solo le sue, ma delle destre del mondo che fanno quello che hanno sempre fatto, avvolgere come una spira di fumo velenoso la solitudine, la povertà, lo sconcerto delle persone.
Naturalmente non ho antidoti, come chiunque di noi, e a ogni modo non nell’immediato, perché il lavoro sarà lungo e faticoso (ma ci sarà).
Però ho un riferimento, una lettura, poca cosa, si dirà. Per quel che vale sono i racconti di Alan Moore raccolti in Illuminations.
Uno, in particolare, “Cosa ci è dato sapere su Thunderman”, dove uno dei personaggi, Worsley, guarda le immagini dell’assalto a Capitol Hill, e riflette: “Nel 2016, tutto era stato permeato da una specie di atmosfera fumettistica, non da ultimo Donald Trump, o semplicemente Il Donald, come lo chiamavano ancora i suoi sostenitori, un po’ come Thunderman e Re Fuco. Quell’anno, sei tra i dieci film più amati dal pubblico erano stati sui supereroi, e forse la gente voleva un mondo più semplice, più comprensibile. Volevano grandi nemici e drammatici colpi di scena, a prescindere dal fatto che la loro verosimiglianza fosse forzata, e volevano un personaggio tanto improbabile quanto memorabile che offrisse loro soluzioni facili e al limite del credibile, proprio come le minacce immaginarie che dovevano arginare”.
Ben ritrovato, commentarium.
Come post del rientro, scelgo un florilegio marchigiano in vista delle prossime elezioni regionali. Sul cui risultato, ovviamente, non mi esprimo, perché non sono un’analista politica né una sondaggista né una sibilla. Però riporto qui alcune parti delle rubriche scritte in agosto per l’Espresso, tanto per far capire come le destre si stanno muovendo. Da Giuli ad Acquaroli, da Castelli a Pasqui, si gioca il tutto per tutto. Anche a colpi di patrocini, libri, pecette.
Il blog va in vacanza. Non sparisco, sarò presente sui social, ma ho bisogno di lasciare che i pensieri scorrano, come ogni anno.
Però vi lascio con un consiglio. Leggete quello che ha scritto oggi sul Manifesto Sarah Gainsforth perché fra un inno e l’altro all’operato del sindaco Sala, fra una dichiarazione d’amore per Milano accompagnata dal consiglio di comprare il proprio libro su Milano, insomma fra tutto quello che si legge oggi, lei dice, almeno per me, la cosa giusta.
Tra l’altro:
“Milano ha fatto da apripista alla privatizzazione delle città cedendo in alcuni casi anche gratuitamente aree pubbliche a privati. Così oggi, si sostiene, costruire case per i ceti medi e bassi costa troppo. Ma se le case fossero costruite su suolo pubblico, a scopi abitativi e non speculativi, gli unici costi da sostenere sarebbero quelli di costruzione. E se le plusvalenze realizzate attraverso le trasformazioni fondiarie e immobiliari private fossero tassate adeguatamente, il comune avrebbe più soldi per costruire edilizia sociale e popolare. Ma a Milano la politica stessa è stata esternalizzata agli interessi dei privati e non si può neanche parlare di negoziazione pubblico-privata: a Milano hanno deciso direttamente i privati. Questo processo riguarda però tutte le città italiane; una proposta di legge sulla rigenerazione urbana prevede esplicitamente di affidare lo sviluppo delle città a soggetti privati”.
Buona lettura e buona estate.
Nel 1979 Alberto Fortis scrive Milano e Vincenzo, che ha avuto un certo successo specie per il ritornello.
Naturalmente oggi sarebbe improponibile, perché Facebook la prenderebbe come una minaccia e cancellerebbe ogni post di riferimento e Vincenzo avrebbe querelato (era, per la cronaca, un discografico, Vincenzo Micocci, che secondo Fortis avrebbe ritardato la sua carriera: poi fecero pace e nel 2010 Fortis medesimo scrisse “Vincenzo io ti abbraccerò”).
Fortis non amava i romani, tanto è vero che nello stesso anno scrisse A voi romani, piena di odio per i medesimi e secondo lui motivo di minacce che durano ancora oggi.
Naturalmente non mi illudo di spiegare quello che sta accadendo ed è accaduto a Milano con qualche strofa di molti anni fa. Però, da romana sia pur recalcitrante ci ritrovo una piccola porzione di verità. Che evidentemente non riguarda soltanto le due città, ma un sistema che non è neppure del tutto italiano, quello di una crescita a dispetto di ogni prospettiva di futuro reale, fatta di apparenza (il dannatissimo decoro) e non di sostanza (il verde urbano, l’attenzione per la parte non ricca della popolazione).
Roma e Milano non sono così distanti da questo punto di vista, e neanche altre città italiane, e non solo italiane. Tutto questo è banale, lo so, ma temo che se non ci concentriamo su questo, la nostra indignazione durerà il tempo di una canzonetta.
I sogni sono strani. Questa mattina mi sono svegliata con in testa la frase del Riccardo III di Shakespeare (e del bellissimo romanzo di Javier Marías) : “Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo: dispera e muori!”.
I sogni sono strani, evocano fantasmi, appunto, e chiedono giustizia. E in questi giorni ho diversi fantasmi intorno a me e molto sconcerto: sì, sto parlando ancora di alberi e di verde urbano e, no, non lo faccio per riposizionarmi come mi è stato graziosamente detto un paio di giorni fa facendomi rimanere malissimo, né perché la mossa prima, quella che mi ha fatto capire quanto grave sia la situazione, è avvenuta letteralmente “nel mio cortile”, con il taglio delle decine di alberi alti e sani sul terreno accanto a me che ha fatto alzare di diversi gradi, termometro alla mano, la temperatura delle case di fronte, private di ombra. Lo faccio perché è la cosa più importante che posso fare in questo momento.
Mi stanno arrivando da tutta Italia commenti e segnalazioni su tagli indiscriminati del verde urbano, tanto che non riuscirò in un solo post a riportare tutto quel che sta avvenendo. Ma quel che sta avvenendo, appunto, è che a fronte degli abbattimenti e degli scempi, esistono decine di comitati di cittadine e cittadini che provano a fermarli: anche qui, non riesco a elencarli tutti, dal Comitato Besta a Bologna alla rete di Onda. E questo, alla luce di quanto sta avvenendo a Milano, è molto interessante e importante: i cantieri, la “rigenerazione urbana”, i grattacieli, eccetera. Ma quelle due parole, “rigenerazione urbana”, tornano ovunque: e significano una sola cosa, mattoni per il decoro, preteso non si sa bene da chi e attuato in nome di una cittadinanza fantasma che desidererebbe gradoni assolati invece di verde e ombra.
Per esempio, mi arriva la storia dei platani di Venezia.