Feltrinelli celebra i suoi 70 anni con ristampe e festeggiamenti. Intanto, però, i 1200 librai Feltrinelli scioperano, oggi, per otto ore: le organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs ricordano di aver incontrato la direzione della catena di librerie lo scorso 28 febbraio, per discutere del rinnovo del contratto integrativo aziendale senza che il confronto abbia portato a nulla. L’azienda, dicono, dimostra chiusura rispetto alle richieste: l’aumento del ticket-buono pasto, per esempio. Ma non è solo questo.
Chi lavora nell’editoria, specie se piccolo editore, sa quanto sia difficile essere visibile in una Feltrinelli, e non certo per colpa di chi ci lavora. Chi lavora nell’editoria, chiunque sia, sa che occuparsi dei propri colleghi è la prima cosa da fare, che si sia editor, scrittori o scrittrici, editori o editrici. Senza i librai non si arriva a chi legge. Lavoro culturale significa esattamente questo: occuparsi di ogni anello della catena, e non soltanto degli affaracci propri.
Se ci sono testimonianze, le ospito volentieri. Solidarietà, intanto.
Categoria: Cose che accadono in giro
Care e cari, ho lavorato un po’ per fornirvi l’elenco completo della Bibliografia disarmata, un progetto che risale al 2022 e che per diversi mesi è stato al centro di questo blog. Questa bibliografia, nei fatti, è un’arma, ma argomentativa, da usare per spiegare a tutti coloro che parlano di pacifinti e anime belle e imbelli da divano che non funziona così, e che la storia della rivolta nonviolenta, in tutte le forme che ha preso nel tempo, è tutt’altro che pigra inazione. Troverete le storie di scrittori e scrittrici, da Cassola a Woolf, da Moravia a Huxley e Hugo. Troverete i profili di attivisti e pensatori, da Langer a Gene Sharp, da Dolci a Capitini. Troverete le azioni, dalla rivolta di Pratobello alla guerra contro la fosforite. Troverete le storie, i racconti, i romanzi. A ogni link corrisponde un post. Con l’augurio che sia utile, e che serva, almeno, a trovare le parole.
Oggi, su Facebook, una scrittrice e storica di luminosa intelligenza come Vanessa Roghi (leggete, a proposito, il suo La parola femminista, perché avremo occasione di parlarne) pone un problema non piccolo. I libri delle altre. Ed è un problema a varie sfaccettature, perché i social, lo si voglia o meno, sono il terreno in cui nella maggior parte dei casi passa non solo la promozione ma il racconto dei libri. Mi rendo conto che io stessa mi informo molto dai social, che spesso arrivano prima dei canali tradizionali, e che mi fido del parere di alcune e di alcuni.
Però parlo molto poco, sui social e sul blog, di libri italiani, se non per informare in poche righe di un’uscita che mi sembra significativa: parlo di più di libri stranieri, e con meno titubanza. Il motivo è semplice: detesto quell’idea malevola di sottofondo secondo la quale se parli di un testo che ti è piaciuto lo fai per amicizia. E’ peraltro interessante che questa accusa si rivolga soprattutto alle scrittrici, mentre da tempo incalcolabile gli scrittori sono decisamente disinvolti e continuativi nel sostenersi, on e off line.
Il secondo motivo risale ai tempi di Fahrenheit: se parli di un autore e autrice fai torto a chi non nomini.
Di fatto, è un problema mio.
Di fatto, è un problema comune.
Dopo il libro sulle madri, uscito nel 2013, ho anche detto che non avrei scritto altro sulle donne: smentendomi nel giro di pochi mesi, perché fu allora che Michela Murgia e io scrivemmo L’ho uccisa perché l’amavo (che tornerà, peraltro, fra non moltissimo, e sarà dunque di nuovo disponibile).
Comunque, ho ripetuto che non avrei scritto altro: non in un libro, almeno, perché sui giornali e sul blog ho continuato a parlare di donne e femminismi. Il motivo era ed è semplicissimo: era giusto che parlassero e scrivessero le altre, soprattutto più giovani di me, ed era giusto che le voci si moltiplicassero, ed era ingiusto tentare di avocare a sé qualunque tentativo di portavocismo (neologismo orribile, ma me lo passerete).
Quando Sperling&Kupfer, diversi mesi fa, mi ha chiesto di curare una raccolta di testi sulla violenza contro le donne prima ho detto no, poi ho detto vediamo, e infine, ragionandoci molto, ho detto sì. Perché era l’occasione giusta per parlare di violenza dal punto di vista culturale, e culturale significa infinite cose, dalla letteratura alla memoria familiare, dalla lingua alla mostrificazione dei corpi ai luoghi dove parlano e si incontrano le giovani persone. E dunque doveva essere un libro collettivo.
Si intitola Le parole sono uno sciame d’api, reinterpretando un verso di Anne Sexton. Perché le parole servono a raccontare e a sperare, anche, di cambiare il mondo.
E’ un libro di tutte le donne che hanno accettato di scrivere: donne diverse fra loro per professione e punti di vista, e anche per femminismi, e questa è una cosa meravigliosa, in tempi di divisioni. Grazie a Maura Gancitano, Vera Gheno, Jennifer Guerra, Giulia Paganelli, Melissa Panarello, Romana Petri, Chiara Volpato.
E a Elisa Seitzinger per la copertina.
Solo una cosa, in chiusura. Ieri ho annunciato l’uscita del libro su Facebook. Mi è stata immediatamente rimproverata, da due uomini che conosco come persone gentili, peraltro, l’assenza di firme maschili. Mi auguro che leggendo, se vorranno, comprenderanno il motivo: questo non è un saggio sociologico sulla violenza. E’ un’insieme di sguardi di donne su come quella violenza, che non è evidentemente solo fisica, viene percepita. E questo deve essere, per me. Poi, attendo un libro fratello tutto al maschile. Così come ho atteso per quasi vent’anni, invano, e avendolo sollecitato, il corrispettivo maschile di Ancora dalla parte delle bambine. Magari succede.
Due anni fa ho pubblicato questo post. Oggi leggo le parole di Nicola Aloi, già comandante della Capitaneria di porto di Crotone al momento del naufragio: «Se ci avessero chiamato un’ora e mezza prima noi li salvavamo. Perché? Perché riuscivamo ad intercettarli. Noi sappiamo che poi ti spiaggi o ti sfracelli sopra gli scogli, li fermavamo e li portavamo via. Purtroppo quando siamo arrivati non c’era più modo di fare niente se non salvare qualcuno».
Dunque, non possiamo salvare tutti, non noi, ma qualcuno poteva, e non lo ha fatto. Qualcuno, come ben sapete, si spinge anzi a insinuare che quei morti se la sono cercata, perché insomma chi ve lo fa fare a mettere a rischio la vita dei figli. Il problema è che a pensarlo, magari silenziosamente o magari no, sono in tanti, e tante, dal calore delle proprie case, le mani sulla tastiera del computer.
Non salvano, non salviamo neanche noi, che piangiamo quei morti e ci chiediamo come sia possibile.
Questa mattina, sul New York Times, ho letto un articolo di Maura Kelly che racconta prima le ansie e poi la gioia del suo trasloco. Non avrai solo una casa, ma un quartiere, le aveva detto l’agente immobiliare. Da quarant’anni, nella sua strada, i vicini organizzavano un pizza party al mese, con l’unica raccomandazione di contribuire con cibi semplici, per dare la possibilità di partecipare a chi aveva meno disponibilità economiche. La scrittrice era terrorizzata dall’idea di dover necessariamente far parte di una comunità. Anche se, racconta, aveva letto Bowling Alone di Robert Putnam ed era consapevole della disgregazione delle medesime e dell’isolamento dei singoli, almeno negli Stati Uniti, e non solo. I vicini sono invadenti, i vicini sono un incubo, voglio starmene in pace, sbotta.
Cambierà idea, ma tutti abbiamo bisogno di un quartiere. Me ne sono resa conto per l’ennesima volta ieri mattina alla Libreria Ubik Prenestina.
E, librerie a parte, abbiamo bisogno di un quartiere.
Ne abbiamo bisogno noi che scriviamo e leggiamo, per incontrarci, conoscerci, parlare, capire cosa ci accade intorno anche attraverso i libri, e questo è qualcosa che nessuna grande manifestazione culturale potrà darci, perché in ognuna di queste occasioni, pur belle e importanti, ci si limita a sfiorarsi e a salutarci da lontano, quasi sempre.
Ne abbiamo bisogno noi che siamo sconcertati e angosciati da quanto accade in questo tempo, e non è vero che i social vecchi e nuovi suppliscono: lo fanno per un po’, e in parte, ma alla fine dobbiamo ritrovarci, parlarci, abbracciarci anche (e perché la rievocazione del trauma di cinque anni fa non parla di questo? Non ci siamo potuti abbracciare, per mesi e mesi).
Se ci sarà una rivolta culturale partirà da qui. Altri, come i Wu Ming, lo fanno da anni. Stare insieme. Avere un quartiere in dono. Creare quartieri. Esserci.
Ieri sera ho pubblicato un post sgomento per quanto Silvana De Mari ha scritto, su La Verità, contro Selvaggia Lucarelli: prendendo a pretesto il non gradimento della canzone di Cristicchi (autodenunciamoci: siamo parecchi a non aver gradito), l’ha attaccata sul suo aborto con parole intollerabili. L’ho fatto perché trovo terribile che si possano impunemente scrivere articoli, ripeto, articoli, di questo tenore, e suppongo che l’Ordine dei giornalisti stia facendo il solito pisolino in proposito, ma pazienza.
Quello che mi ha colpito, ma ancora una volta non sorpreso, è che alcune commentatrici hanno, se non difeso De Mari, spezzato una lancia in suo favore per il suo essersi spesa contro i vaccini.
E questo mi riporta a un discorso molto importante, che prova a infilarsi negli articoli commemorativi di questi giorni che rievocano quanto avvenuto cinque anni fa con la prima scintilla, o il primo incendio, del Covid in Italia.
Le divisioni non sono state prese in considerazione. Il trauma continua a essere ignorato. I discorsi non accolgono il dolore e la paura collettivi. Non si fa, ancora, un ragionamento serio e riparatore sul greenpass.
E invece dovremmo.
Ripubblico un articolo di dieci mesi fa. Lo ripubblico testardamente, perché dopo cinque anni bisognerebbe parlarne e parlarne e parlarne, proprio per non lasciare alle De Mari di turno l’ultima parola per quel che riguarda le persone che hanno sofferto, ebbene sì, in prima persona l’imposizione del greenpass. Che si possa almeno discuterne ora è necessario, anche se vedo che non avviene, e probabilmente non avverrà, lasciando campo libero a chi non ha altro interesse che raccattare seguaci (sì, ancora una volta è una questione di potere e, no, non esistono poteri buoni).
La domanda è semplice: perché grandi e importanti e amate manifestazioni culturali come il Salone del Libro e Lucca Comics & Games ospitano gli stand dell’esercito? Si dirà: perché no? Pagano come tutti gli altri e usano i loro spazi.
Non proprio come gli altri: sia all’ultima edizione del Salone sia a Lucca, ho visto che quello spazio veniva usato come una piccola esercitazione, come una dimostrazione (oh, giocosa, oh, spettacolare) per convincere i giovani che l’esercito è bello. A Lucca c’erano carabinieri e paracadutisti che invitavano i ragazzi a partecipare ai loro eventi, “un’esibizione di esercizi quali obbedienza, agilità e coraggio“.
Al Salone del Libro dello scorso anno, accanto allo stand, c’era un percorso più piccolo rispetto a Lucca, ma sempre “giocoso” e affollato.
Certo, avviene anche nelle scuole, e avviene sempre più spesso. Ed è gravissimo.
Pacifismo da vecchie signore? No, pacifismo e costruzione di un immaginario diverso: proprio adesso, proprio in questi tempi tremendi, abbiamo bisogno di altro. E abbiamo bisogno che i luoghi della cultura parlino di pace, e non di guerra.
Magari succede.
Naturalmente, ognuna può vivere l’8 marzo come vuole. Partecipando, manifestando, parlando, scrivendo o addirittura ignorando: dal momento che la narrazione che sta passando è che alcune vogliono imporre qualcosa alle altre, è bene chiarire che non è vero, e che la libertà di scelta è una faccenduola che i femminismi hanno sempre difeso. I femminismi, per favore, perché sta passando un’altra narrazione velenosa, ovvero che il femminismo sia uno e uno solo.
Detto questo, esiste anche la libertà di critica. E si permetta a chi scrive un moto di stupore nel leggere l’annuncio di un convegno che sta circolando di bacheca in bacheca: è indetto dalla Fondazione Luigi Einaudi e ha per titolo I femminismi (meno male, ndl) di fronte alla cultura woke.
Ora, è interessante, e sconcertante, che si parli di “cultura woke” mentre si legge giorno dopo giorno cosa sta facendo l’amministrazione Trump per eliminare qualsiasi progetto di inclusione: dalla cancellazione delle donne nel sito Nasa all’annuncio fresco fresco del Dipartimento dell’Istruzione, che ha inviato alle scuole una lettera minacciando l’interruzione dei finanziamenti federali se avessero tenuto conto delle politiche di inclusione razziale nelle decisioni su borse di studio e assunzioni, ma anche solo accennato alla razza in “tutti gli altri aspetti della vita studentesca, accademica e del campus”.
Ora, ripeto, ognuno trascorre l’8 marzo come vuole. Dunque anche in un convegno che, presumibilmente, andrà nella direzione di parte del femminismo della differenza, peraltro molto rappresentato da ultimo , che su alcuni punti e in alcune dichiarazioni è molto vicino a quella dichiarazione trumpiana “esistono solo due sessi” . Ci sta. E’ importante parlarne ed è anche bello che ci sia uno scrittore come Albinati che ne La scuola cattolica ha ragionato meticolosamente sul maschile.
Ma Ricolfi? Ricolfi, d’abitudine, interviene sul femminismo, al singolare, in due momenti dell’anno, a marzo e a novembre, nella vicinanza della Giornata Internazionale della donna e della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sostenendo sostanzialmente un paio di concetti.
Primo: le transfemministe imbavagliano le altre. Secondo: il patriarcato è morto.
Davvero?
I femminismi sono plurali, lo ripeto fino alla nausea. Non esiste una sola visione: né, in questo momento storico terrificante, quella visione va imposta. Non quando bisognerebbe, invece, unirsi per contrastare i veri mostri che stanno uscendo allo scoperto.
Vengo in pace.
Sono stata a scuola, questa mattina, a incontrare tre classi (le ultime della scuola secondaria di primo grado) e parlare di libri. Che è cosa che faccio sempre con mille dubbi, perché credo che non ci sia niente di più pericoloso del “dovete leggere”, specie a tredici o quattordici anni. Ma era una gran bella scuola, il Viscontino, dove avevano letto Bradbury e Golding e visto Stand by me, per esempio, e qualcuno aveva già cominciato a scrivere una storia (fantasy, ed è giusto così) e le ragazze non si vergognavano di leggere romance, perché a quell’età i romanzi che allora si chiamavano rosa li abbiamo letti tutte.
Però mi è tornato in mente un vecchio articolo di Susan Sontag sulla scrittura e sulla lettura, e mi chiedo quanto tempo dedichiamo a insegnare a leggere, oltre che a scrivere. Insegnare significa, ovviamente, riuscire a districarsi nel poco tempo che abbiamo per scegliere e un libro e dedicarsi al medesimo. Scriveva Sontag:
“Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata?”