I terremoti sembrano cancellare la memoria, entrare nella narrazione che si ripete a ogni catastrofe. Invece, bisogna inseguire la memoria stessa. Compresa la più antica.
E dunque bisogna sapere che tra Serravalle di Chienti e Colfiorito si è combattuta una battaglia delle guerre puniche, che c’erano urne cinerarie e scheletri rannicchiati di chissà quale epoca negli strati profondi dell’altopiano, che c’erano i briganti e gli apostoli e i santi, e ancora, molto dopo, i campi di concentramento della seconda guerra mondiale, i montenegrini che fuggirono dai campi e si unirono ai partigiani e alcuni ne fucilarono a Cesi, altri a Copogna, altri a Serravalle. E a Serravalle, ancora quest’estate, Gigetto mi fermava dalla sua sedia che affaccia sulla piazza e raccontava di quando, diciassettenne, ai partigiani si unì.
Questa è la storia grande. Poi c’è quella piccola, personale, forse inutile, comunque propria.
Nei paesi piccoli ti conoscono quasi tutti, qualcuno ricorda ancora mio nonno Giovanni, il ciabattino, il suonatore di clarinetto, l’amante del vino, Zopoli lo chiamavano, e lui ridendo diceva “Siamo in tre: io, Giovanni e Zopoli”, perché evidentemente questa faccenda degli eteronimi scorre nella nostra famiglia insieme al sangue. Qualcuno ricorda mia nonna Leonilde, alta e bella, e per me Leonilde è una pianta, verde con fiori bianchi, perché le mie zie ne portavano sempre un ciccio a Roma e la chiamavano “la Leonilde”.
I paesi piccoli sono memoria più di un museo, eppure i musei ci sono: quello delle arti e mestieri a Pievetorina, quello del sidecar a Castriccioni, vicino Cingoli, che sta in un capannone agricolo vicino al proprietario, e, mi racconta Massimo De Nardo, che fa l’editore a Tolentino e adesso è non so dove su un camper, c’è anche un “De Dion Bouton” del 1898, un mosquito a tre ruote con una carrozzella attaccata dietro; una specie di risciò motorizzato, con la differenza che il gas di scarico finiva in faccia al trasportato. Massimo i musei li colleziona: conosce quello del martello a Sarnano, dove ci sono cinquecento varianti, martelli da zucchero, da calzolaio, da ebanista, muratore, fabbro, ottonaio, incisore, tappezziere, macellaio, orefice, medico, rilegatore, pescivendolo, alpinista, rocciatore, speleologo, giudice e scassinatore. E poi conosce il museo dei musei, il museo delle cose, che sta verso Sforzacosta andando a Macerata, e ci trovi tutto, proprio tutto, gli spazzoloni di un lavaggio auto, una cinquecento, una sirena della polizia, la testa di un manichino con una parrucca bionda, cavalli a dondolo, tubi per cavi elettrici. L’accumulatore di cose si chiama Franco Prato ed è un vigile del fuoco in pensione e anche cavaliere del lavoro. Dice Massimo:”Prima, lì, c’era uno che raccoglieva robivecchi. Il cavalier Prato ci andava spesso a trovarlo; qualcosa rimediava sempre, c’erano cose che non servivano più, ma che sarebbe stato davvero un peccato buttare”. Poi il robivecchi se n’è andato e il cavaliere ha chiesto il terreno in affitto e l’ha riempito di plastica e cose che non vedi più, l’insegna di una cabina telefonica, una lapide, una boa arancione, un manichino senza braccia su una vecchia poltrona da barbiere.
Le cose spariscono, dunque vanno ricordate.
Anche le leggende.
Come quella del lago di Pilato, che costituiva il grande richiamo per i negromanti. Lo chiamano anche Averno, ed è sotto la cima del Monte Vettore, a 1940 metri di altezza, e un tempo un muro di cinta teneva lontano gli aspiranti stregoni, e per scoraggiarli ancor di più si pose una fila di forche lungo il cammino, e si arsero streghe nelle piazze delle città, e per compiacere i demoni del lago si gettarono prigionieri nelle acque, ed eretici vennero fatti a pezzi e i brandelli tuffati nel fondo. Il lago è a forma di occhiale ed è rosso, perché un piccolo crostaceo, il Chirocefalo del Marchesoni, vive solo qui, e di rosso lo tinge. Qui si gettavano i libri del comando e prima ancora si evocava il demone, e si tracciavano dunque cerchi in terra posizionandosi nel terzo.
Cosa vuoi da me?, disse il demone. Conoscerti, rispose il negromante.
Ma i demoni sono altro, sono inconoscibili, come avrebbe detto e ha scritto l’eteronimo, i demoni sono memoria, non rimpianto. Ricordano il rumore di ogni passo e gli infiniti modi in cui l’erba può frusciare mentre la calpestano. Conservano nella mente i miliardi di forme assunte dalle nuvole e i loro colori, che passano dal latte all’inchiostro quando il temporale è in arrivo. Percepiscono come se fosse ora l’acqua cadere sul loro corpo, leggera come seta nelle giovani piogge di primavera, feroce come punte di lancia nelle tempeste invernali. Sanno, ma non provano dolore, né vorrebbero tornare ai momenti che hanno attraversato nel tempo.
Noi, invece, sì.
Grazie per i ricordi e le memorie che susciti , per le emozioni che trasmetti, ancor più preziose in questo particolare momento , perché a chi vede scomparire una parte della propria vita, sepolta sotto a delle macerie che sembrano cancellare il tuo stesso essere è di conforto sentir riportarsi echi di giorni lontani e di ritrovare le proprie radici.
Buongiorno trovo l’iniziativa meravigliosa. La condivisione, soprattutto del dolore, innalza la moralità di chi ha occhi e cuore per scrutare sotto la polvere. Oltre il dramma che caratterizza i toni legati all’emotività, ci si rende conto di quanto la vita di noi tutti sia un velo sottile e precario che riveste le nostre azioni quotidiane. Nessuno escluso, dal potente al povero, siamo tutti esposti al rischio del vivere. Posso solo immaginare, forse nemmeno a sufficienza ma guardo con occhi attenti al dolore di queste situazioni. Madre natura, tanto contemplata da noi scrittori, artisti del vivere cartaceo, molto dona e tanto sottrae, tanto quanto i vuoti dai quali siamo ingoiati. Vero, le radici sono insostituibili ed inedificabili…Grazie per l’ascolto.
Il precedente commento da “parolefritte” era mio mi scuso per non aver registrato precedentemente i dati del mio blog.