LA MADONNA, LA SIBILLA, IL BENANDARE

C’è una leggenda, nelle terre sibilline, che unisce antico e nuovo. Credo che riproporla qui sia il modo giusto, ammesso che esistano modalità giuste e sbagliate, e non siano invece tutte giuste, per concludere questa prima settimana di racconti sulle Marche e l’Umbria, che da lunedì saranno i vostri (continuate a mandarle, le vostre storie sui borghi, e io le pubblicherò).
E’ una leggenda sacra e blasfema insieme.
Sul monte Vettore c’è  la sorgente della Madonna del Telaio e la leggenda vuole che questa madonnella fosse furente per la morte del figlio e volesse, proprio lei, vendicarlo. Così si fa assumere da Pilato come sguattera, ed essendo una brava erborista, gli prepara tisane e impacchi per guarirlo dalla gotta ed entrare nelle sue grazie. Ci riesce e diventa la sua cuoca, con l’idea di avvelenarlo. Proposito che si rivela difficile, perché Pilato ha un assaggiatore, e la madonnella non vuole uccidere un innocente. L’occasione giusta si presenta quando Pilato decide di tornare a Roma, portando con sé alcuni schiavi di fiducia, fra cui Maria, e durante il tragitto visita una sua vigna che si trovava sulla via Salaria, e sale sul carro trainato da due buoi invitando la madonnella ad accompagnarlo per curarlo con le sue erbe se il cibo grasso dei contadini dovesse infastidirlo. Durante il viaggio Maria tira fuori la corona di spine con cui hanno crocifisso il figlio: ha intriso le punte con un veleno che conduce alla follia e al momento giusto la spezza a metà e conficca le due parti sotto le code dei buoi che, folli di dolore, fuggono come il vento sulla via. “Morirai di mala morte”, sibila la madonnella inferocita a Pilato. E intanto i buoi impazziti lasciano la strada, salgono in cima al monte dove c’è il lago degli occhiali e se ne vanno giù uno di qua e uno di là, cosicchè il carro si spezza e Ponzio Pilato affoga e in superficie appaiono animaletti rossicci che si nutrono del suo sangue, e renderanno rosse per sempre le acque. Maria ritorna a galla, si arrampica su una pietra e piange, perché è sola e infreddolita e triste e la vendetta non la appaga. Dio le manda allora due angeli che vogliono portarla in Paradiso ma lei no, da quello non ci vado, dice, non voglio vederlo, quello che mi ha messa incinta e sapeva come sarebbe andata a finire e nessuno mi ha mai chiesto niente, del resto, e andatevene via, voi due, o vi strappo le penne. La madonnella, rimasta sola, vaga, scende dal Vettore, sale sul monte Ascensione, beve alla sorgente, raccoglie erbe per mangiare e piange. Ed è a quel punto che arriva la Sibilla e la consola, e le dice di dimenticare, e di diventare una donna come le altre. Per questo, per la sua nuova esistenza, le dona un telaio, con cui possa filare storie di vita e non di morte.
La Madonna che tesse è allieva della Sibilla, e sette chiese dedicate a Maria si trovano in sette punti dei monti Sibillini che rispecchiano, dall’alto, la costellazione della Vergine. Vola nelle Marche la Madonna di Loreto e vola la signora del Corso, la padrona del Sabba, che era detta Sapiente Sibilla, e volano le donne della compagnia di Diana nel gioco notturno raccontato da Carlo Ginzburg, su cui Chiara Palazzolo si documentò per i suoi benandanti. Vola, ma assistita da Giovanni Battista, Nicola da Tolentino e sant’Agostino, Santa Rita da Cascia, che come la Sibilla possedeva il potere di guarire e divinare, e la potenza della Sibilla e quella della Santa degli Impossibili si incrociano, così come si mescolano l’acqua sacra di Rita e quella della ninfa Porrina, che prevede l’arrivo della santa come “la margarita che brillerà”, e proprio a Roccaporena e Cascia si riuniranno i benandanti che si opporranno infine alle streghe, e davvero infine si mischia tutto, il disco solare sulla chiesina delle Scalelle a Montegallo, e Iside e Demetra, e il telaio d’oro e le erbe magiche di Santa Polisia, e Astarte e Ildegarda di Bingen che fu detta Sibilla del Reno, e alla fine di questo, come Guerrino figlio della sventura, ci si inginocchia a dire “Non so chi sono, né da dove vengo, né dove vado”.
Ma andare bisogna. E andremo, infatti.

6 pensieri su “LA MADONNA, LA SIBILLA, IL BENANDARE

  1. Gentile Loredana, scrivo da Santa Vittoria in Matenano (FM), la terza linea del terremoto, quella non distrutta, ma che soffre perdite e ferite non meno dolorose delle distruzioni; seconda o terza linea non solo perchè il terremoto non è così prossimo, ma perchè il nostro borgo è spesso ignorato, anche senza terremoto, così lontano dalle grandi strade e immerso in una campagna collinare di infinita bellezza, che spazia dallo sky-line dei Monti Sibillini al mare che si scorge, scintillante e azzurro, nonostante la grande distanza. Eppure Santa Vittoria fu la capitale del grande e ricco presidato farfense per secoli, e operò come potente mediatrice tra il vescovato di Fermo e quello di Ascoli fino a quando, alla fine del ‘500, Sisto V, Papa Felice Peretti, volle favorire Montalto.
    Santa Vittoria è un borgo bellissimo e il suo aspetto è quasi lo stesso dell’epoca in cui ospitava, all’interno delle sue mura, le genti di tutta la regione che sfuggivano alle invasioni dei Saraceni. Così le case hanno ancora le profonde cisterne d’acqua dell’epoca; la torre dell’abate Odorisio, del secolo XIII, è una delle più belle del centro Italia; nel punto più alto del borgo la Cappellina degli Innocenti ospita uno strepitoso ciclo di affreschi di Frate Marino Angeli del 1425. Lei mi chiederà perchè ne parlo. Perchè ho girato il mondo per 30 anni e ho scelto di vivere proprio qui, in questo luogo oggi ferito dal dolore, su una strada che scorre nel verde immacolato tra Santa Vittoria e l’abitato meraviglioso e settecentesco di Servigliano. Lì sono direttore scientifico di un’associazione storica, la Casa della Memoria di Servigliano, qui ho costituito l’associazione Parco dei Castelli Fermani. Perchè per me la Resistenza non si è fermata allo studio della Storia e alla lotta per la libertà, ma all’amore che nutro per l’Italia tutta e per questo straordinario angolo delle Marche da cui nessun terremoto mi farà mai andare via. Un caro saluto. Paolo Giunta La Spada

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