Poco fa, camminando per via Asiago, colgo la frase di un passante. In realtà è solo il nome di una strada, via Brofferio, ma la mia memoria fa un capitombolo e coglie “via Broletto”, e subito risuona la canzone di Sergio Endrigo, “via Broletto 34”:
Se passate da via Broletto
Al numero 34
Potete anche gridare, fare quello che vi pare
L’amore mio non si sveglierà
Ora dorme e sul suo bel viso
C’è l’ombra di un sorriso
Ma proprio sotto il cuore
C’è un forellino rosso
Rosso come un fiore
Sono stato io
Mi perdoni Iddio
Ma sono un gentiluomo
E a nessuno dirò il perché
A nessuno dirò il perchè
E dal momento che la memoria funziona per associazioni, ecco un’altra canzone, più antica, che fu cavallo di battaglia di Milva e di Alfredo Bianchini, “La Java Rossa”:
“Senti è la java rossa, che è tutta una trama
di tragica sorte, la tua morte,
bella dama, l’hai voluta danzar!”
Ei, con fulminea mossa, piantò la sua lama
nel cuor della dama; poi la volle,
come folle, sulla bocca baciar.
Mi piacevano, le due canzoni: le ho canticchiate molte volte, e trasmesse nei miei primi anni di radio. Mai ho pensato, all’epoca, che fossero la celebrazione musicale di altrettanti femminicidi. Non le canterei, oggi? Non le trasmetterei? Lo farei certamente, ma con altro atteggiamento: se vogliamo chiamarlo consapevolezza, va bene, anche se non si tratta esattamente di questo. Riconoscere la cultura di cui siamo fatti non è liberatorio, non salva l’anima e non cambia – non subito – le cose. E’ semplicemente un passo, il primo: la strada che si intraprende dopo quel passo non è scritta, non è automatica.
Pensavo, sempre camminando per via Asiago (sono lenta, quindi ho tempo per pensare), che il riconoscimento cambia, e che quando e se si cambia è possibile cambiare quel che ci sta intorno. Dunque, con capitombolo ulteriore, eccomi a Diego Enrique Osorno, di cui ho parlato ieri, e alla sua idea di giornalismo narrativo: che Osorno chiama, omaggiando Roberto Bolaño, infrarealista. “Una specie di Dadà alla messicana”, lo definiva Bolaño, fuori dai canoni e dalla raffinatezza, tra avanguardia, poesia, rivolta. Per Osorno, il giornalismo infrarealista è quello che fa a meno delle statistiche e affronta la realtà coinvolgendosi in prima persona. Non è solo la vecchia faccenda del consumare le scarpe. Per dirla con Osorno:
“Il giornalismo infrarealista sa bene che la retorica della guerra e la guerra non sono affatto la stessa cosa.
Il giornalismo infrarealista non conta i morti, racconta le storie dei morti. Il giornalismo infrarealista va alla ricerca della versione dei fatti di chi non ha un portavoce né un ufficio stampa, di chi non ha mai convocato una conferenza con i giornalisti.
Il giornalismo infrarealista non lo fanno né gli sciacalli né gli ipocriti”.
Per saperne di più su Osorno, leggete la recensione del suo libro su Carmilla o ascoltate il podcast di Fahrenheit. Quel che mi interessa qui è il meccanismo che dal manifesto di Bolaño ha portato a 2666, che è un grande romanzo che include una narrazione giornalistica (quella di Sergio González Rodríguez in Ossa nel deserto) e che a sua volta ha generato consapevolezza per quando riguarda i femminicidi di Ciudad Juárez e dunque, in seguito, i femminicidi in assoluto. Un metodo che Osorno usa per quanto riguarda il narcotraffico. Un metodo che dovremmo apprendere, a mio modesto parere, per capire quanto i mutamenti siano intrecciati alle parole, insieme descrittive e narrative, e anche ricreative, che usiamo.
Cantare via Broletto 34 va benissimo. Meglio ancora, creare altre canzoni.
Ci vorrebbe anche qui in italia un po’ di giornalismo infrarealista. Un giornalismo che ignori le cifre e le percentuali di probabili tasse e improbabili riprese economiche. Un giornalismo che non si limiti a osservare i ribellismi suscitati dalla destra, ma che li compenetri svelando la loro visione della realtà.
Un giornalismo che non sia solo sterile cronaca o isterico omaggio dei potenti, ma che sia innesco per la comprensione che è condizione necessaria al mutamento, alla rivoluzione.
Caro Valberici, stavolta mi tocca dissentire da te. E non potrebbe essere altrimenti, dato il mestiere che faccio. Io non penso che il richiamo di Osorno sia veramente un appello a fare a meno della dimensione quantitativa di ciò che si racconta: semmai può essere un invito ad andare oltre, a non fermarsi a quella. Ma ignorarla… beh, in Italia abbiamo molti fulgidi esempi di giornalismo orgogliosamente analfabeta rispetto ai numeri e alla logica, e non mi pare che ci sia bisogno di incoraggiare la tendenza. Più che infrarealista, direi oltremondano: la realtà semplicemente non interessa, si preferisce inventarne una. Nel nostro paese è prassi usuale lo scontro su temi di principio che si rivelano di lana caprina quando qualcuno si decide a fare finalmente luce sulle vere dimensioni dei problemi; così come è usuale ignorare questioni enormi solo perché poco appassionanti dal punto di vista narrativo (ma forse voyeuristico è un aggettivo più adatto). Su cosa ci abbia portato a questa idiosincrasia per i numeri ho delle idee, che però in questo contesto non servono a molto; serve invece ragionare sulle conseguenze dell’analfabetismo logico-matematico, che come tutti gli analfabetismi è amputazione ed è strettamente funzionale agli assetti di potere dominanti. Non sapere e non volere leggere i numeri significa lasciarsi prendere per i fondelli su tutti i temi che riguardano la vita associata, la quale piaccia o non piaccia occupa uno spazio misurabile, appunto, con i numeri. E così abbiamo Grillo che può sparare la bufala del reddito di cittadinanza, perché nessuno si pone il problema di chiedergli quanto costerebbe, dove prenderebbe i soldi e, soprattutto, a chi li toglierebbe: Grillo, notoriamente, pensa che le risorse siano infinite e i soldi basti stamparli; abbiamo politici che vanno in trasmissione a farsi belli per “aver finanziato gli asili nido” con una manciata di euro che non basterebbero a realizzarne uno, e la fanno franca perché in Italia la gente non riesce ad afferrare intuitivamente la differenza tra le centinaia di migliaia, i milioni e i miliardi; e via così. No, la realtà è complessa e la strada per raccontarla non può passare attraverso la sua amputazione. Siamo noi che dobbiamo fare uno sforzo e integrare i due aspetti, entrambi fondamentali: quello della storia e quello delle dimensioni. Altrimenti si corre il rischio di diventare degli imbonitori. E degli imbonitori essere paradossalmente anche vittime.
Appena quindicenne Diego Enrique Osorno ha cominciato a lavorare nei giornali, secondo le modalità consentite in un Paese dove vige la regola del O ti compro o ti ammazzo.Ben presto intuisce che l’opinione pubblica si è assuefatta alle cronache di quotidiana efferatezza alla Tarantino, raccontate con indifferente cinismo dalla stampa, e riflette sulle regole del giornalismo impegnato, che ai 5 W sostituisce i 5 P, ove la P sta Porqué Porqué Porqué Porqué Porquè.
Riconoscendo nel giornalismo narrativo una validità empatica decide di ricorrere alla Sociologia, Storia, Letteratura al fine di (com)muovere le coscienze e sottrarle al lugubre fascino della Necropolitica, secondo una tradizione cronachistica che si può far risalire ai cronistas de Indias alle prese con l’arrivo degli Europei.
Alla fiera della piccola e media editoria di Roma ne ha parlato con Attilio Bolzoni, Giampiero Calapà, Alessandro Leogrande, Piero Melati, che, rispetto agli eccidi in oggetto, non hanno esitato a paragonarli “con le dovute proporzioni” alle stragi naziste e hanno apprezzato la cifra stilistica dell’Autore capace di spingerci a rompere l’incomprensibile indifferenza.
Ha suscitato grande interesse Z: La guerra dei narcos (La Nuova Frontiera) che racconta Tamaulipas, Messico, al confine con il Texas, come il nuovo regno del Male.
O meglio uno dei tanti centri malavitosi del pianeta, in competizione, purtroppo vincente, con i mafiamovie di Ridley Scott.
http://www.criticipercaso.it/2013/12/09/z-la-guerra-dei-narcos-diego-enrique-osorno/