DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI AUTOFICTION

C’è un distinguo da fare, secondo me, quando parliamo – e ne parliamo parecchio – di autofiction. Ah, c’è anche una premessa: prendete con le molle questo post, non interpretatelo, come alcuni e alcune hanno fatto quando ho scritto di letteratura del dolore, come un attacco a questo o quel libro: è ben meschino confondere una riflessione generale con “stai parlando con me? Ehi, stai parlando con me?”. Anche perché quel che mi interessa è capire cosa sta accadendo, semmai, non il destino dei singoli testi e tanto meno mi interessa esternare cosa entri o meno nella famigerata tazza di tè di ognuno di noi.
Dicevo, autofiction. Parola troppo vaga, in realtà, per essere estesa più di tanto. Sto leggendo quelli che a me appaiono splendidi libri (“In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas e “L’assassino timido” di Clara Usón) che, sì, parlano delle vite di chi scrive, e parecchio. Sono autofiction? Non lo so. E’ autofiction o autobiografia quella, sterminata, di Karl Ove Knausgaard? E ha ragione Edmund White quando spiega al Guardian che esiste una distinzione tra i due filoni? Ha ragione quando dice che non crede nella finzione, anzi che la finzione è una solenne fesseria e che occorre invece  credere nella verità? E quale verità, infine, racconta uno scrittore?
La mia prima sensazione, in questi giorni di molte autofiction, italiane o meno, parte di un progetto letterario oppure occasionali, è che i social abbiamo modificato il nostro spirito del tempo. Noi ci raccontiamo, ogni giorno, e raccontiamo quella che diventa la verità nel momento stesso della narrazione. Sono stati i giornali, per primi, a inseguire i social. Ma subito dopo sono venuti i romanzi: e non solo perché raccontano episodi drammatici o belli della vita reale (paternità e maternità, perdita di un compagno o compagna, malattia, dipendenze), ma perché si pongono come espressione di verità nei confronti del lettore. Questo, sottolineo più volte, al di là del loro valore letterario. Perché qualcosa sta pur cambiando se i territori esplorati dai libri che leggo o sfoglio in questi mesi sono quelli che pongono al centro la vita dell’autore oppure, se allargano lo sguardo,  incrociano la vita dell’autore o della sua famiglia con la storia.
Verità, onestà (sì, onestà: non uso a caso questa parola). E’ dunque questo il nuovo patto? Ti racconto me stesso allo stesso modo in cui su Facebook o Twitter o Instagram ti rendo partecipe della zuppa mangiata a pranzo, delle ultime parole di mia madre, della tomba nel bosco dove è sepolto il mio cane da questa mattina? “L’autofiction, c’est comme le rêve; un rêve n’est pas la vie, un livre n’est pas la vie”, diceva Serge Doubrovsky. Non mentire, chiede il lettore così come lo chiede il follower.
Ma la letteratura ha sempre mentito per sua natura. E, al di là, davvero, della tendenza narrativa ed editoriale del momento, quel che mi chiedo è se non stiamo, un po’ tutti, prendendo un abbaglio. O se non ci poniamo abbastanza il dubbio, tutto qui.
“But I want my novels to be novels, and my autofiction to be books”. Lo scrive il critico inglese Jonathan Gibbs, dunque qualcuno, altrove, i dubbi se li pone.

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