Sto leggendo Non superare le dosi consigliate di Costanza Rizzacasa D’Orsogna, e ve ne parlerò a lettura terminata, perché è storia di tremenda potenza. Doppia e anche tripla per chi, come me, non solo ha alle spalle storie cicliche di bodyshaming, che a partire dai miei otto anni seguivano la curva della grassezza e della magrezza, ma che quell’inarrestabile tendenza a prendere qualcuno come bersaglio usando il suo aspetto fisico vede, ogni giorno, in rete. Anche se, a volte, il passato di fustigatrice delle taglie altrui viene dimenticato e vieni persino scambiata per femminista.
Non solo in rete, evidentemente. E’ successo a tutte noi con una storia a fisarmonica per quanto riguarda il peso. E’ buffo come la memoria lasci andare incontri e storie che ti hanno fatto bene, le patatine fritte mangiate a mezzanotte con un’amica su un lungomare qualsiasi, una notte in tenda sotto la luna, la volta che hai visto i camosci su un ghiaione, e ne trattenga di tremendi. La commessa di via Frattina, per esempio. Avevo trent’anni, uscivo da un un-due-tre di lutti e tragedie che mi avevano fatto prendere una ventina di chili ed ero sgattaiolata via dalla redazione del Secolo XIX, che era in via della Mercede, per provarmi una giacca, una stupida giacca blu, attillata in vita, lunga sui fianchi che in effetti non mi sarebbe stata bene. E quando sono entrata c’era lei, sui vent’anni, bellissima, capelli biondi stretti in una coda di cavallo, occhi azzurri, magra come un giunco, che senza neanche farmi parlare, dopo uno sguardo da intenditrice, ha detto: “Non c’è niente per lei, qui”.
Ecco, cosa succede trenta e passa anni dopo quando la magra, dopo varie ondate di flusso e riflusso, sei infine tu, ma nel frattempo hai scavallato i sessanta, e dunque sei entrata nel mondo delle vecchie? Nel 2010, quando ho scritto Non è un paese per vecchie (grazie all’amata Bompiani per averlo appena ripubblicato), l’ho indagato, ma non l’avevo ancora sperimentato del tutto: a cinquant’anni la consapevolezza è meno forte, almeno quella che vivi sul tuo corpo e sulla percezione che di te hanno gli altri. Non sto parlando dei piccoli o grandi segnali che il corpo manda, e del fatto che ti stanchi più facilmente rispetto a prima, e che le patatine fritte a mezzanotte puoi anche mangiarle, ma sai che rischi di pagarne il prezzo, né delle ossa che protestano quando fa freddo: cose rimediabili o ignorabili. E non parlo del mio concepire me stessa: continuo, grazie alla Dea, a essere curiosa, a voler conoscere quel che ignoro, a frequentare persone più giovani di me e ad ascoltare le loro idee e le loro emozioni, faccio progetti, non ho paura di stancarmi, fisicamente e mentalmente.
Parlo di quella riprovazione neanche troppo sommersa che riguarda il corpo, sempre il corpo: i capelli che dopo una certa età andrebbero tagliati (ricordate, vero, che razza di polemica scoppiò qualche anno fa in proposito?). Oppure, il critico che inizia la stroncatura con la definizione di “cougar di Radio3” o l’altro che, per esprimere antica riprovazione nei tuoi confronti, non trova di meglio che chiamarti “carampana”. Ancora: la necessità di “invecchiare bene”. Sta arrivando il Festival di Sanremo e già prefiguro le bacheche social nel caso di cantanti o ospiti (femmine) oltre una certa età: per dire, Rita Pavone, contestabilissima per quel che afferma, ma massacrata in primis per il suo aspetto. Qualche tempo fa, mi capitò di imbattermi in una discussione su Sofia Loren, e su quanto è liftata, e mamma mia che orrore, e ha la parrucca, e oh che imbarazzo, e oh che schifo, e meglio uscire di scena giovani e belli (tiè, aggiungo mentalmente quando leggo). Donne, a commentare. E se provi a dire ma scusate, ma perché vi comportate come un branco?, ti rispondono che sei ideologica e che, al solito, magari, vuoi mettere i mutandoni alle statue secondo quanto comanda il politicamente corretto.
Le donne sono spesso crudeli con le donne, e ci sta, mai sostenuto che le donne siano buone a prescindere. Ma sono crudeli soprattutto con chi invecchia, e sono prontissime a prendere le misure di quanto invecchia “male”, sia quel “male” da attribuire all’eccesso di botulino, sia da attribuire alla sciatteria. Il “più si diventa vecchi, più si diventa liberi” di Saramago sembra non valere per le donne.
Certo che abbiamo un problema di “jeunisme”, e viviamo come dovere l’ essere giovani o apparire giovani a ogni costo. E certo che questi discorsi sono rischiosi, come quando si tenta di riparlare del corpo e interrogarci su quanto sia davvero libero l’uso del medesimo come lasciapassare per il nostro essere nel mondo, perché quel che viene rinfacciato è di avere una visione della vita bigotta, infelice, costrittiva, dove il corpo viene punito e mortificato. In realtà, si tratterebbe semplicemente di dargli la giusta importanza: di poterlo accudire e curare e migliorare sapendo però che non è l’unica carta in proprio possesso ma una parte della propria storia. La più visibile. E se è bello, piacevole, importante avere a disposizione le tecniche giuste per poter almeno in parte attenuare le offese che il tempo arreca al corpo, dovrebbe essere anche importante e, forse, bello, ricordare che quel corpo ha comunque una storia che non può essere azzerata. Sessant’anni non sono, non devono essere trenta: e, no, non voglio essere scambiata per mia figlia. Per lei. E per me.
Quando si invecchia, è più dura. Lo sottolineava già Simone de Beauvoir, ricordando come l’aver parlato di vecchiaia ne La forza delle cose aveva suscitato un putiferio: “Ammettere che mi trovavo alle soglie della vecchiaia voleva dire che questa aspettava al varco tutte le donne, e che già molte ne aveva afferrate… Gentilmente, o con risentimento, molta gente, e soprattutto persone d’età, mi hanno abbondantemente ripetuto che la vecchiaia non esiste. Vi sono persone meno giovani di altre, semplicemente questo”.
Storia antica, come detto tante volte. E sarebbe bello che quando si ripete ci fermassimo a riflettere sulle nostre paure, sul motivo per cui è così rassicurante riunirsi in cerchio a bruciare la strega di turno, sapendo che il fuoco, infine, si consuma. E ritorna il freddo.
Gent.ma Loredana, ho scoperto il Suo libro “Ancora dalla parte delle bambine” da qualche anno e da subito ho cominciato a suggerirlo a tutte le donne che fanno parte della mia vita:familiari, parenti, amiche, ex colleghe, coinquiline, o perfette sconosciute. Negli anni 70 avevo letto il libro ispiratore del Suo, quel “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti, che mi cambiò completamente, facendomi prendere coscienza (senza comunque aver mai il coraggio di rovesciare il classico tavolo) della vita che avevo vissuto per 30 anni. Ora che di anni ne ho quasi 70 leggo dai Suoi scritti il degrado sociale che vivono i giovani del nuovo millennio. Io sono orripilata dal cinismo osceno di certe strategie di marketing senza scrupoli e con le quali oggi si può vendere praticamente di tutto. E, constatata la mia inadeguatezza, la mia incapacità di accettare e tollerare tutto ciò, preferisco isolarmi e rintanarmi fra le pagine dei miei amati libri, fra i rasserenanti ricordi di altri tempi. Volevo solo ringraziarLa e dirLe che sono contenta di aver incontrato i Suoi pensieri, le Sue emozioni. E, come si dice in questi casi: grazie di esistere. Un abbraccio. Margherita