PERCHE' QUELLA SU TOLKIEN NON E' UNA DISCUSSIONE LETTERARIA

Vorrei dire la mia, infine, sulla lunghissima vicenda della traduzione de Il signore degli anelli da parte di Ottavio Fatica, su quella che è stata chiamata guerra (ma a mio parere guerra non è, perché si guerreggia da due parti, e io non guerreggio con nessuno), sulla doppia querela, al traduttore e alla sottoscritta, che è stata depositata un anno fa dalla prima traduttrice, Vittoria Alliata, per questa intervista apparsa su Robinson nell’aprile 2018, laddove, per quanto mi riguarda, l’unico riferimento che ho fatto alla vecchia traduzione è nella frase “La traduzione precedente è stata molto criticata: a ragione?”.
Però la prendo da lontano. Le polemiche sulle traduzioni sono faccenda antica: fra gli altri vi furono impegnati nel 1941, a proposito di una traduzione di Walt Whitman, León Felipe e Borges, che stroncò il primo sulla rivista “Sur” accusandolo di enfasi e di “moltiplicare versi e immagini”. Nel 1996 ci fu un duello rovente fra Erri De Luca, che aveva tradotto L’Ecclesiaste, e Carlo Zaccagnini, docente all’Orientale di Napoli, che  dichiarò che se De Luca fosse stato uno studente di ebraico biblico sarebbe stato bocciato senza pietà. Ancora. Nel 1991 Nicoletta Marcialis pubblicò per la Salerno una nuova traduzione del Cappotto di Gogol che intitolò come nell’originale, La mantella (che in precedenza era stata L’uniforme), e non piacque. Alcuni titoli sono stati lasciati nella loro inesattezza, come Delitto e Castigo (come ricordò Cesare De Michelis, doveva chiamarsi  Il delitto e la pena, da Beccaria: niente da fare, rimase così perché la prima traduzione italiana venne fatta dal francese, Le crime e le châtiment). Nel 2010 soffi di bufera quando Renata Colorni traduce La montagna magica di Thomas Mann ridandole il vero titolo ( Der zauberberg, come ZauberflöteIl flauto magico ).  Nessuno ha il coraggio di rinominare Il giovane Holden di Salinger, ovviamente, cercando di tradurre The Catcher in the Rye.
Perché, fra tutti questi casi, quello tolkieniano è l’unico che finisce in tribunale e che ha visto una lunghissima polemica fatta di accuse di complotto (qui trovate una ricostruzione esaustiva) e culminata con l’annuncio da parte di Vittoria Alliata di non voler lasciare all’editore la sua traduzione?
Perché, in anni e anni e anni, la narrazione intorno a Tolkien non è stata letteraria, ma politica.
Nella primavera del 2011 Antonio Gnoli intervista per Repubblica Marco Tarchi, che fu ideologo della Nuova Destra, e che in anni giovanili è stato il direttore de La voce della fogna, una rivista underground della destra radicale che cominciò a uscire nel 1974. Stralcio dell’intervista:
Quella sua rivistina, che tra l´altro ebbe anche gli elogi di Cacciari, preparò il terreno ai Campi Hobbit. Che cosa furono?
«Pensammo a una duplice sfida. All’interno dell´ambiente missino volevamo offrire a molti giovani militanti un´alternativa ai rituali e alla mentalità nostalgici e perbenisti che imperversavano nel partito. All´esterno, l’obiettivo era uscire dall’´accerchiamento dell´ultrasinistra, di cui si subiva l´egemonia generazionale. Però, non volevamo solo avversarla ma anche attraversarla criticamente e farsene contaminare».
Perché proprio Tolkien divenne il vostro vessillo?
«Il suo mondo fantastico delineava un universo ideale che avversava gli aspetti materialisti e egoisti della società in cui eravamo costretti a vivere. Fu una scoperta genuina che conservò, malgrado i suoi limiti, una carica emotiva forte».

Molte volte è stata ricostruita la storia della ricezione di Tolkien in Italia. Nel 1962 Elio Vittorini scrive a Vittorio Sereni sull’eventualità di pubblicare presso Mondadori l’opera di Tolkien: “Inclinerei a scartare: ma possiamo eventualmente provarci ad acquistare un solo volume come gli editori ci propongono”. Sereni risponde: “Se c’è tempo per farlo chiederei un’altra lettura. Ma la conclusione mi sembra già un NO ed escluderei la possibilità di arrischiare un esperimento”. In verità accadeva anche altrove. Come disse Ursula K. Le Guin:
“Ricordo i tempi in cui Edmund Wilson, re del bigottismo realista, strillava a gran voce  «Oh, quei terribili orchi!» (stroncando J. R. R. Tolkien n.d.t.), tanto era convinto dell’acume e della pertinenza dei suoi argomenti critici. Ho ancora le cicatrici dei tempi del bigottismo anti-generi”.
In Italia il bigottismo anti-generi è stato fortissimo, e in molti casi perdura ancora quell’idea di “monnezza” che la critica letteraria gli attribuisce. Nel 2003 ne parlarono Lucio Del Corso e Paolo Pecere, nel saggio L’anello che non tiene, per esempio (qui la mia recensione dell’epoca). Ma, in molti casi, invano, ancora e ancora.
Qual è stato, per quanto mi riguarda, il tentativo fatto da allora, prima da giovane lettrice di Tolkien che non capiva perché dovesse nascondersi per leggerlo e poi da scrivente e osservatrice della letteratura fantastica? Esattamente quello di de-ideologizzare Tolkien, e di restituire la sua opera a quel che è: un capolavoro del Novecento.
Mica facile. Quando, nel 2010, intervistai Wu Ming 4 per Repubblica su un convegno tolkieniano, quell’intervista si apriva così:
“Su Tolkien – racconta Wu Ming 4 – pesa un’ipoteca ormai quarantennale dovuta sostanzialmente a due fattori concomitanti. Il primo è l’approdo nel nostro paese di Tolkien: che è stato traghettato da intellettuali vicini alla destra e anche all’estrema destra neofascista e misticheggiante. Questo fece sì che per molti anni venisse considerato l’autore tradizionalista che non è mai stato. Il secondo fattore riguarda la sottovalutazione o la misinterpretazione da parte della critica letteraria di sinistra, che – con le rare eccezioni di Portelli e Lodigiani – ha applicato a Tolkien il pregiudizio nutrito su tutta la letteratura fantastica”.
Un pregiudizio pesante, che – sottolinea Wu Ming 4 – prende alla lettera alcune teorie di Todorov giustificando il fantastico solo come allegoria del reale. “E dunque va bene Orwell, vanno benissimo 1984 e Fattoria degli animali: ma non chi scrive fantastico in quanto tale. Tolkien sosteneva di non scrivere allegorie: distingueva, anzi, fra allegoria e applicabilità, laddove la prima è un atto di imperio da parte dell’autore, che racconta una cosa per parlarti di altro come fa, appunto, Orwell. L’applicabilità è invece la libertà del lettore: è lui che può riscontrare nell’opera una vicinanza con le cose che gli accadono attorno. L’applicabilità significa lasciare sempre aperta la narrazione”.

Quali furono le reazioni? Riccardo Chiaberge sul Sole 24 ore e Franco Cardini mi accusarono di voler “consegnare Tolkien alla sinistra”. Così Cardini: “la giornalista coglie l’occasione per lamentare il fatto che per troppo tempo la “sinistra” abbia lasciato alla “destra” un equivoco monopolio sul grande autore di heroic fantasy, per ribadire il giudizio sull’inconsistenza della “cultura di destra” e per chiedere che finalmente si faccia giustizia e si restituisca il filologo e romanziere cattolico inglese all’ambito culturale cui egli naturalmente e di diritto appartiene. Ch’è, ovviamente, quello della “sinistra”.”
Il mio unico intento era ed è quello di contribuire a restituirlo alla letteratura.
Ancora: quando, nel 2016, realizzai con Arturo Stalteri il ciclo di Pantheon dedicato a Tolkien, mi sono trovata nella graziosa posizione della fetta di prosciutto in un panino. Da una parte moltissimi ascoltatori di Radio3 insorsero contro una trasmissione dedicata a un autore “misogino” e “fascista”. Dall’altra, da destra, sono stata pesantemente accusata di non applicato la par condicio politica su Tolkien, non invitando studiosi di altra parte.
La par condicio. Su Tolkien.
E qui veniamo al finale. Non mi interessa affatto fare la comparazione tra le due traduzioni. Lo ha fatto Vanni Santoni molto bene, qui, e tanto basti. Per quanto mi riguarda, il mio auspicio è che siano presenti tutte e due la traduzioni e che il lettore scelga quella che ritiene più vicina al proprio sentire. Scelga, ripeto, cosa che a quanto sembra, e non per volere dell’editore da quanto ho capito leggendo la ricostruzione, non sarà possibile.
Così dovrebbe essere, per ogni traduzione, perché ogni testo ha il diritto di venir ritradotto e ogni traduzione ha il diritto di essere criticata. Ma qui non si tratta più di ragionamenti sulla traduzione: si tratta di una lunga storia di appropriazioni che di letterario hanno pochissimo, mentre è la letteratura quella che dovrebbe essere al primo posto nei pensieri di chiunque l’abbia a cuore.
E io continuo a pensare che letteratura e tribunali, reali e metaforici, non siano compatibili.

2 pensieri su “PERCHE' QUELLA SU TOLKIEN NON E' UNA DISCUSSIONE LETTERARIA

  1. Per poco che possa valere il mio commento, quel viaggio con Arturo Stalteri fu un viaggio bellissimo. Ogni tanto me lo riascoltato.

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