DUE COPERTINE DI TIME, LA RABBIA E ANCORA L'AUTOASSOLUZIONE

E’ il 1967. Time dichiara uomini dell’anno i twenty-five and under e, per la prima volta nella storia, consegna il potere ai giovani. Il giovane in questione – il maschio bianco al centro della copertina – accoglie l’onore senza scomporsi. Nell’illustrazione, indossa con elegante noncuranza giacca e cravatta: poiché i tempi richiedono, ancora per poco, la forma. I capelli, lisci e chiari, sono ben pettinati, gli occhi brillano, la bocca è dischiusa in atteggiamento fiero. Non c’è dubbio: il ragazzo conquisterà il mondo, o comunque abiterà in una confortevole porzione del medesimo.
Non è solo: alle sue spalle c’è una ragazza, ma di lei si vede solo metà del volto, anche se il suo sorriso sembra più aperto e caldo di quello del compagno. Del resto, la ragazza è colei che probabilmente aiuterà il twenty-five and under nel suo cammino trionfale, ma rimanendo sempre un passo indietro, fuori dal cono di luce dei riflettori. Invecchiando, potrà rimasticare la vecchia frase “dietro un grande uomo c’è una grande donna” e rendersi conto che la rivoluzione di cui, a detta di tutti, è stata protagonista, l’ha lasciata ancora una volta ai margini. A metà, meglio: come il suo visto. Dietro di loro, infine e quasi sullo sfondo, il profilo di un ragazzo nero e il volto di un asiatico garantiscono una fratellanza internazionale che verrà rispettata a fatica.
Il mito nasce così. La copertina di Time non fa che sancire l’affermarsi di un processo reale nel mondo simbolico. Da quel momento, tutto quel che è nuovo, originale, trasgressivo, tutto quello che, in poche parole, costituisce il motore primo del progresso culturale, sociale, economico, verrà dalla giovinezza. Perché i giovani possono tutto. Il ragazzo biondo della copertina – si legge nell’articolo – polverizza un record di atletica, guida un razzo spaziale, gira un documentario nel ghetto di Manhattan, può ballare tutta la notte, accendersi una sigaretta, innamorarsi di Jackie Kennedy. Il mondo gli viene consegnato con speranza e un pizzico d’invidia.
Cos’ha di particolare quella generazione? E’ numerosa, tanto per cominciare: non solo negli Stati Uniti, ma nelle nazioni industrializzate, nota Time, i giovani sono la metà della popolazione. Non solo. Sono giovani particolari: sani, educati, assertivi. Le malattie li insidiano in misura minore rispetto al passato. Hanno maggiori prospettive di lavoro. Hanno studiato. Sono, davvero, “a new kind of generation”. Un nuovo tipo di generazione.
E’ il 2006, Time esce con una copertina a specchio dove il lettore può vedere il proprio volto riflesso: you, tu, proprio tu che stai guardando e leggendo in questo momento, e noi lo abbiamo interpretato nel modo che si credeva corretto, ovvero che chiunque poteva prendere la parola, senza legittimazioni di ordini professionali o di appartenenze, ma solo per proprio merito. Significava che il giornalismo, la scrittura, la fotografia, la musica, potevano aprirsi al contributo di una moltitudine geniale, allegra e combattiva. Che ne avremmo guadagnato tutti, da un rinnovamento così vasto, fatto di saperi condivisi, di storie e musiche che avrebbero vagato, grazie a Internet, da un continente all’altro, gratuitamente. Una nuova stagione era iniziata, pensavamo: dall’inizio degli anni Zero i blog portavano parole, pensieri, critiche, idee che sfuggivano alla carta stampata, e c’erano musiche nuove da ascoltare, e tutto sembrava andare nella giusta direzione, e in fondo l’aveva detto Andy Warhol, e quante volte era stata citata quella frasetta, i quindici minuti di celebrità per tutti, gratis, facile e indolore.
Ma Warhol ha conosciuto il cinema e la televisione, dove la fama è magari passeggera, certamente impietosa perché con gli anni che passano non si molla l’osso, e chi ricorda più i partecipanti del secondo Grande Fratello e magari neanche più i primi a pensarci molto bene, non fosse per Rocco Casalino? La microfama è un’altra cosa. E’ un diritto, non un sogno, non un traguardo a cui tendere, non una meta. E’ una pretesa, qualcosa che si riceve alla nascita e che qualcuno, semmai, ha ostacolato con il proprio successo.
E’ il 2018 e siamo smarriti, e nessuna copertina di Time può aiutarci a capire, non per ora almeno. C’è davvero e soltanto la crisi economica dietro l’enorme risentimento dei nostri giorni? In molti casi sì, certo, ovvio, incontestabile. Ma non basta e non può bastare. Perché molti di quelli più attivi nella rete e nella realtà a dimostrare quella rabbia non sono ragazzi, ma appartengono proprio a quella new kind of generation del secolo scorso. E allora il dubbio viene, anche se non si studia psicologia delle masse, anche se non si è sociologi o analisti: il dubbio è che si tratti di una gigantesca delusione, di un’aspettativa di cui le vite erano state caricate e che si è dissolta, perché quell’aspettativa, magari, era semplicemente troppa, e che sia facile, facilissimo, indispensabile (per l’autoassoluzione di cui si parlava ieri) trovare qualcuno a cui attribuire quello che si ritiene un proprio fallimento.
Come scrive Sergio Benvenuto recensendo Narcisismo e democrazia di Giovanni Orsina:
“In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira””
E dunque:
“Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto”.
E dunque? E dunque occorre ancora una volta studiare e insieme camminare per le strade, cercando di afferrare la coda della cometa, sfuggente e in apparenza luminosa e sempre mortale nel momento in cui si avvicina troppo. Ma non c’è altra via, perché quella di continuare a replicare la quotidianità del commento e del retweet non è una strada: occorre restare nei social, occorre presidiarli, occorre lavorarci. Ma a piedi fermi, e con i famosi occhi al cielo stellato.

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