Dopo un anno e mezzo, ho fatto colazione al bar. Sai che notizia, direte. In effetti non è una notizia, non è nulla di più che uscire la mattina presto per fare le analisi del sangue (dopo mesi di inattività e sedentarietà, mi pare il minimo) e concedersi un caffè doppio e un fagottino al cioccolato seduta a un tavolino. E, soprattutto, guardare la strada, le persone, il vecchietto che vende le sue ciliegie, l’altro vecchietto che vende peonie (le ho comprate, le peonie), i ragazzi in giacca e cravatta reclutati da un’agenzia immobiliare, quello che corre, quella che porta il cane a spasso. Vita, accidenti, sia pure piccola, sia pure quieta.
Così, con il cellulare spento e il mio profumato caffè davanti, ho pensato all’overdose da social di questi mesi. E ho ripensato a un mio vecchio scritto sul Conte Arco.
Karl Joseph Felix Arco era il camerlengo del principe arcivescovo di Salisburgo, Hieronymus von Colloredo, negli anni Ottanta del Settecento. Di lui sappiamo in verità pochissimo, perché il conte Arco è passato alla storia unicamente per una pedata. Per essere precisi, e per usare le parole del destinatario della pedata, “un calcio nel culo”:
«Questo dunque è il conte che (stando alla sua ultima lettera) mi ha tanto sinceramente a cuore, questa è dunque la corte dove dovrei servire, una corte in cui uno che intende presentare una supplica per iscritto, invece di essere agevolato nell’inoltrarla, viene trattato in questo modo? […] Ora non ho più bisogno di mandare nessuna supplica, essendo la cosa ormai chiusa. Su tutta questa faccenda non voglio più scrivere nulla ed anche se ora l’arcivescovo mi pagasse 1.200 fiorini, dopo un trattamento simile proprio non andrei da lui. Quanto sarebbe stato facile convincermi! Ma con le buone maniere, senza arroganza e senza villania. Al conte Arco ho fatto sapere che non ho più nulla da dirgli, dopo quella prima volta in cui mi ha aggredito in quel modo, trattandomi come un farabutto, cosa che non ha alcun diritto di fare. […] Che gliene importa se voglio avere il mio congedo? E se è davvero tanto ben intenzionato nei miei confronti, cerchi allora di convincermi con dei motivi fondati, oppure lasci che le cose seguano il loro corso. Ma non si azzardi a chiamarmi zotico e furfante e non mi metta alla porta con un calcio nel culo; ma dimenticavo che forse l’ha fatto per ordine di Sua grazia.»
Wolfgang Amadeus Mozart raccontò l’episodio in una lettera al padre Leopold del 9 giugno 1781. Sappiamo quali furono i desideri di Mozart, e i motivi per cui prese il calcione: voleva essere libero di scrivere la sua musica, era stanco di essere considerato un semplice servo di Colloredo. Alla fine, ottenne la sua libertà, con una pedata nel sedere.
Ora, del conte Arco non sappiamo appunto nulla, se non i suoi titoli (cameriere, consigliere alla Guerra, gran maestro delle cucine): ma almeno per chi ama la musica, e Mozart in particolare, la sua figura, la sua persona, i suoi pensieri sono immortalati in quell’istante, quello del calcione rifilato a colui che ci avrebbe regalato (e ci stava, all’epoca, già regalando) la bellezza più pura e alta data in sorte agli esseri umani.
Questa mattina ho dunque ripensato a lui, il camerlengo impulsivo, il fedelissimo (diremmo, forse, lo scherano). E pensavo a cosa accadrebbe se il conte Arco vivesse oggi, e avesse, naturalmente, un account su Twitter, o magari un blog, o una pagina Facebook, e ogni giorno ci dicesse la sua sulla “canaglia”, lo “straccione” e il “pazzo” (epiteti con cui deliziava Mozart, secondo il medesimo). Non dite che saremmo dalla parte di Mozart, troppo facile: sappiamo già chi era Mozart, e naturalmente ci sediamo, adesso, dalla sua parte. E’ molto probabile, invece, che per motivi diversi (la rabbia, la tristezza, l’infelicità o la felicità di odiare, anche, un desiderio di rivalsa sollecitato minuto dopo minuto) ci saremmo schierati (non tutti, certo) con il conte Arco.
Fermi, buoni, calmi. Non sto tracciando un parallelo, non giocate all’identificazione: non ci sono paralleli possibili quando si parla di Mozart. Sto dicendo un’altra cosa, semmai. Che ci sono sentimenti antichi quanto gli uomini e e le donne, e che se dobbiamo ringraziare Internet, e i social, per qualcosa, è perché ci permettono di leggerli, di scorgere la rabbia, la ferocia, la tristezza, la violenza, l’odio che si nascondono dentro ognuno di noi. Qualcuno riesce a farci conti, qualcuno no. Usiamo quanto accade per riflettere, e magari riascoltare Mozart, che è rimasto (il conte Arco, appunto, no).
Ancora oggi non so cosa dicessero quelle due donne che cantavano, e a dire la verità non lo voglio sapere. Ci sono cose che non devono essere spiegate. Mi piace pensare che l’argomento fosse una cosa così bella da non poter essere espressa con delle semplici parole. Quelle voci si libravano nell’aria ad un’altezza che nessuno di noi aveva mai osato sognare. Era come se un uccello meraviglioso fosse volato via dalla grande gabbia in cui eravamo, facendola dissolvere nell’aria, e per un brevissimo istante tutti gli uomini di quella prigione si sentirono liberi.
“Le ali della libertà”, di Frank Darabont, da “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” di Stephen King