GLI SFRUTTATI (EDITORIALI) DI CASA NOSTRA

Amazon, dunque. In Morti di fama, Giovanni Arduino e io raccontiamo brevemente alcune cronache che riguardano lo sfruttamento di chi lavora nella multinazionale. Per esempio:

““Work hard, have fun, make history”, è il motto di Amazon (…). A febbraio 2013 un reportage di Ard, prima rete televisiva pubblica tedesca, conferma che quell’”have fun” ha un risvolto sinistro. Diana Löbl e Peter Onneken si infiltrano nel centro operativo di Amazon a Bad-Hersfeld, nell’Assia, e scoprono le condizioni in cui lavorano i cinquemila immigrati assunti per far fronte alla crescita degli ordini in periodo natalizio: vengono da tutta Europa, i divertitissimi dipendenti Amazon, soprattutto da paesi in crisi come la Spagna o dai Balcani. Vivono in sette per camerata in vecchi alberghi sciistici, dormendo su brande e divani sfondati, con toilettes sporche e cibo scarso, non hanno diritto a contributi, vengono pagati pochissimo, nove euro lordi l’ora, e devono versare il 12 per cento del salario alle organizzazioni che si occupano di reclutamento, i turni sono lunghi e faticosi, e ai non tedeschi tocca spesso quello notturno. Non è finita: a sorvegliarli, “guardie” della H.e.s.s. security, legate all’estrema destra, vestite con i capetti della Thor Steinar, la marca simbolo dei simpatizzanti neonazisti, vietata in alcuni stadi tedeschi e tolta anche dal catalogo della stessa Amazon. Carne da macello. Minacciati, impauriti dai blitz dei vigilantes che li accusano ingiustamente di furto. E peggio.
Lo scandalo tedesco viene dopo la denuncia che già conoscete, quella dei turni massacranti e delle violenze effettuate nel magazzino di Amazon nella Lehigh Valley, in Pennsylvania, rivelate da un’inchiesta di Morning Call, e prima di quella del giornalista francese Jean-Baptiste Malet, che si è fatto assumere per due settimane nel magazzino di Montelimar, nel sud della Francia, per scrivere il libro En Amazonie, infiltré dans le meilleur des mondes: “Ho scoperto che tutti i dipendenti non avevano diritto ad esprimersi sulle condizioni di lavoro, né sui media, né con la famiglia, nonostante le regole del codice del lavoro lo consentano. Invece l’azienda limita qualsiasi forma di comunicazione”. Fosse solo questo: contratti precari, compiti faticosissimi, turni di sette ore a circa 10 euro lordi l’ora, venti chilometri al giorno da percorrere con una sola mansione, “cercare i prodotti, caricarli sui carrelli e portarli all’imballatore”, tutto dalle 21:30 alle 04:50. Dal tramonto all’alba, il ritmo da mantenere è quello di 130 articoli l’ora. Se non si raggiungono, si viene sanzionati. Dice Mallet: “Alla fine di ogni turno ai dipendenti viene consegnato un rapporto sulla produttività di ognuno, e ogni gesto è ben definito. Tutti i i dipendenti sono dotati di uno scanner con Gps che controlla in tempo reale spostamenti, velocità dei gesti ed eventuali tempi di pausa”.”
Abbiamo ricevuto una mail, però, che ci chiede di non limitarci ad Amazon e di guardare molto vicino a noi. Non nei magazzini della multinazionale, ma nelle case editrici italiane. La mail è qui. Ed è durissima.

11 pensieri su “GLI SFRUTTATI (EDITORIALI) DI CASA NOSTRA

  1. E fosse parlare di quelle ex finte partite IVA che adesso sono a spasso perché per risolvere i problemi amministrativi a fronte delle leggi recenti tutte le case editrici italiane stanno esternalizzando tutto il lavoro a studi editoriali (a cui vai a bussare per vederti proporre tariffe da fame)? Le lamentazioni sono orribili ma le prese per il culo sono avvilenti.

  2. Non si tratta affatto di lamentazioni, in effetti. L’esternalizzazione è in atto, non se ne parla, e molti degli studi editoriali che propongono tariffe da fame sono anche, se posso dire la mia, di dubbia competenza.

  3. “Chi domina Zam-Zammah, il “drago dal soffio di fuoco”, domina il Punjab, perché il grande pezzo di bronzo verde è sempre il primo bottino dei conquistatori”(e per questo che si continua a perdere tempo sul gossip politico riguardante esecutivi che manco riescono a gestire l’ordinario e che non hanno idea che quanto riportato qui non è nemmeno particolarmente scandaloso rispetto alla realtà di un mercato del lavoro che fa davvero paura)
    http://www.youtube.com/watch?v=UGEqiwKEe5c

  4. La mail è durissima e verissima. Descrive una realtà ormai diffusa. Ancora una volta, penso che sia necessario tenere insieme tutti i pezzi, guardare la filiera nella sua totalità. Pensavo che non è poi così strano che mi si chieda di essere veloce nei lavori di redazione: se il testo che sto lavorando, una volta diventato libro, vivrà in libreria solo tre mesi, è poi così importante la qualità? (si capisce che la mia è un’amara domanda retorica?)

  5. La mia sensazione da lettrice è che alcuni dei grandi editori negli ultimi anni hanno puntato molto sulle copertine e pochissimo sulla correzione dei testi e sulle traduzioni. Per esempio in Einaudi nel corso del tempo ho notato questa discrepanza: copertine sempre più belle e testi con refusi imperdonabili.
    Oppure un’altra delle sviste più gravi è quando la quarta di copertina non corrisponde in modo fedele al contenuto o peggio ancora quando si rivela in essa un colpo di scena che nel libro avviene ad almeno metà lettura.
    Tante volte mi sono chiesta: ma esistono ancora i correttori di bozze? E’ colpa della fretta?

  6. Fretta e foga di azzerare i costi, Elena. Non ridurre: azzerare. Qualche anno fa io e mia moglie partecipammo allo start up, mettendoci soldi, di una piccola casa editrice, che avrebbe dovuto pubblicare poco e solo libri di qualità raccolti in giro per il mondo, in particolare in oriente (uno dei soci era italo indiano e aveva una buona conoscenza della letteratura di tutto il sud est asiatico). Dopo un annetto ci siamo dovuti sfilare tra le liti, perché la gestione del socio che aveva assunto su sé anche la parte manageriale (io e mia moglie non potevamo, lavorando e avendo due bambini piccoli) aveva di fatto ridefinito l’obiettivo aziendale, che possiamo riassumere così: pubblicare qualsiasi cosa che, venendo da posti esotici, si riesca a descrivere in termini suggestivi in modo da creare un caso; questo, ovviamente, cercando di non pagare (attenzione: non “pagare poco”, proprio “non pagare”) né gli editor né chi si occupa della comunicazione e della promozione, che possono essere efficacemente appaltati gratis a studenti da lusingare con la prospettiva di uno stage o amatori disposti a lavorare senza corrispettivo per puro hobby. Sfornammo un libro bello perché l’autore era un grande e l’editing lo fece mia moglie, che è una professionista del settore; poi il nulla e tante incazzature. Penso che la storia sia paradigmatica di cos’è oggi il mondo dell’editoria. In cui il male non sta solo in Amazon.

  7. @ danae e per chi ha scritto la mail. Ho letto la mail. Se non ti piace il modo in cui ti chiedono di lavorare perché continui a farlo? Chi ha scritto la mail cosa pensa, che arriverà qualcuno a dargli ciò che pretendono? Se la realtà è così diffusa pensate che la responsabilità non sia anche vostra? Sta scritto da qualche parte che le case editrici devono pubblicare lavori di qualità? Sono aziende private, ognuno pubblica ciò che vuole, se ti piace bene, se non ti piace non lavorarci. @ ElenaElle, stesso discorso, non ti piace la qualità di Einaudi, non comprargli i libri

  8. Faccina, secondo me, non sbaglia a sollevare la questione da un’altra prospettiva. Fa capire che se una situazione degradante è diffusa, le responsabilità non sono da ricercare in una sola direzione: guardarsi allo specchio per comprendere meglio un problema che ci riguarda, sarebbe forse un primo passo. Ossia, intervenire anche su se stessi non sarebbe cosa così stupida. Perlomeno, per non essere complici silenziosi di una gestione lavorativa scorretta.
    C’è però un problema, faccina. Oddio, di problemi ce ne sono molti…
    Il problema riguarda il “boicottaggio” di una casa editrice che squalifica le competenze: in certi casi non è possibile evitare l’acquisto di un libro presso quella casa editrice.
    Dunque, che fare, oltre che scrivere lettere di scontento in inverno?
    Iniziare delle campagne per spiegare la situazione sarebbe una soluzione, e magari incentivare una maggiore stima del proprio valore sarebbe un’altra soluzione. Perché è tanto facile da parte di un aguzzino aver a che fare con persone che non si stimano.
    Ma perché una persona non si stima? Questa è un’altra questione problematica. Assai problematica.

  9. @ ElenaElle
    non so che tipo di discussione possiamo fare, ho solo fatto un commento, se ci sono altri sviluppi posso dire altre cose, ma leggendo le tue parole questo mi è venuto, non vedo cos’altro dire. Capisco che posso sembrare maleducato o aggressivo, ma penso che sia utile dirti ciò che ti dico.
    @ Davide
    Di problemi ce ne sono certo, e io neanche li conosco tutti, per questo vorrei che se ne parlasse in maniera concreta. Però evitare l’acquisto è possibile, basta avere chiaro il perché lo si fa e a cosa teniamo di più. Ci sono anche le biblioteche. Ma non comprare non equivale proprio a boicottare, se non c’è un’azione pubblica che scredita i comportamenti di un’azienda il tuo singolo non acquisto non ha forza. Qua stiamo parlando di case editrici e di qualità del prodotto, e fra le regole civili da seguire per una casa editrice non ci sono né la qualità letteraria né la qualità tipografica né il buon editing eccetera, ergo non ti piace non ne acquisti i prodotti, non per boicottarla, ma perché non ti piace. E in ambito lavorativo non stiamo parlando di stranieri che si piegano per fame, stiamo parlando di gente con due lauree e un master.

  10. Le virgolette usate su “boicottaggio” non sono un caso.
    Però ci sono libri che non puoi evitare di acquistare. Non ti piace la politica della casa editrice, non ti piace il formato del libro, non ti piace l’impaginazione, non ti piacciono i troppi refusi, non ti piace la collocazione delle note, non ti piace che i numeri di pagina siano centrati, non ti piace la carta usata, ma, miodio, quel libro ti serve e non puoi prenderlo in prestito: sottolinei, scrivi a margine, lo consulti, lo usuri, lo consulti ancora.
    Questo per dire che capita che piacere e bisogno non si trovino spesso così d’accordo.
    Allora, ripeto: raccontare le situazioni editoriali degradanti è utile. Far sì che le persone si stimino abbastanza per non essere, loro malgrado, complici di una situazione mortificante è utile. Credo che questo aspetto non sia trascurabile.
    I titoli di studio raggiunti è vero che rafforzano la stima personale, ma è anche vero che rendono più esposti alle frustrazioni e alle mortificazioni. Può darsi che con il trascorrere del tempo, quando la soddisfazione di aver superato la prova istituzionale si spegne, la stima di sé ne sia influenzata, soprattutto per la difficoltà a concretizzare il proprio percorso di studi.

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