QUESTIONE DI PAROLE

In realtà, quando sono entrata negli studi di Ballarò, pensavo che avrei parlato di quel che sapete già, se frequentate questo blog: il decreto legge sul femminicidio (salta? non salta? accettano di prendere in considerazione l’emendamento per finanziare un inconcepibile piano antiviolenza a costo zero?), l’assalto a Boldrini (per inciso: leggete cosa scrive Massimo Guastini di Adci in risposta a chi ha dato dell’incompetente alla presidente). Chi ha visto la puntata sa che non è andata così: perché dopo aver ascoltato i giovanissimi intervistati nello spazio iniziale della Chiocciola, dopo le loro parole sulle difficoltà a immaginarsi fra dieci anni se non ricchi o sposati a un ricco, dopo aver ascoltato il duetto Cicchitto-Sallusti, be’, mi sono venute in mente altre parole. Giuste, sbagliate, fuori contesto:non lo so.  So che quelle avevo voglia di pronunciare. Così, vi dò il buongiorno proprio con Franco Fortini, l’obsoleto, “predalemiano” Fortini. Intervento sulla cultura di massa, 1989. State bene.
Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attraverso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato della parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo termine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indicava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono. Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tradizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cultura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le arti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un programma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sull’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma. D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impoverimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sapere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estremizzazione dell’individuo. La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitalismo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente contraddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chiamiamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un modello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii diverso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura»… Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capitalistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato – l’allargamento di un’area di deprivazione, di neoalfabetismo o di analfabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontanamento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi. E qui viene un punto molto importante. Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi meccanismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abbastanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informazione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediatamente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Venezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di buttare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti seduti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti”». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leggere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «Il Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferendomi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chiamiamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte. Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosiddetta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzione dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata. In che senso? Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avanzata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, artistica e scientifica … ). Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a questi livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione verso gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allargarsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cultura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione. Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad altissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria accademica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ultimo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con
delle banalità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricerca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enorme, astronomica. Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa produzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si articola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al proprio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa. Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cultura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande fenomeno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli audiovisivi. Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un particolare momento, destinato a durare, di concentrazione economicofinanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile riduzione della varietà inutile, appunto. Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Francoforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil…) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capacità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evoluzione del capitale mondiale nel tardo capitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani. La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida soltanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti dietetici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette quadri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa. Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assaliti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag. Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inquinante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamiamo le tirannie o le tragedie storiche. Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai valori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a maggioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assolutamente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è…) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per approvarla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guardi fino al momento della morte. Chi sono – mi chiedo ora, avviandomi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono certamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Adorno, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come volgarità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la C maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrugge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono continuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straordinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati. Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una proposta in quanto ho detto? Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – possiamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situazione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione n
on maggioritaria e una certa tradizione di «sinistra». Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori? E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non individuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclusivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno inizialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per l’ingiustizia e l’oppressione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «insieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventare «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale. E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta. Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai problemi della cultura, di massa o non di massa. Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediatamente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare. Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in termini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corporazione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone…). Sarebbe interessante che si studiasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre categorie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica. È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa. Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori universali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostanzialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descrissero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al giornalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla. Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa. Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sarebbero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qualcosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo dell’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, credo che essa esista.

5 pensieri su “QUESTIONE DI PAROLE

  1. Ti ho vista ieri sera, e direi che, in quel contesto, con il clima che si era creato, non avevi molte alternative. Ciò che hai detto mi è sembrato pertinente. E’ vero che la politica ha smarrito la capacità di darsi mete di lungo periodo, ed è vero anche che non sembra preoccuparsi troppo di cosa ne pensano i giovani (i figli). Condivido. Grazie per averlo detto.

  2. Un passo di una lucidità impressionante: “Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assaliti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso […] l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag”. Evidentemente i dieci filosofi di cui parlava Fortini nel 1989 hanno fatto scuola; la loro argomentazione è oggi diventata ricatto morale di massa.

  3. Aspetto un suo articolo sulle migranti violentate durante la traversata e destinate a morite in maggior numero perchè ghettizzate nelle stive per abusarne meglio, credo. Continuare a dire orrore e vergogna senza conoscere quest’altro aspetto della vicenda mi pare assurdo. Grazie e cari saluti una appassionata lettrice di mamma ce n’ è più d’ una.

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