I RAGAZZI DEL FRIDAYFORFUTURE, LA NOSTALGIA, L'ESERCIZIO DEL DISTACCO

Non ho ancora compulsato Facebook a dovere, ma sono certa che oggi sarà fitto di ricordi del primo giorno di ottobre di anni lontani, quando il calendario segnava l’inizio della scuola, e il grembiulino col fiocco, e la cartella con dentro pane e zucchero, o il Ciocorì, e i calzettoni che scendevano impietosamente perché gli elastici non erano un granché, e volendo pure i quadernoni con la copertina di velluto da riempire di pensierini sull’autunno, e volendo anche la U di Uva da colorare con la matita viola.
Ieri, chiacchierando con Edoardo Nesi sul suo romanzo “La mia ombra è la tua”, è uscita fuori questa faccenda della nostalgia: il protagonista della storia, “il Vezzosi” è uno scrittore più che cinquantenne, uno scrittore da un solo libro, ma amatissimo a distanza di vent’anni. Il punto non è la trama, ma il rifiuto della nostalgia che, dice Nesi, è quel che caratterizza l’Italia, soprattutto l’Italia. Nella meta finale del viaggio dello scrittore e del suo giovane assistente, una super-fiera del Vintage a Milano, traboccano gli oggetti degli anni Ottanta e Novanta, e anche prima: le magliette col logo delle compagnie aeree, le radio con il laccetto da polso, ovviamente i walkman e ovviamente mangiadischi e mangianastri e tutto quel che ogni tanto ci fa sospirare di rimpianto, que viva Stranger Things. Tanto che l’astuto organizzatore della Fiera ha gioco facilissimo nell’aizzare i nostalgici in una chiave che va al di là del collezionismo: stavamo meglio prima, dice, gli oggetti erano bellissimi, fragili magari ma belli, eravamo belli noi, torniamo indietro. La follia ringhia di approvazione.
Se penso alle perduranti reazioni adulte contro Greta Thunberg e le ragazze e i ragazzi del FridayForFuture, mi viene in mente proprio quel ringhio: eravamo meglio noi, si bofonchia, noi con i nostri 1 ottobre e i Ciocorì, noi cresciutelli con jeans a zampa d’elefante che, ehi, ora tornano di moda, noi che correvamo sulle nostre Clarks alle manifestazioni, noi con le giacche con le spalline nei nostri anni Ottanta pieni di cose, cose, cose che oggi, sospirando, cerchiamo nelle fiere.
Non abbiamo imparato, noi, l’esercizio del distacco: siamo stati, noi e le nostre cose, ora è un altro tempo. Quel tempo non ci appartiene che in parte: la nostra strada è più breve delle ragazze e i ragazzi che affollano le piazze. Va lasciata libera. E dovremmo essere liberi anche noi, di riempire in altro modo il tempo nostro, senza l’abbuffata nostalgica che porta a una sola realtà. Stare fermi, e ringhiare.

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