Vi siete mai chiesti perché in non pochi romanzi distopici Roma salti in aria? D’accordo, il Vaticano, la portata simbolica e tutte quelle cose là. Però ogni tanto penso che c’è qualcosa, in questa città, che suscita il desiderio oscurissimo di vederla distrutta. E c’è, credo, soprattutto in chi ci è nato e cresciuto.
Sono nata a Roma negli anni in cui la periferia coincideva con l’inizio della campagna. Abitavo a quello che si chiamava, con retaggio colonialfascista che allora non capivo, Quartiere Africano. In certe mattine, quando uscivo per andare a scuola, la mano nella mano di mia nonna, vedevo greggi di pecore accompagnate dal pastore dove oggi passa la tangenziale. Allora c’erano luoghi fiabeschi come il Cim, il palazzo “tutto di vetro”, e piazza Navona quando era Natale. C’erano alberi che fiorivano in primavera e via della Bufalotta, che oggi è un quartiere, sembrava la Terra di Mezzo quando la guardavo dal sedile posteriore dell’automobile.
Ci sono cresciuta, a Roma, in tempi in cui la giovinezza significava vivere il centro storico, camminare, scoprire i Caravaggio a San Luigi dei Francesi, prendere il sole nella piazza del Pantheon, mangiare carbonara in misteriosi buiaccari che spuntavano sotto archi seicenteschi.
Ci sono diventata madre, a Roma, guardando il fiume dall’Isola Tiberina, e poi imparando a mie spese cosa significasse salire su un autobus con un passeggino (pieghevole: i benedetti passeggini li ho sempre scelti magari bruttarelli ma che si potessero chiudere con un colpetto del piede, e prendendo il figlio o la figlia in braccio) o fare lo slalom con la carrozzina fra le automobili parcheggiate sul marciapiede. E poi, più avanti, cosa significasse accompagnare i bambini a scuola nella follia delle otto di mattina.
Così, nell’autunno del 2000, esattamente 19 anni fa, ho detto basta: ho poggiato le chiavi dell’automobile sul tavolo e non ho più guidato in questa città. Devo, avevo pensato, salvare i miei nervi, e non si può essere automobilista a Roma e mantenere i nervi saldi.
E’ una scelta che si paga: da allora non ho mai più visto Roma nei miei tragitti mattutini e serali se non nel breve tratto della metro A che si dirige verso Lepanto, uno squarcio di bellezza straziante subito inghiottito dal tunnel. Certo, la vedo ancora: ma nei tempi che questa città impone, per cui se la sera decidi di uscire devi fare i conti con ogni imprevisto. Per esempio, la metro B che fino a dicembre chiude alle 21 e per tutti i weekend, sempre fino a dicembre, si ferma a Castro Pretorio, dunque se devi prendere un treno alla stazione Termini ti arrangi con la navetta e con l’assalto alla medesima.
E, ecco, amo questa città e la detesto dal profondo del cuore. Ne amo la bellezza storta, che resiste ai millenni, ne amo i tramonti e le albe, ne amo il fiume zozzo. Ma la detesto perché non posso viverla, perché non so cosa mi aspetta quando esco di casa e affronto la prima delle quattro metropolitane quotidiane, e se sarà rotta stavolta oppure no, il servizio è solo rallentato. La detesto perché non sa far fronte alla più prevedibile delle complicazioni (le scuole riprendono, oltre ai turisti e ai lavoratori ci sono gli studenti, e i treni sono pochi), e perché non si accettano critiche, la colpa è sempre tua, tua, che ti tieni in casa per giorni la carta e la plastica e l’indifferenziata perché i cassonetti sono sempre pieni, e ci sarà pure il romano fetente che butta il materasso, ma tu paghi anche per lui, e paghi l’AMA, salatissima, e paghi i tuoi 35 euro mensili di abbonamento ATAC anche quando ne usufruisci a balzelloni.
Ma non puoi manco dirlo, perché la sindaca non si tocca, è buona e brava: e avrà pure ereditato decenni di incompetenze, la benedetta sindaca, ma di certo non sa far fronte al disagio, alla tristezza, al disamore di tanti che, come me, aspettano solo il momento giusto per dire addio, e ritrovare il tempo che a tutti noi spetterebbe il tempo di camminare, guardare, incontrarsi, e che ci viene sottratto. Salvo rimpiangere tutta la bellezza perduta, ma invivibile, di questa città.
Come comprendo queste tue affermazioni! E non sono nato a Roma, e ci ho vissuto in altri tempi, con ben altre Amministrazioni Comunali. Ma i problemi già c’erano, anzi, grazie a uno dei miei professori di Storia che a Roma vive, ho scoperto fin dai tempi della scuola che sono gli stessi già all’epoca del glorioso Impero. Mi vien da dire che è una maledizione che si addice all’intera Italia: bellissima e invivibilissima a causa di tante e tanti di noi che l’abitiamo e la amministriamo.